Illustrazione Muffa

Muffa

 

E non dimenticare l’antimuffa sorride debolmente Bertha. Porta l’indice alla guancia, pretende un bacio. Era ora che mollasse la presa, lo sta lasciando uscire anche se è la Vigilia di Natale, fra poco arriveranno gli ospiti e i bambini corrono come pazzi per casa, rossi e sudati. Mi dia retta, David, camminare le farà bene. Questa frase l’aveva sentita anche lei, anche Bertha, quando il dottor Raabe l’aveva congedato dopo il primo dei loro incontri al chiuso della stanza 21, secondo piano, edificio B del Policlinico. Gli aveva teso la mano e quando lui si era limitato a guardarla, invece di stringergliela, il dottore aveva indicato la ricetta che lui stava dimenticando di portare via con sé.
Uscire per comprare un paio di bottiglie di vino, niente di che, o almeno così ha appena detto a Bertha e a se stesso. In realtà ci sono diverse cose per niente chiare in questa sua decisione, che stona con i capelli a caschetto della moglie, con la sua figura snella e slanciata, con i jeans elasticizzati, il maglione rosso e questa voce di chi è perennemente senza fiato e solo a stento si sta riprendendo da un brutto spavento, di chi è sempre sul punto di svenire ma non sviene mai. Ci sono gli ospiti, per queste cose, aveva obiettato. Il padre di Bertha ne avrebbe portate chissà quante, di bottiglie di vino, e chissà quanto costose. La cosa non sta in piedi, sembra non trovare posto nella sua grande casa arredata con gusto, fra i bambini col cravattino, sull’albero di Natale carico di nastri e palline colorate. È bizzarro persino per lui, David, per il suo corpo muscoloso, i vestiti costosi, la stempiatura vistosa. Basterebbe prestare un poco di attenzione per capire che non sarà di ritorno entro venti minuti, come ha appena promesso. E mi dica, David, il pensiero è frammentario o disorganizzato? Qualcuno che ci avesse visto lungo non si sarebbe messo nelle condizioni di combinare qualche guaio, ma mica si può essere sempre lucidi. Lui non lo è.

David onora le feste, o almeno ci prova. Però adesso deve uscire, giusto una mezz’ora. La voce di Bertha gli è entrata da un orecchio, ma non è uscita dall’altro, rimbalza nella sua testa. È un ronzio. E l’antimuffa. Sono anni che lo tormenta con questa storia. Per mesi, dopo aver firmato l’atto dal notaio, si era sentito un vero eroe. I cantieri non erano ancora chiusi. Il nuovo complesso di villette era lì, davanti a lui, che a fine lavoro si faceva venti chilometri per parcheggiare sulla strada e con la musica a tutto volume riempirsi gli occhi con quella che era una traduzione nello spazio del suo orgoglio, del suo lavoro, della sua ascesa. Non poteva immaginare di aver fatto un casino, non era pronto per questo. La testa piena delle pretese di Bertha, che voleva una casa grande e col giardino per il cane inesistente e per far giocare i bambini. Voleva due bagni, un grande soggiorno con camino, uno di quelli veri e non disegnati sulla parete. Voleva smettere di sognare e lui aveva realizzato quel sogno. E grazie al sogno di Bertha lui aveva perso il sonno, facendo entrare nella sua vita un mutuo trentennale e la storia del radon che gli era esplosa fra le mani, così come la muffa sulle pareti della sala hobby, nel piano seminterrato. Forse avremmo dovuto fare delle indagini. David si volta di scatto, convinto che Bertha lo stia seguendo e gli stia parlando da dietro, per ricordargli che aveva comprato una casa in una zona ad alta intensità di radon. No, non è da fuori che parla, ma dalla sua testa. Ci si è infilata, e parla indisturbata, disturbante e inafferrabile. Un’altra domanda, David. Sente voci? O ronzii? O Crepitii? Certo che no, aveva mentito al dottor Raabe. Flash, luci, immagini tanto vivide da sembrare reali? Aveva sorriso, perché non riusciva a emettere fiato per dire di no. Questo era accaduto al loro secondo incontro. Da un paio di mesi a questa parte David può vedere, crede di vedere, quanto accade altrove. Vogliono fargli credere che sia un problema, ma lui la pensa diversamente. Vede di più, non meno degli altri. Eccola, proprio adesso, infatti, Bertha sta sfogliando i suoi vecchi testi universitari, i manuali di chimica, quelli su cui lui perdeva il sonno per diventare ingegnere. Gas nobile suona bene, ma in realtà avere a che fare col radon significa essere in balia di qualcosa di inodore, invisibile e a lungo andare letale. Dicono di arieggiare gli ambienti e chiudere le crepe per quanto possibile, perché per questo bastardo essere nobile significa avere l’opportunità di infilarsi in casa dalle mattonelle, dalle pareti.  

