anoressia, malessere, rapporti tra donne

Ora non più

Si guardano. Caterina ha il camino alle spalle; la notte nera delle colline che invade la casa e tutte le luci spente fanno sì che il rosso del braciere ne illumini la sagoma, lasciando nell’oscurità tutto il resto. Simona, che tenta di indovinarne l’espressione trattenuta nell’ombra, si passa due dita sulle labbra, indugia, piega la testa verso destra e poi, come se parlasse più a sé stessa che a Caterina, chiede di Elena.
Come?, fa l’altra.
Elena, continua Simona, L’abbiamo fatta andare all’ospedale da sola.
I soccorritori non ci hanno volute, sibila Caterina. Non siamo parenti.
Avremmo dovuto insistere. Invece siamo comunque venute a casa tua.
Simona abbassa la mano, la passa sul legno di noce del tavolo, liscio al tatto ma imbarcato in alcuni punti – ha sentito l’umidità non appena è entrata in quella piccola casa e ha capito subito che non sarebbero dovute essere lì. Apre la bocca. Vorrebbe parlare, ma invece dei suoni dalla gola le esce un gorgoglio.
Se hai fame mangia pure la mia pizza, le dice Caterina allungandole il cartone, a me non va più.
No, grazie.
Caterina allora si lascia andare sullo schienale mentre distende le braccia sul tavolo. Manda la testa all’indietro – Simona ne vede la gola lunga e sottile, flessuosa -, aspetta un secondo e la ributta in avanti.
Dai, dice in fretta, t’ho sentito che hai fame. Che c’è, vuoi fare con tre anni fa?
Non capisco.
Oh, non farmi ridere, ci conoscevamo da poco e quando uscivamo a cena tu sminuzzavi la tagliata e, pezzo dopo pezzo, la facevi cadere dentro il tovagliolo che poi infilavi in borsa. Hai fame, l’ho sentito. Mangia la mia pizza.
Simona smuove la testa da destra a sinistra, in silenzio. I polpastrelli iniziano a formicolarle, come sempre quando vorrebbe smettere di pensare ed essere soltanto carne, scheletro, budella – è un desiderio incontrollabile, inesaudibile, che psicologo psichiatra psicanalista le hanno insegnato a tenere a bada, a non rigettare rimestandosi con le dita in gola. Si fa forza, stringe i pugni per un attimo e poi, con l’indice della mano destra, allontana la pizza.
Vaffanculo, dice l’altra, io c’ho provato.
Caterina ha sempre da ridire. È sempre stata così: l’ha conosciuta che tentava di insegnare a Elena come mangiare il sushi con le bacchette. Era arrivata al ristorante in ritardo e le aveva già trovate sedute l’una di fianco all’altra. Era rimasta a osservarle cercando di capire che tipa potesse essere Caterina. Tre minuti dopo, quando l’aveva sentita chiamare Elena “stupida idiota”, si era seduta al tavolo scostando la sedia. Aveva fatto un gran baccano. Non aveva proferito parola.
Tu sei Simona, vero?, aveva detto Caterina, Piacere. La prossima volta che ti siedi però vedi di fare meno casino, ci stanno guardando tutti.
Non era stata in grado di ribattere, non in quel momento, e più tardi, quella sera, era rimasta sveglia a elaborare una risposta a effetto. Non c’era mai riuscita. Non ci riesce tuttora, e anche adesso, guardando il buio in cui è avvolta Caterina, Simona non le sovviene nessuna parola che possa ferirla, che possa bilanciare il loro rapporto a proprio favore. Basterebbe accedere la luce per farla scomparire, per consegnarla all’oblio, eppure sa che lei resterà lì, sagoma oscura contro le fiamme del camino. Chissà se Elena lo sapeva, che Caterina è incancellabile; chissà se proprio per questo non è mai riuscita ad allontanarsene, a dirle di starsene zitta; chissà se per questo non le ha detto nulla e adesso si trova in ospedale.
Dovremmo andare da lei.
Secondo me no, risponde Caterina.
No?, domanda Simona, E perché?
Caterina – la sua sagoma – si agita sulla sedia, ritira le braccia verso il corpo buio e le incrocia al petto. Non è da lei: è un gesto insperato, atipico, che dovrebbe inorgoglire Simona, farla sentire per la prima volta padrona del loro rapporto; invece la spaventa e le genera un brivido dalla nuca fino alla vescica, che d’improvviso fatica a contenere.
Devo andare in bagno, dice Simona, è di là?

Dentro la luce è bianca, larga. Scende dal soffitto in un bulbo nudo e chiaro che pare esplodere di potenza; i fotoni non lasciano spazio a ombre o dubbi.
Simona si siede, urina la poca acqua bevuta durante il giorno, aspetta altri sette secondi, il tempo medio che ha letto essere tipico della minzione. Tira l’acqua; poi, come ha già fatto un milione di volte, si mette davanti allo specchio, si appoggia al lavabo e si osserva.
A Elena piace questo volto, pensa, le è sempre piaciuto. Non mi ha mai detto nulla, non ha provato ad aiutarmi. Ha sempre detto di volermi bene. Che ci sarebbe stata.
Stacca la mano dal lavandino e l’avvicina alla bocca. Lo potrebbe rifare. Una volta. Squassarsi dentro, svuotare lo stomaco per svuotare anche tutto il resto. Potrebbe. Elena non lo saprebbe. Elena è in ospedale. Sola.
Devo andare, si dice allo specchio.

