Sassi

Sassi

Mangiamo sassi a pranzo e a cena. Cucchiaiate di sassi. Mia moglie ci aggiunge un panino, io nient’altro. Buttiamo giù i nostri pasti con tanta acqua e un dito di vino rosso.
Li raccogliamo sulle mura cittadine, scegliendo quelli grandi la metà della biglie di vetro con cui giocavo in spiaggia da bambino. A casa, li sciacquiamo nel lavandino, grattandone via la terra con una spazzola da unghie. Facciamo attenzione a scegliere i più levigati perché scendono meglio in gola ed escono senza sforzo quando andiamo al bagno, dove tintinnano sulla ceramica del water, adagiandosi sul fondo dell’acqua. Sembrano le palline di cacca delle capre.
“Siamo come il lupo cattivo di Cappuccetto Rosso” dico a mia moglie. “Con lo stomaco pieno di sassi.”
“Almeno mangiamo” commenta.
“Che non può neppure scappare, ma stramazza a terra e muore.”
“È un periodo terribile. Sono già due anni che non abbiamo un vero lavoro.”
“Poi il buon cacciatore si prende la sua pelle.”
Mia moglie non risponde, si alza dal tavolo per riassettare.
Durante il giorno, per far passare la fame, tengo in bocca un sasso grande come una caramella, di quelle con il guscio duro di zucchero, trasparenti, con dentro un’anima di sciroppo dolciastro. Lo accarezzo con la lingua, sento la saliva bagnarlo, renderlo vischioso. Quando lo tolgo di bocca è ricoperto da bollicine, che a contatto con l’aria si seccano e creano una membrana scintillante come vernice. A volte lo stringo tra i denti, per saggiarne la durezza. È come mordere un altro dente. Chissà quanto tempo serve prima che riesca a sbriciolarlo. Troppo, penso, potrei morire prima. Quando rumino il sasso mi sembra quasi di avvertire un gusto, infinitesimale e distante, che cerco di inseguire senza mai raggiungere. Credo sia solo la mia immaginazione.
Abbiamo lasciato, o spedito, non ricordo quanti curricula ad agenzie interinali, cooperative sociali, enti di formazione, librerie, sperando in un lavoro simile a quello che facevamo. Poi a supermercati e a ditte di pulizia. Nessuno ci ha mai risposto.
Mia moglie e io stiamo dimagrendo. Lei è sempre stata esile. Quando l’abbracciavo toccandomi i gomiti con le mani, mi sembrava di avvolgerla con il petto. E lei rimaneva lì, con la testa reclinata, mentre immergevo le labbra nei suoi capelli. Ora, quando le distendo una mano in mezzo al petto, per farla addormentare più serena, mi pungono il suo sterno e le costole. Di me ho notato, facendomi la doccia, che le braccia e le gambe, più secche, danno l’impressione di essere più lunghe. Sembrano zampe di ragni o di insetti.
È che a sessant’anni trovano che siamo troppo vecchi per un lavoro, ma troppo giovani per la pensione.
Ieri ho appoggiato un sasso, grigio e opaco come il cemento, al centro del palmo della mano, un piccolo uovo sterile nel nido tiepido della mia carne. Ho stretto il pugno fino a conficcare le unghie nella pelle ed è scomparso, sentivo solo un nodulo duro che, continuando a stringere, diventava parte del mio corpo. Quando ho disteso la mano e l’ho visto, è tornato ad essere un sasso. Ho stretto il pugno e aperto la mano più volte. La sua immobilità e indifferenza mi tranquillizzava. L’ho appoggiato sul tavolino in salotto ed è rimasto lì. L’ho spostato con il dito e non si è più mosso. Penso a un sasso sferzato dalla pioggia o arroventato dal sole, oppure accarezzato dall’acqua di un fiume. Non reagisce. Non chiede nulla, né ha bisogno di nulla.
È nulla.
“Voglio essere un sasso” dico a mia moglie.
“Guarda” mi dice lei, “ho raccolto questo per te.”
Apre il pugno e mi mostra una pietra azzurra, trasparente, liscia come una perla. È della grandezza dei sassi che raccogliamo, e ha il colore del cielo limpido delle mattine di primavera, che non abbiamo più ammirato perché stavamo con gli occhi bassi.
“Mangialo tu” le dico, distogliendo lo sguardo.
“No. È per te.”
Avvicina la mano al mio viso. Mi chiedo che differenza faccia azzurro o grigio. Il diverso colore mi farebbe trovare un lavoro? Mia moglie prende il sasso tra il pollice e l’indice, e me lo appoggia sulle labbra, spingendomelo in bocca con delicatezza. Se fossi un sasso non m’importerebbe di colori e forme.
“È buono” mento, anche se ha solo il gusto della polvere.
Mia moglie mi fissa negli occhi, come per cogliere, o risvegliare, una vecchia scintilla. Fingo di ravvivarla per non deluderla.
Poi ci chiniamo come animali per brucare i nostri prossimi pasti.
Concentrato a scegliere i sassi più levigati e rotondi, ne vedo uno color nocciola attraversato da sottili strati di minerale bianco. Questo è per mia moglie, penso, e sento il frullo provato da bambino quando sul bagnasciuga raccoglievo le conchiglie che poi accumulavo nel secchiello di plastica rossa per mostrarle orgoglioso a mia madre. Un umido tesoro, asciugato dal sole in terrazzo, del quale mi era permesso conservare gli esemplari più rari e inusuali da esporre sugli scaffali della mia cameretta, davanti ai libri ordinati in tre file, accanto a sassi insoliti, bottigliette con sabbie colorate, soldatini di ferro smaltato, fischietti e altre meraviglie.
Sto per gettarlo con gli altri, ma riesco a trattenere quell’antico stupore infantile.
“Vuoi?” dico a mia moglie, il sasso color nocciola con le righe bianche sul palmo aperto della mano.
Mi sorride.

Copertina originale di Ottavia Marchiori

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