Cammina lungo la pista ciclabile, calcando il carrarmato degli scarponi nel ghiaccio sporco, residuo di due giorni di neve. Avanza verso il grande birillo illuminato del bowling vicino all’ipermercato. La strada costeggia vecchi campi abbandonati, un tempo vigneti, persi nella gelida oscurità e in attesa di una pioggia di nuove concessioni per costruire altre villette con giardino, garage doppi, appartamenti tutti stanzette e infissi di pregio per mutui lunghi una vita ed eterne giornate passate a tentare di ripescare il motivo che può spingere a decisioni del genere. Lui non ricorda di aver deciso, sa solo che è accaduto. Senta David, ultimamente ha riscontrato problemi di memoria? Rispondeva sempre di no, e più di una volta il dottor Raabe si era affrettato a dire che può capitare a tutti, prima o poi, in qualche momento della propria vita. No, non era questo il suo problema. Ha una buona memoria. Numeri, cifre, densità degli elementi, formule, contabilità, date, nomi. Si era guardato bene dal dirlo, ma il dottore lo aveva incalzato, chiedendogli delle principali scelte della sua vita, i punti di snodo, li aveva chiamati. Perché si era sposato, quando aveva desiderato che Bertha divenisse la madre dei suoi figli, quando e perché aveva deciso di diventare ingegnere, comprare casa, essere padre. Era il suo terzo appuntamento e il dottor Raabe, forse senza volerlo, gli stava dicendo che lui non sapeva praticamente nulla degli ultimi venticinque anni della sua vita. Beh, David da quel giorno, dopo quella penosa batteria di domande, sente che l’oppressione al petto che l’aveva portato dal dottor Raabe si era fatta ancor più difficile da gestire. Si può dire di aver veramente voluto anche quello che non si ricorda di aver mai veramente scelto?

Dopo due svolte per vicoletti a senso unico, tutti muretti e cancelli presidiati da cani che abbaiano senza sosta, eccolo sull’arteria principale del quartiere, uno degli innumerevoli che accolgono a braccia aperte giovani coppie con alto grado di istruzione, incredibile dedizione nel lavoro e una ferrea volontà di marcare la differenza rispetto alla famiglia d’origine. Da tempo, la cosa, non gli fa lo stesso effetto che gli aveva procurato sei primavere fa, quando per la prima volta aveva visto questo posto. Lì mi riposerò dopo lunghe giornate di lavoro, pensava a quei tempi, guardando la villetta che aspettava gli ultimi accorgimenti. Lì spenderò parte dei miei guadagni, ruminava, in macchina, accarezzando la sua borsa di cuoio piena di documenti che promettevano utili che fino a qualche anno prima non aveva creduto possibili. Perché sta fissando quel quadro, David, le fa pensare qualcosa di particolare? Aveva fatto cenno di no. Si era dato una sola regola, col dottor Raabe – tenere la bocca chiusa, il più possibile. Le manda un qualche messaggio, David, le dice qualcosa? Scuote la testa per scacciare le domande del dottore. L’enorme birillo è lì, a dividerli c’è solo la strada. Un clacson lo scuote. Sono i genitori di Bertha. Le loro voci arrivano a lui ovattate, lontanissime. È il vento? Risponde a delle domande che non è sicuro di aver compreso. Il vecchio accende le quattro frecce, esce dalla macchina e lo porta davanti al portabagagli, dove ci sono una cassa di vino, un cesto stracolmo di porcherie e pacchetti coi nastri. L’antimuffa, sorride David, che continua a fissare l’enorme birillo che sembra proprio oscillare in modo preoccupante. Si becca una manata sulla schiena dal vecchio. Barcolla e sorride, però riprende a camminare, come se avesse veramente senso quanto sta facendo. Certo che però quel birillo non lo convince affatto e non capisce perché è un problema solo per lui, dato che nessuno si allontana. Il suocero gli urla dietro di darsi una mossa, che a casa c’è la sua famiglia e, che cazzo, è pur sempre la vigilia di Natale e tanti cazzi dell’antimuffa e delle lamentele della figlia. Alza una mano senza girarsi, per rassicurarlo, prima di attraversare la strada e, invece di infilarsi nel supermercato pieno di gente che non vede il pericolo che sta correndo, gira a destra, sul viale che porta al centro.

