Non pensavo sarebbe finita così. Ricordo bene ogni dettaglio: era una mattina quasi come tutte le altre e nulla lasciava presagire lo sviluppo successivo; eppure quel quasi, di per sé, rappresentava già un campanello d’allarme. Mi preparavo per andare al lavoro, ma non nello stesso modo di sempre e questo mi fregò. Lo confesso: ero un ritardatario seriale, nella vita come sul lavoro. Ma ero anche un elemento considerato fondamentale dall’azienda, perciò mi aveva concesso l’ingresso personalizzato, unica clausola recuperare sull’uscita il tempo perso in entrata. Un sistema semplice, in fondo: avevo accettato l’accordo senza batter ciglio. Ero… anzi sono… scusate, faccio fatica a collocarmi nel tempo: non sono proprio passato, ma non sto nemmeno esattamente passando… comunque, dicevo? Sì, ecco, sono solo e il lavoro mi piaceva e, quando ritardavo, dipendeva esclusivamente dal fatto che non potessi farne a meno. Arrivare tardi la mattina, tornare tardi la sera era il mio ideale di vita. Arrivare tardi, più in generale, è il mio ideale di vita. Il ritardo fa parte della mia costituzione, del DNA.
Single per odio sincero nei confronti dell’umanità tutta, misantropo, asociale, detestavo i miei simili democraticamente, senza distinzione di genere, razza, età, senza pregiudizi né preferenze; orfano da molto, evitavo la frequentazione di quei rari parenti che mi erano rimasti; i miei ritardi perciò non dipendevano da cause familiari, imprevisti filiali e tutto quello che poteva comportare una vita sociale: i miei ritardi erano proprio e solo merito mio. Avevo un talento naturale. Avete presente quando si dice “è un artista nel disegnare”? O “è un artista nel lavorare il legno”? Ecco, io ero un artista nel ritardare. Non davo mai agli altri né a cause esterne la colpa: tardare era una mia responsabilità. Ne andavo fiero. L’arte di perder tempo l’avevo perfezionata lungo tutta la vita: mi era bastato assecondare, con dedizione, la propensione naturale a dilazionare e, prima di rendermene conto, ero diventato un maestro. Già alle elementari mia madre non riusciva a farmi arrivare puntuale alla fermata dell’autobus. La maggior parte delle volte, era costretta a inseguire il pullman o a portarmi lei stessa a scuola. Al liceo ero diventato un professionista: non sapete quante lezioni ho saltato, solo perché arrivavo dopo la chiusura dei cancelli; per non parlare delle volte in cui i professori mi sbattevano fuori, quando rientravo dall’intervallo con dei gran quarti d’ora di ritardo. Ero un mago nello scomparire, nemmeno l’istituto fosse stato il labirinto del Minotauro; mi inoltravo nei meandri dei corridoi e da lì riuscivo a far passare, minuto a minuto, ore, senza alcun motivo né scopo, tranne quello di non arrivare puntuale. Ma, essendo uno studente egregio, riuscii a superare incolume le superiori. L’università fu una pacchia, poi: senza obbligo di frequenza, la mia natura da indugiatore patentato poté esprimere molto del proprio potenziale. Riuscii a laurearmi perché il mio relatore, conoscendomi, mi telefonò il giorno prima della tesi, per informarmi che c’era stata una modifica nell’orario, dandomene uno falso, anticipato di qualche ora su quello reale della discussione. Seguirono i colloqui di lavoro: intere mezz’ore di ritardo. A onor del vero, avvisavo puntualmente: comunicavo di essere in ritardo di cinque minuti, per poi richiamare e informare di un nuovo ritardo di altri cinque minuti su quello iniziale, e così via, fino ad arrivare alla soglia dell’ora. Come io sia riuscito a trovare un impiego e pure gradito resta tutt’ora un gran mistero. La vita premia gli audaci, sostiene un vecchio detto. Nel mio caso, la vita premiò me, un ritardatario sfacciato e impenitente, senza pudore né vergogna. Ma il mio capolavoro fu a un appuntamento con una ragazza, al tempo dell’università, una delle poche volte in cui provai a essere una persona normale e a mettere la testa a posto fidanzandomi: arrivai all’incontro tre ore e cinquantasette minuti dopo l’orario stabilito. Lei attendeva con le lacrime agli occhi, a metà tra il furioso e il disperato, e con la voce spezzata dal nervoso sibilò: «Trentuno messaggi nei quali continuavi a ripetere come un mantra “Sono in ritardo, ma arrivo”. Sai perché ho aspettato? Solo per vedere se avresti avuto il coraggio di presentarti.»
Mi tirò un calcio, quando candidamente risposi: «Scusa, perché non avrei dovuto presentarmi?»