Caterina le sta correndo dietro. La sente, ha le sue solite scarpe basse che, a contatto con la terra bagnata dall’umidità notturna di febbraio, generano tonfi come sassi che precipitano dentro un pozzo.
Fermati, le urla, fermati. In ospedale non ci puoi andare.
Ma lei tira dritto, giù per la discesa, verso l’auto. Tutt’intorno, a conferma che non è vero che il mondo esterno è più terribile dell’interno di una casa, ma che spesso l’inverso è più plausibile, vi è lo stesso buio in cui stavano immerse poco prima.
L’auto è a pochi metri quando la vede. È lei. È seduta al posto del passeggero. La riconosce dalla sagoma dei capelli, del caschetto disordinato che non sono mai riuscite a farle cambiare. Simona si blocca; la paura, la sorpresa – non sa distinguerle -, si condensano nel vapore del respiro forsennato che le esce di bocca. Trema, ma le viene anche da ridere. In un attimo pensa che potrebbe voltarsi verso Caterina e dirle di osservare con cura l’abitacolo, che Elena è lì, non si trova all’ospedale, che si sono immaginate tutto. Pensa anche che rischia di fare la figura della pazza; ma in fondo, che importa? Così si volta verso l’amica, e con voce tremula si sforza di ridere e dice: Ma tu non la vedi? Elena è seduta in auto! Guardala, è lì!
Dapprima Caterina rallenta. La sua faccia, anziché incrinarsi nella solita smorfia di sufficienza, stavolta invece gronda terrore. Si ferma a un metro da lei. Simona la osserva. Aspetta il flusso di cinismo e contorsioni linguistiche con cui l’amica la fa sentire stupida, ma invece ascolta un balbettio.
È vero, soffia l’amica sul ritmo del proprio respiro, ma che ci fa?
Simona non comprende. Sorride; fa per dirle di smettere di fare la cretina, che non è serata, che le è perfino venuta voglia di infilarsi le dita in gola, ma si trattiene. Si volta verso l’auto.
Elena è ancora lì. È lei, si vede, la riconosce: non era come la sagoma illuminata dal fuoco di Caterina; è pastosa, composta da nero e buio, materia tangibile che non riflette la luce ma l’assorbe in toto. Anche se non vuole potrebbe toccarla, carezzarla, parlarle.
Siamo suggestionate, dice Caterina riprendendosi, Elena è in ospedale. Peritonite. Ti ricordi quel che ha detto il tizio dell’ambulanza? La vostra amica se la vedrà brutta, ha detto così. Quella non è lei.
Ma non ci crede davvero. Simona lo sente da come impunta nelle lettere finali, come se pronunciando le frasi stesse entrando in una stanza senza luce e mettesse con timore un piede davanti all’altro, ben attenta a non inciampare.
Sì che lo è, ribatte allora, è lei. Vuole che andiamo da lei.
No. È la nostra immaginazione.
Stiamo vedendo entrambe e contemporaneamente la stessa cosa? Le loro paure si stanno fondendo. Simona le sente: scivolano giù dai loro corpi come scorie e stanno filtrando nel terreno, mescolandosi in un unico distillato, inquinando tutto.
Elena, dice ancora Simona, quella è Elena.
Caterina non ribatte: dalla sua bocca schiusa escono solo anidride carbonica e silenzio. Sta pensando, Simona lo sa, e stanno pensando alla stessa cosa, al corpo dell’amica che per giorni ha bruciato di una febbre inascoltata, taciuta, distrutto da un dolore all’addome che ha sopportato e che si è espanso da un singolo punto fino a dilagare ovunque, in tutti gli altri organi, nelle pleure e negli interstizi, fin dentro al sangue del cervello. Quel dolore deve averla scorporata: quanto ha sofferto Elena prima di cadere a terra, quella sera, fuori dalla pizzeria da asporto dove si erano fermate prima di andare a casa di Caterina? È normale che adesso desideri non essere più un corpo, che preferisca stare al di fuori della carne.
Simona la comprende. È ciò che per molto tempo ha desiderato: svuotare tutte le proprie profondità fino a uscire da sé stessa, fino a evacuarsi. Lo desidera anche in quell’istante, e quel desiderio brucia come un tizzone giù per la gola.
Caterina si muove verso l’auto. Simona la blocca. L’amica prova a divincolarsi, si piega su sé stessa e poi tenta di inarcarsi per prevaricarla.
Ma che fai, le urla, lasciami in pace! Lasciami andare!
La tiene ferma. La fa calmare come si calmano le bestie: stringendole, bloccandone i movimenti e prevaricandone la forza. Poi la costringe a guardare verso l’auto. Le tiene la testa ferma – nessun moto di ribellione.
Elena è ancora lì.
Lasciamola in pace, dice Simona, deve riposarsi. Ha sofferto tanto.

Copertina di Gianmarco De Chiara

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Racconto di Riccardo Meozzi. 1994, è nato a Città di Castello, in Umbria. Vive fra Bologna e la città natale. Ha pubblicato racconti su Verde Rivista, Crapula Club, Pastrengo rivista e agenzia letteraria, Narrandom, Tre Racconti, Malgrado le Mosche, Spazi Inclusi, In fuga dalla bocciofila, Grado Zero. Ha una rubrica narrativa intitolata “Tutte le mie vite” su Il loggione letterario. Nel 2019 il vincitore del Premio Letterario dell’Unione Europea Giovanni Dozzini lo ha inserito nell’antologia “A casa nostra, lontano da casa”, pubblicata da Aguaplano libri. È stato ospite dell’edizione 2019 di CaLibro Festival.

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