Una melodia monta, lievita, viene da lontano. Piri-pi-pi-pi-ri-pi-pi. Infila le mani in tasca, alla ricerca del cellulare che invece è rimasto nel cassetto della scrivania, in sala hobby. Lo può sentire distintamente, ma non può rispondere. Aspetta una chiamata così importante che si piega di lato e vomita contro la fiancata di una monovolume verde. Non sente più la suoneria del cellulare. Cerca di calmarsi, tende l’orecchio, lo sguardo puntato contro la poltiglia fatta di salatini e cubetti di salame piccante. Alex deve aver attaccato. Senta David, le sembra mai di poter anticipare un qualche evento o qualcosa che deve accadere o che aspetta con ansia? Nel senso di vederlo o sentirlo, capisce cosa intendo? Sono passati dieci giorni dall’arrivo di una mail dall’Agenzia delle entrate. Non l’ha ancora letta. Si era detto che l’avrebbe fatto il giorno di Natale, dopo la risposta di Alex. Si conoscevano dal liceo, ed era stato la sua ancora di salvezza per tutta l’università, quando andava a cercarlo per i corridoi della facoltà di Economia. Questa volta, però, per la prima volta, Alex non sembra in grado di aiutarlo. Non aveva pensato a lui fino al giorno prima, quando si era trovato davanti all’appunto vecchio di tre settimane sul suo planning. Ci sentiamo per Natale, gli aveva promesso Alex ventuno giorni prima, mettendo fine alla chiamata. È un problema enorme se il tuo migliore amico lavora per la società che ti ha commissionato un grosso lavoro e offerto un anticipo che tu hai già speso da tempo. È un problema se quell’amico ha fatto carte false per farti prendere quel lavoro, se rischia il suo posto per te, se si aspetta una bustarella. La questione si fa grave se tu dipendi da lui per non finire per strada, per non perdere quel lavoro, per poter pagare i debiti, per evitare che quella società cerchi di rifarsi su di te chiedendoti i danni e, di fatto, spazzandoti via dal mercato, distruggendoti e mettendo una croce sul tuo nome. Ha lasciato il telefono a casa. Per non stare lì a non sentirlo vibrare.
Alza gli occhi per seguire le lucine di un aereo che va a perdersi fra le nuvole invisibili che chiudono il cielo. Si drizza tastandosi il polso, temendo l’affanno. Sono passati due mesi dall’ultima volta che è svenuto. Aveva appena finito di parlare al telefono col secondo ragioniere che lo mollava in meno di sei mesi. Aspettava la sua relazione, doveva rispondere ad Alex, che lo chiamava dieci volte al giorno per sapere cosa stesse combinando, perché fosse tanto in ritardo. Aveva smesso di dormire, pur di portare a termine qualcosa che era più grande di lui, che sovrastava la sua intelligenza, le sue forze, la sua capacità di essere lucido. Dopo aver sbattuto il telefono sul pavimento si era alzato di scatto ed era crollato a terra. Bertha aveva chiamato l’ambulanza e poi erano venute le analisi, tante analisi. Fuma? gli aveva chiesto il medico, e lui? Aveva detto no. Beve? Ancora, No. Fa attività fisica? Si era tirato su i jeans scoprendo i polpacci di roccia per la bicicletta. E allora deve darsi una calmata, gli aveva detto il medico. E lui aveva sorriso. Come si fa? Gli aveva chiesto, senza avere risposte.
La muffa, la muffa, piagnucola ancora Bertha. Eccola, oltre il finestrino contro cui ha vomitato. Snella e col culo ancora sodo e inservibile. È tutta intorno alle finestre, indica alzandosi leggermente sulla punta dei piedi, il seno disegnato sul maglione col collo alto. Lascia la mansarda e corre giù per le scale, fino alla grande sala hobby piena di mobili su misura che devono ancora finire di pagare, È ovunque. La muffa è ovunque.