Vorrei dirvi che provai rimorso, vedendola fuggire in preda alle lacrime e a una crisi di nervi. Mentirei. L’unica cosa che pensavo era che non sarei riuscito a replicare una tale opera d’arte, nemmeno impegnandomi. Infatti. Non raggiunsi mai più simili vette di sublime.
Vivendo così, arrivai al fatidico giorno che mi cambiò il destino. Uscii per andare a prendere la metro: per la prima volta, da quando ho memoria, ero puntuale. Un atto di generosità nei confronti del datore di lavoro: mi aveva pregato di esserlo, poiché era prevista, in prima mattina, un’importante riunione, vitale per l’azienda. Non partecipo… non partecipavo alle riunioni con i clienti, ma, quella volta, la mia presenza era necessaria per illustrare un progetto a cui lavoro solo, cosa da me specificatamente chiesta e ottenuta. Così, per mantenere l’autonomia lavorativa, avevo deciso di compiere l’impresa di arrivare in perfetto orario. Ed ero davvero puntuale. Puntuale alla fermata della metro che puntualmente, anzi in anticipo di ben dieci minuti, mi avrebbe portato sul posto di lavoro. Non so bene come andò, forse una spinta, l’effetto domino di qualcuno che inciampando causò la caduta; ricordo solo le budella e i brandelli del braccio destro che correvano veloci dinanzi a me, sparpagliandosi sui binari. Non ebbi nemmeno il tempo di realizzare cosa stesse accadendo che mi ritrovai più-o-meno-morto. La quale condizione ancora persiste e sarebbe un po’ meno sgradevole, se non fosse per le interiora a penzoloni, sulle quali ogni tanto inciampo, e un braccio stracciato, inutilizzabile. Non è il mio aspetto reale. Me lo spiegò un tizio che conobbi poco dopo il quasi-decesso, si trovava nella medesima situazione: mi raccontò che, nel limbo prima di morire definitivamente, le anime, passatemi il termine, si vedono così come si ricordano nell’ultima immagine che hanno di loro stesse, mischiata alla percezione generale del sé. Scoperto questo, ho provato a concentrarmi per modificare il come mi vedo, ma non ha funzionato granché: ho sistemato alla meglio il ventre, in modo che le interiora stiano più… raccolte, ordinate; e sono riuscito ad aggiustare e riappiccicare qualche pezzo di braccio, ma la mano pende ancora come una borsettina, spesso nemmeno la riconosco.
Il trapasso parziale ha qualche vantaggio, però. Ciò che mi circonda è sfumato, lievemente mosso, simile a un’immagine riflessa in uno specchio d’acqua, sconquassata da un sasso cadutoci sopra. Avete presente lo sfumino di Photoshop? Sembra che qualche inesperto grafico improvvisato abbia usato il ditino sfumatore sul mondo, rendendolo vago, indistinto, ma non statico. Il che me lo fa sembrare quasi bello, a metà tra il poetico e il vertiginoso, con una nota malinconica di fondo. Le persone, poi, non le devo vedere in faccia, non chiaramente almeno, e questo le rende sopportabili.
Insomma, quella mattina, dopo essere più-o-meno-morto, mi trovai in questa nuova forma sul binario; ai piedi, anche se non potevo distinguerlo perfettamente, quello che era stato il mio corpo in vita, sbrindellato e immobile. Rimasi un po’ a fissarmi, sentivo le grida, distinguevo i flash dei cellulari che mi immortalavano il cadavere (pessima battuta, ma, se foste nelle stesse condizioni, vi assicuro, sviluppereste un salvifico, anche se discutibile, senso dell’ironia). Mi guardai a lungo, cercando di capire, di razionalizzare l’accaduto, per accorgermi che ormai tutto quello che stava accadendo non aveva per me alcun senso. A un certo punto, una voce chiamò. Non dovetti nemmeno cercare, mi voltai e dinanzi a me si dipanò una strada di pietre e ferro: giungeva oltre le pareti della stazione della metropolitana, attraverso una lunga galleria, alla fine della quale si intravedeva una fioca luce. Cominciò a scorrere, come fosse un nastro mobile di un centro commerciale o di un aeroporto, portandomi verso il tunnel nel muro, e, lungo il percorso, tante altre lingue mobili si unirono a quella dove mi trovavo, trascinando altri compagni di sventura. Giunti dinanzi a un bell’ufficio con delle grandi vetrate dalla quali si poteva vedere l’interno, una sorta di butta dentro, un welcome-boy, ci sollecitò a entrare e ad accomodarci nella sala d’attesa. Lì, tra piante rigogliose e assistenti sorridenti, fummo invitati a sederci: ci avrebbero chiamato quando sarebbe stato il nostro turno. La sala, in realtà, era una sorta di magazzino di smistamento per gli spiriti, che venivano distribuiti nell’aldilà in base alla vita condotta. Lo smistatore era una specie di cane antropomorfo, tipo Pallino di Cuore di cane di Bulgakov, o, almeno, così me lo sarei immaginato, se avessi dovuto farlo. Quando fu il mio turno, il cane-umanoide, senza mai alzare la testa dall’enorme registro che aveva dinanzi a sé sulla scrivania, chiese le generalità: «Nome, cognome e data di nascita, prego». E, dopo avergli comunicato i dati, iniziò a cercare, scorrendo su e giù le varie pagine, prima tranquillo, poi con sempre maggior foga e agitazione, sfogliando e risfogliando, per concludere un po’ a disagio: «Attenda un attimo per favore: devo fare una telefonata».
