Compagno comandante, dove stiamo andando?
Prima del passo Cacciatori c’è il ricovero che fa per noi.
Perché così in alto, a che ci serve?
È un posto sicuro. Qui i nazisti non ci raggiungeranno.
Nemmeno noi raggiungeremo loro. Quali azioni possiamo organizzare da quassù, se ci mettiamo tre ore a scendere? Non è da qui che passeranno i tedeschi.
Gli ordini sono di trovare un luogo nelle retrovie per riorganizzare la resistenza, giù rischiamo i rastrellamenti.
Sarà, compagno, ma non mi convince.
Sono uscita di casa al primo sole del mattino e mi sono trovata di fronte un tipo mai visto da queste parti. Camminava con l’andatura del montanaro, passi decisi e falcata lunga, sembrava giovane ma aveva capelli bianchi raccolti in un codino e barba candida. Portava uno zaino di tela militare e scarponi da montagna di quelli di cuoio grosso che usavano una volta. Legato intorno alla vita gli pendeva un poncho rammendato con fili colorati. Mi ha fatto un cenno di saluto ed è passato oltre. Mentre cercavo funghi l’ho incontrato di nuovo. Non erano passati che pochi minuti quando l’ho scorto in alto, sul sentiero che porta alla cima, come faceva a essere già lassù?
Il grande letto matrimoniale, l’unico che c’era e che c’è, conteneva tutta la famiglia, me in mezzo fra mia madre e mio padre. Questa baita sperduta era la sua casa prediletta. L’aveva costruita con le sue mani e il suo tempo.
Mia madre non l’amava, spesso ci andavamo io e lui. Gli dormivo appiccicata alla schiena. Mi portava a funghi, mi insegnava a distinguerli. Mi abituava a salire lungo i sentieri. Anche se ero stanca andavo avanti per non deluderlo. Così ho imparato a conoscere la montagna e ad arrampicare.
Mio padre era tutto per me.
Saliamo un’ora senza più parlare, la salita è dura e penso quanto peserà portare fin qua armi e munizioni. Mi sento inquieto. Quello che il comandante dice non ha senso, che resistenza si organizza a duemila metri?
Siamo ormai quasi al passo e del ricovero non scorgo traccia.
Compagno comandante dove sarebbe questo ricovero?
Compagno fermati devo leggerti gli ordini del comando di Brigata.
Siamo a un passo dal burrone, comincio a capire dove vuole arrivare.
In nome del comando della Brigata Garibaldi Alta Carnia sei condannato alla fucilazione come spia dei fascisti.
Mi punta la pistola alla tempia, io estraggo la Beretta e sparo. Non sparo niente, qualcuno ha tolto il caricatore.
Lui sogghigna. Credi che sia così scemo da lasciarti un’arma carica?
Il primo scorpione l’ho visto sulla soglia, dove lascio le scarpe per indossare le pantofole. Era grosso, marrone scuro. Mai visti prima scorpioni in questa casa. È una casa pulita e per niente umida, anche se vecchiotta.
Trovavo spesso grossi ragni nel bagno al piano terra, urlavo, mio padre arrivava di corsa, li copriva delicatamente con un bicchiere, poi ci faceva scivolare sotto un foglio, capovolgeva il tutto e andava a liberarli in giardino. Mia madre era più spiccia, li schiacciava con una ciabatta. In tutta onestà preferivo il metodo di mia madre. Oggi mio padre e mia madre non ci sono più. Ho ereditato la casa. Ci venivo con mio marito e Carolina. Ora Carolina sta in America e mio marito è morto. Ci vivo da sola e i ragni non mi fanno più paura. Va peggio con gli esseri umani, che preferisco evitare.
Però questo scorpione mi inquieta. È un essere delle profondità, primo aracnide uscito dall’acqua e sopravvissuto a tutte le ere.
Ho pochi secondi prima che mi ammazzi.
Lo sai benissimo che non sono una spia. Tu mi ammazzi per motivi personali. Mi fai schifo, compagno. Mi ammazzi perché ti ho rubato la donna.
Il comandante abbassa la pistola e mi tira un ceffone.
Non sono stato io a cercarla, non l’avrei mai fatto. È venuta lei da me, bruciava di desiderio.
A onore del comandante devo dire che da questo momento la battaglia si è svolta ad armi pari, a cazzotti.
Lui mi ha colpito alla testa, ho vacillato, ma sono agile e ho fatto in tempo a scartare e a rispondergli con uguale forza, siamo finiti a terra. Ci siamo rotolati avvinghiati con il precipizio a due passi.
Se muoio io muori anche tu, ho mugolato.
Che sbaglio, così gli ho dato forza, mi ha tempestato di pugni; io ho fatto altrettanto ma lui è robusto e ha mirato alla testa.
È riuscito a scaraventarmi nel burrone. Mi sono schiantato sulle rocce.