Un animale gli infila il muso fra le cosce. È Sun, il cane di Marc, il suo vicino di casa. David fa di sì con la testa, ma solo perché l’altro lo sta guardando negli occhi e muove le labbra. David, però, non sente nulla, perché ha le orecchie piene della suoneria del cellulare. È Alex, lo sta chiamando ancora. Fiero del suo mutuo, del mobilificio di famiglia, insensibile alla muffa, Marc pare proprio non aver problemi con la moglie, il cane, i figli e a lui del radon non gliene frega un cazzo, Non ho paura di cose che non si possono nemmeno vedere. Va col pilota automatico, David, annuisce senza nemmeno cercare di leggere il labiale. Riacquista l’udito quando pensa che quello che sente non può essere il suono del suo cellulare, dato che aveva tolto la suoneria. Batte le palpebre, si sveglia mentre Marc gli assesta l’ennesima pacca sulla spalla, Allora, andiamo? Solo adesso si rende conto che quello vuole riportarlo a casa per far giocare i loro cani. Fa cenno di no, che non può tornare. Non vuole tornare. Vino? Non so quante casse ne ho ancora da smaltire, su. Altra manata alla nuca. Tira fuori la questione dell’antimuffa. Sarà di ritorno entro mezz’ora. Ti aspetto? Dice ancora Marc, tirandosi dietro Sun. Il cane di David è a casa, come sempre. Devi farlo uscire, cazzo, sennò impazzisce, gli ripete sempre Marc, da dietro il cancello chiuso. Ne aveva due, al principio, presi subito dopo aver acceso il mutuo. Bertha li aveva voluti a tutti i costi, ma uno, quello più grosso, era morto la notte di capodanno dell’anno prima. Bertha non lo voleva in casa, con gli ospiti. Il mattino dopo sembrava dormisse. Quello più piccolo era in mezzo ai cespugli, con gli occhi sgranati, mentre il più grosso era dentro la cuccia piena di escrementi. David aveva vomitato tutto il vino che ancora si portava dentro dalla sera prima, mentre tirava fuori la bestia e cercava di lavare con la pompa, nell’aria fredda del mattino che sapeva ancora di polvere da sparo. I bambini avevano pianto per giorni, il cane superstite ancora gira su se stesso, certe notti, ululando come un lupo. 

Cammina verso il centro, attento a non scivolare sul ghiaccio sporco accumulato ai lati del lungo marciapiede malamente illuminato. Il vento freddo scuote i rami nudi. Alza gli occhi sul viale e le luci natalizie più che nasconderne la desolazione di strada periferica e di quartiere residenziale, ne esaltano lo squallore. Glielo chiedo nuovamente, David, viene mai preso dalla sensazione che quanto la circonda non sia, per così dire, reale? Basse case si susseguono senza sosta. Le sagome delle persone che si muovono oltre i vetri delle finestre schermate da tende gonfie di luce, rendono lancinante la divisione fra loro, che stanno dentro, e lui, che sta fuori. Non si sta granché, lì fuori, ma non è tempo per tornare a casa.