Si spostò in un’altra stanza, sempre con le pareti a vetrate, per telefonare con un apparecchio di quelli che nemmeno ricordavo fossero mai esistiti, a cornetta con la rotella per selezionare i numeri. Quando tornò indietro, chiaramente sollevato, pensai che si fosse risolto tutto, e infatti con tono trionfale esordì: «Lei non è nella lista. È congedato, vada pure.»
«Cioè? Mi fate tornare alla… mia vita?» chiesi incredulo e incapace di capire come avrebbero fatto a ricacciarmi nel cadavere macellato e a restituirmi un’esistenza dignitosa, dato che mi pareva evidente, a quel punto, che ci fosse stato un errore e non fossi stato io a commetterlo.
«No, affatto.»
«Scusi? Non capisco… »
«Lei è in anticipo. Verrà trasferito alla destinazione finale solo quando sarà giunta la sua ora. Perciò per il momento è libero di andare dove meglio crede.»
«Dove meglio credo? La mia ora? Ma di che diavolo sta parlando?»
«Dell’ora del trapasso definitivo» mi comunicò Pallino, con assoluta serenità. Poi, con forzata educazione, forse comprendendo il mio stato di disorientamento, cercò di spiegare: «Senta, lei non doveva morire oggi, perciò non possiamo fare niente per il suo trasbordo. Mi dispiace che lo venga a sapere a questo modo, ma se ne deve andare: non può restare qui.»
«Cioè, mi faccia capire, sta dicendo che sono morto in anticipo e quindi sarò costretto a vagare tra i vivi come… come un fantasma, finché non sarà giunta la mia ora esatta?!»
«In realtà, i fantasmi non esistono. Ma, sì, lei è in anticipo sulla sua morte, perciò dovrà rimanere parcheggiato al di qua dell’aldilà fino a diversa disposizione. Ci premureremo di contattarla quando sarà il momento.»
Non so esattamente quanto tempo passò prima che gli ingranaggi del mio cervello si rimettessero in moto. Ricordo di averlo fissato lungamente, mentre, con il capo sempre chino sul libro dei morti, mandava a chiamare l’anima in attesa dopo di me. Quando il mio successore si fece strada, Pallino si accorse che non mi ero mosso di un passo.
«Cosa ci fa ancora lì?» mi interrogò, guardandomi in volto finalmente per la prima volta da quando ero entrato nella stanza «Non ha sentito cosa le ho detto?»
«E cosa dovrei fare io fino a quando voi non mi convocherete?» domandai sgomento.
«Signore, questo non è un mio problema. Faccia ciò che vuole. Che so? Si trovi un hobby per ammazzare il tempo. Adesso la prego di andarsene, come può vedere ho molto lavoro da sbrigare.»
Forse avrei dovuto gridare, puntare i piedi, fare casino, ma interiormente una vocina mi ripeteva che a nulla sarebbero valsi i miei tentativi e, poi, non sono tipo da scenate. Così, rassegnato, andai via. Tornai alla stazione della metro, dove ancora c’era un gran trambusto per via dei miei resti sparpagliati qua e là.