Oggi un’altra orrenda sorpresa, spostando la legna da ardere è uscita fuori una scolopendra: una vera scolopendra italiana, non una scutigera, che a quelle ci sono abituata. Da bambina le temevo ancora più dei ragni, mi facevano schifo con quelle quindici paia di zampette velocissime. Le immaginavo in agguato negli anfratti, pronte a uscire con il buio. Prima di coricarmi scostavo il letto dalle pareti, altrimenti mi era impossibile prendere sonno. Ero ossessionata dall’idea che mi cadessero addosso. Di notte mi bastava accendere la luce per vederle correre sui muri. Terrificante. La casa di città, dove sono cresciuta, ne era infestata. Avevano un bel dirmi che erano innocue, mia madre dava loro battaglia a suon di ciabatte, ma spesso le sfuggivano e anche lei rabbrividiva. A me perfino la vista dei loro resti spiaccicati risultava raccapricciante.
Ma quella che è uscita dalla legna, un artropode munito di corazza e ventitré zampette per lato – non che le abbia contate, ho trovato l’informazione su internet – è veramente velenosa, molto più dello scorpione e di qualsiasi altro ragno. La mia era lunga almeno dieci centimetri ed è fuggita orrendamente rapida sotto i mobili della cucina. Non sono riuscita a schiacciarla e adesso che faccio?
Non ha avuto nemmeno il problema di far sparire il cadavere. Ci hanno pensato gli avvoltoi e i gracchi.
Così sono vivo. Mi infilo negli esseri, compaio e scompaio. Osservo e mi lancio, la preda che dilanio è vita che si compie, e ricomincia. Procedo con passo da cacciatore di montagna e non lascio impronte, solo un vago senso di perdita e d’infinito.
Mi sono svegliata per andare in bagno, volevo accendere la luce per controllare se qualche aracnide si era infilato nelle ciabatte, ma ancor prima di premere l’interruttore l’ho visto. Per terra, di un azzurro fluorescente che sfiorava il turchese, c’era uno scorpione con la coda inarcata e le chele alzate. Era spaventosamente bello. Non ho avuto coraggio di ucciderlo, sono corsa a prendere scopa e pattumiera e l’ho buttato in giardino, più lontano possibile da casa.
Lui ha taciuto la verità, le ha raccontato che ero stato fucilato ad Attimis insieme a molti altri, donne e bambini, i corpi bruciati nelle case del paese, irriconoscibili. La mia tomba è un monumento senza ossa. Lei mi ha pianto ma infine lo ha sposato. Il comandante ha preso il mio posto, ma ha dovuto crescere una vita che veniva da me, ha dovuto amarla come fosse sua per scoprire che non era né sua né mia.
Questa sera prima di andare a dormire ho spostato il letto e sbattuto coperte e lenzuola, non ho trovato nessuno scorpione e nessuna scolopendra, così ho preso sonno.
Non saprei che ora era quando mi sono svegliata e ho sentito qualcuno russare accanto a me. Il cuore si è fermato, il sangue ha rallentato, mi sono detta: è finita, questo cuore non riparte.
Non so per quanto tempo non ho avuto pensieri. I pensieri fanno parte della vita non della morte. Ho atteso. Con un battito aggiuntivo il cuore ha spinto avanti il sangue. La vita ha ripreso a scorrere nelle arterie.
Ho pensato a mio padre. Questo era il suo letto. Ho sentito la protezione del suo corpo, mi è venuta voglia di rannicchiarmi vicino a lui, come facevo da piccola. Ne ho ascoltato il respiro e il russare sereno e regolare. Dormivo accompagnata da quel ritmo, anziché disturbarmi mi tranquillizzava. Questo è uguale.
Potrebbe essere mio padre. Voglio che sia lui, tornato dall’altra vita. Oppure sono io che sono morta e l’ho raggiunto?
Mi avvicino piano alla sua schiena. Sono certa che è lui. Come è bello sentirlo ancora russare, mi rassicura. Lo tocco: è un corpo vivo. Sento le costole andare su e giù a ogni respiro. Vorrei abbracciarlo.
Mi colpisce un intenso odore di terra e di foglie morte. E poi un afrore pungente di selvatico. Questo non è mio padre, è un animale. Gli aderisco ancora di più, respiro con lui.
Che pena i sentimenti degli uomini. Ha continuato a venire quassù con la donna e la bambina. Pensava di espiare. Non c’è niente da espiare. Tutto è già morto e rinato, tutto, nell’aria e nella terra.
Copertina originale di Gabriele Merlino
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Barbara Vuano è nata a Belluno. Vive fra Udine e Grado. Ha pubblicato racconti e biografie in libri collettanei per Kappa Vu, Udine. Ha pubblicato la raccolta poetica Il tempo ti guarda scorrere, (Samuele Editore 2017) e il saggio antropologico Nascere nella cenere, (Forum Editrice Universitaria 2022).