Qualche goccia gelata inizia a cadergli sulla testa. Dovrebbe voltarsi e tornare indietro, lo sa. Si ferma e alza una mano per capire se è vero. Lo è. Goccioline di ghiaccio gli solleticano il palmo della mano. Un SUV, mentre attraversa la strada, gli ruggisce contro. È Raimondo, il fratello. David inizia a correre e va a piazzarsi sotto a un balcone, davanti alla vetrina che affaccia su di una rosticceria. Ray accosta e suona ancora. David ha gli occhi chiusi, ma può vederne il palmo picchiare due volte sul clacson, secco. Gli fa cenno di andare, ma lui scende e gli corre contro, scivolando sul ghiaccio invisibile e sottile che ricopre quel loro pezzo di mondo. Più che cadere, rimbalza a terra ed è subito in piedi e, sempre correndo, è lì davanti a lui. Che ci fai in giro? Andiamo a casa. Lo prende per un braccio, ma lui fa resistenza. Non vuole muoversi di lì. Vede i figli che puntano i piedi mentre la moglie li strattona, facendo violenza con l’espressione di chi la violenza la subisce. È stata Bertha a farti uscire? Sì, e fa ancora cenno di sì quando il fratello gli chiede delle medicine. Ray tira ancora, non vuole mollare, ma lui inizia a tremare tutto. Non lo fa di proposito, ma alla prima oscillazione il fratello molla la presa. Vuoi camminare? Va bene, ma fai dietrofront e torni a casa. David segue con gli occhi il fratello che va verso la macchina. Sente urlare qualcosa come un Coglione. O se lo immagina? Il SUV inizia a lampeggiare, sembra un’astronave. Il tempo temporeggia, pare essersi ingolfato, poi riparte e, con lui, il fratello e quella macchina infernale. Diretti a casa sua. Lo aspettassero pure, prima deve comprare il vino. Entra nella rosticceria. Oltre la vetrata pioggia mista a ghiaccio inizia a cadere più insistente. Si siede ad uno sgabello senza voltarsi verso il bancone.

Senta David, le capita mai di fissarsi su qualcosa? Anche cose piccole, che però assumono per lei una grande importanza, che si impongono come impellenti? Dietro al bancone non c’è nessuno. Ha tempo. I lampi illuminano le corazze delle macchine addormentate e nell’asfalto bagnato si rispecchiano le luci degli addobbi sospesi sulla strada. Guarda l’orologio, è fuori casa da poco più di mezz’ora. Sulla mensola accanto al televisore acceso ci sono una decina di bottiglie impolverate. Ne prenderà due a caso, poi tornerà a casa. Si presenta dietro al bancone una donna sui sessanta, mezza sfasciata, gonfia, con capelli nerissimi tirati su da un elastico, due tette enormi, un poco per dono di natura, il resto per i chili di troppo. Eccolo alle sue bottiglie di vino, poi dovrà tornare a casa. E l’antimuffa, rimbomba.
Si ritrova seduto, piegato su un’ala di pollo. Il riflesso sformato del suo volto scivola lentamente sul vetro sudato di una birra da 66cl, intrappolato in una goccia. Come ci è finito a quel tavolo? David, mi sta ascoltando? Bene. Sente mai vuoti fra un’esperienza e l’altra? Qualcuno entra. David guarda oltre la vetrina. Le patate al forno inondate di pepe non sono poi da buttare. Con il pensiero anticipa il bruciore allo stomaco. Ma tu lo sai che poi stai male, vero? Questa volta non ci casca, è sempre dalla sua testa che Bertha lo rimprovera con un sospiro. Incrocia lo sguardo di una donna, reale, che lo sta studiando. La donna ha gli occhi leggermente gonfi e arrossati. David ritorna al suo pasto e alza lo sguardo all’interminabile servizio sul cenone, Fai presto. Anche questa volta non fa una piega. È Bertha, dalla cucina, che gli intima di tornare. Aspettasse. Morde il petto secco e stoppaccioso, quando sente un Ciao. Porta la bottiglia alle labbra non appena ne sente un altro. Forse sta imparando, dopo settimane, e invece delle dita gli sfiorano la spalla e queste sono reali. E reali sono anche gli incisivi leggermente distaccati, il grande neo sul collo, i capelli lunghi e neri, gli occhi che puntano verso il basso, sorridenti. David spazza via il lavorio insistente e accanito del tempo. Manda giù una palla amarognola di catarro. È lei.
Come va, gli chiede Erika la figlia del pazzo. Non trova parole per rispondere a Erika la sorella del pazzo. Torna presto, soffia una voce alla sua nuca, ma lui non muove muscolo. No, Bertha non c’è. È a casa con i parenti, ignara delle comunicazioni dell’Agenzia delle entrate e del silenzio di un vecchio amico che presto lascerà sprofondare il marito e lei stessa, i loro figli. Sembri un eroe greco. Si volta, ma Erika non sta parlando, non adesso. È una frase antica, vecchia di vent’anni, quando lei, ex compagna di banco, l’aveva soffiata nel suo orecchio, mentre era seduto su un alto sgabello, al pub. Era al secondo anno di ingegneria e da tempo frequentava una ragazza che pareva non avesse un corpo e da settimane non metteva piede fuori di casa. Lui usciva la sera, spesso da solo, beveva e cercava di scacciare i numeri dalla testa. Erika gli aveva offerto da bere, poi l’aveva preso per mano e avevano camminato, senza parlare, fino alla sua stanza, persa al primo piano di quella grande casa gonfia delle urla del fratello. Il pazzo. La stanza di Erika era enorme e buia, il pavimento pieno di libri, fogli, matite. E lui, che era ubriaco e barcollava, aveva paura della sua compagna di banco. 