Da quel giorno, non è un successo granché. All’inizio avevo pensato di approfittare della situazione per viaggiare in giro per il mondo a costo zero e senza fatica, ma, ci credereste?, chi finisce come me, in questa specie di limbo, è confinato nei luoghi conosciuti in vita: posso muovermi solo nei posti della mia quotidianità. Ho conosciuto altri che avevano avuto, diciamo, lo stesso problema. Alcuni addirittura arrivati in ritardo alla loro morte, perciò costretti ad aspettare che qualche ritardatario come loro saltasse il turno, per poter prenderne il posto. Ma per quelli morti in anticipo non c’è via di fuga, resta solo l’attesa. Lo trovo scorretto, ho pure protestato, ma non è servito a niente. Comunque, come vi dicevo, ne ho incontrati altri nella mia condizione. Ci riconosciamo tra di noi, riusciamo persino a interagire: li raggiungevo al tramonto, al parco, come anziani in pensione. Ci raccontavamo le nostre giornate e ricordavamo i tempi andati. Duravano qualche mese, un anno al massimo, e poi via, richiamati dall’ufficio smistamento e diretti alla destinazione finale. Non che provassi piacere nel vederli, ma almeno mi distraevo. Ora è un po’ che non ce ne sono più in giro di quelli della mia… razza. Non da queste parti. Passo le giornate in completa solitudine, la mia asocialità può considerarsi pienamente soddisfatta. Con il tempo ho imparato a influenzare la realtà dei vivi. Cose minime, ma all’inizio mi hanno aiutato a tirare avanti. Come, per esempio, materializzare la propria immagine sulla vetrina di qualche negozio, ma solo i bambini riescono a vederla e, il più delle volte, scoppiano a piangere terrorizzati. E sentire i bambini lagnarsi non mi diverte affatto, anzi, da vivo come da più-o-meno-morto, mi irrita alquanto, così alla fine ho lasciato perdere. Mi trastullo, a volte, facendo accadere dei piccoli incidenti a quelli che vanno di fretta, gli iracondi del ritardo, gli foro le gomme; li vedo partire a tutta birra, per poi assistere ai loro eccessi di rabbia e alla loro impotenza dinanzi a due o tre pneumatici forati. Gli nascondo cose, in modo che diano di matto prima di uscire di casa. Mando in tilt i contatori delle utenze: tanto le grandi compagnie non lavorano in perdita… che volete che siano qualche metro cubo d’acqua o di gas regalati a caso alla collettività? Quando sono particolarmente ispirato, faccio saltare i terminali degli uffici bancari e assicurativi e qualche bancomat in giro per la città, regalando contante a chiunque passi. Oppure mi dedico a cose meno nobili, tipo scoreggiare nei luoghi affollati. Questo sì che è divertente. Non so come ciò sia possibile, nemmeno mangio!, ma emettere gas odoranti mi riesce a comando. La cosa che prediligo è farlo negli ascensori all’ora di punta: le chiamo scoreggie-ninja… non le senti arrivare, ma sono fatali quando colpiscono. Mi mischio ai gruppi barbarici di civili in corsa, verso i propri uffici, e sgancio una serie di silenziose, letali loffe. Dovreste vedere che scene! Le reazioni della gente sono esilaranti. Scoppia il pandemonio! Sì, non è proprio quello che si possa definire un comportamento encomiabile, ma mi annoio. E, comunque, se vi può consolare, alla lunga questi espedientucci non riempiono più le mie giornate come all’inizio. Spesso mi trascino attraverso i miei non-giorni, lasciando che il tempo mi passi addosso. Quasi invidio la mano penzolante: lei, almeno, è morta davvero! Perché, minuto a minuto, ora a ora, sono trascorsi anni dal mio non-decesso. Ventisette ne sono passati. Sono ventisette anni che attendo il momento definitivo. Sono stato più volte all’ufficio di smistamento; basta che lo desideri e quello appare, la strada inizia a muoversi e mi conduce dritto dinanzi a Pallino che, sempre, ripete la stessa cosa: «È inutile che venga. La chiameremo noi quando sarà la sua ora.»
Ho pure provato a corromperlo, per velocizzare le pratiche del trapasso, ma non c’è stato verso. Del resto, cosa potrei offrigli per ottenere un qualche risultato soddisfacente?
La verità è che la mia puntualità è stata veramente inopportuna. E questo destino che mi tocca in sorte è quantomeno ingiusto.
Ho fatto i conti: sommando i ritardi di cui ho ricordo preciso e facendo un calcolo a stronco di tutti gli altri, anche abbondando generosamente, e con la scusante che sono morto in anticipo, arrivo al massimo a cinque anni di attesa a cui ho costretto gli altri nell’arco della mia vita da vivo. È l’unica cosa che non riesco a digerire, ciò che rimpiango: questa specie di contrappasso non me lo sono meritato.
E, forte di tale nuova consapevolezza, questa mattina ho saltato la chiamata. Quando ho sentito la voce e ho visto la strada mobile di pietre e ferro apparire e iniziare a scorrere, oltre a ogni cosa che mi stesse davanti, fino all’ufficio di Pallino, che, pur non potendo ancora vedere, potevo comunque immaginare, invece di farmi trascinare via, sono saltato giù e ho cominciato a camminare, anzi correre, ho perso il conto dei capitomboli fatti inciampando sulle interiora!, nella direzione opposta. In fondo, se io ho aspettato ventisette anni la mia morte definitiva, di certo lei non si offenderà se arrivo un po’ in ritardo all’appuntamento.
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