Perché è stretto a lei sotto l’ombrello? Sta onorando il Natale? Camminano veloci, schivando le pozzanghere. Deglutisce saliva che non ha, mentre lei sorride, scortandolo verso la galleria commerciale non troppo distante. Ha diritto di fare una cosa del genere? Devo restituirti una cosa, lei gli ha già ripetuto diverse volte. La gente che non è ancora tornata a casa è stata assorbita qui, fra luci e colonne di merci. Ti ricordi? dice lei, e lui sorride perché quella volta il fratello di Erika era rientrato in casa nel pieno di una crisi, scortato da un vicino, dopo che era stato malmenato dal gestore di un bar perché aveva preteso di pagare con i soldi del Monopoli. Era andato alla finestra, pronto a sgusciare fuori come un ladro, ma lei l’aveva fatto stendere sul letto e, dopo averlo coperto col lenzuolo, aveva iniziato a leggere una storia ad alta voce.
Attraversano il ponte sopra la ferrovia mentre sotto passa un regionale. Erika lo tira per un braccio, per fermarlo. Aveva dormito nella sua stanza, addormentandosi al suono della sua voce. Il treno è uno di quelli vecchi e sporchi, che quando frenano fanno un rumore pazzesco. Uno di quelli che prendeva tutte le mattine, alle sette meno un quarto, per andare a lavoro, quando era consulente per una società di costruzioni. Si fermano a guardarlo mentre si allontana, nella distanza, superando semafori gialli, forse bianchi. Quindi della sua infanzia non ricorda nulla, o quasi. Mi dica, David, della sua adolescenza o prima maturità? Sa dirmi qualcosa? Per due anni avevano passato giorni e nottate insieme, poi lei lo aveva brutalmente bandito dalla sua vita. Cosa era accaduto? Ah, sì, il fratello era morto. Probabilmente il suo corpo non aveva retto tutta la roba di cui si imbottiva. Ah, già, lei non lo aveva mollato, era il mondo stesso che aveva mollato. E dentro ci si era trovato anche lui. Per sei lunghi mesi aveva ululato sulla strada di fronte alla sua casa. Non ricordava più quante volte i vicini erano scesi per mandarlo via. Prima con le parole, poi con le minacce e infine a calci in culo. L’ultima volta che si era presentato in quel vicolo, dietro alla finestra della stanza di Erika aveva visto due sagome spaventosamente prossime. Quella sera era tornato a casa e si era seduto alla scrivania a studiare, dato che per quella storia aveva saltato due sessioni d’esame. Lento, il treno, avanza sulle rotaie che tagliano in due la città, acque aperte fatte del succedersi feroce e incessante dei palazzi che tutto invadono e sommergono. Nel riprendere a camminare ha un tuffo allo stomaco. Dopo venti anni, un’esperienza lo lega nuovamente a Erika.

L’insegna della farmacia segna le sei e mezza. È appena uscito dal supermercato e pensa che forse dovrebbe pensare che è tardi. Bertha lo sta aspettando, probabilmente sta piangendo per la rabbia e la desolazione e con voce svenevole minaccia i bambini o forse è seduta con gli ospiti. La vede, David. La vede mentre chiama, aggrappata al cordless, la testa lievemente inclinata di lato, sulla sinistra. Sta chiamando a ripetizione al suo cellulare che vibra dentro la scrivania, sepolto da carte piene di scadenze non rispettate e cifre tutte precedute dal segno meno, segni di un tracollo imminente che però, a questo punto, quasi lo lascia indifferente. Questo lo aveva accennato al dottor Raabe. Derealizzazione, aveva risposto lui. Esserci nella modalità del non esserci. Fa uso di droghe? Ma no. Beve? No, certo che no. Dorme? Poco. No, aveva risposto in un altro modo, Sempre meno. Così aveva detto. Ed è la verità. Una macchina, mentre si prepara ad attraversare la strada, sfreccia veloce e gli sputa contro un’intera pozzanghera d’acqua fredda e fangosa, svegliandolo.
Bertha è lì, lo guarda sconsolata. È arrivato il momento di tornare a casa. Erika lo guarda. Le braccia lunghe sul corpo, tenute giù dal vino e dalla pizza. Devo andare. Lo dice o lo pensa solamente?

Perché si ritrova a sedere sul divano di una casa che non conosce? Tiene gli occhi puntati sulla busta della spesa, floscia a un angolo, l’antimuffa vomitato a terra. Quando torna dalla cucina, Erika è avvolta in una vecchia coperta di pille. Porta una bottiglia di vino e due bicchieri a calice. Sta parlando, ma lui ascolta e non ascolta, preso nel rombo del phon con cui si sta asciugando i pantaloni. Ci sono libri sparsi ovunque e vecchi mobili che lui conosce bene. Erika continua a parlare e seguendo il suo sguardo incollato su di una foto incorniciata spunta un nome, subito dopo aver vuotato un bicchiere di vino, Danny, Mi sa che non è granché, ma io il vino non lo so comprare. Potrebbe chiederle perché non sta col figlio la vigilia di Natale, ma lei continua a muovere le labbra. Sa che lui ha due figli e che è un ingegnere. Non è difficile sapere le cose, se le si vuole veramente conoscere. Perché parla così tanto? Ha avuto dei problemi economici e un esaurimento e poi, con la sua storia alle spalle, il bambino non poteva stare a casa con lei e il padre. Ah, il padre di Erika. Il maniaco, così veniva chiamato. È arrivato il maniaco, sussurravano le adolescenti, se saliva su di un autobus. Vattene maniaco, gli urlavano dietro i ragazzini, sfrecciando con le loro biciclette, per strada. Il padre è morto da tre anni e lei ha venduto la grande casa in cui aveva vissuto per tutta la vita, ha comprato questa e ce la sta mettendo tutta. Ha dovuto tenere i mobili vecchi, ma in un anno conta di buttarli e comprare tutto nuovo. Lo prende per mano e lo trascina per il corridoio fino ad una stanzetta che puzza di nuovo, L’hanno montata ieri. Bella vero? Erika lo guarda, Danny la vedrà domani. Beve altro vino, sembra soddisfatta. Continua a ripetere del lavoro, di un lavoro che c’è, ma è come se non ci fosse. 

Si fredda la cena, David, e lui questa volta fa una piroetta su se stesso. Erika inclina il viso, perplessa. Bertha non c’è. Forse devi andare, vero? Lei lo scorta in soggiorno. Sei asciutto? Erika gli chiede nuovamente se deve andare. Non si era forse avvicinato alla porta di casa? E allora perché si ritrova seduto a bere vino di pessima qualità, di quelli che macchiano i denti e le labbra e che stordiscono e bruciano nello stomaco? Fa un terribile sforzo per realizzare che dovrebbe uscire e mettersi a correre, perché sono le otto di sera e lui è fuori da ore. 

Perché è seduta così vicina? E come è possibile che siano già le dieci e la testa gli gira? Hanno parlato. Di che? È importante saperlo? Forse, perché Erika si avvicina ancor di più e lui non capisce cosa c’entri tutto questo con il vino e l’antimuffa. Può progettare ponti, strade e palazzi di dieci piani, ma non sa mettere insieme, adesso, il vino e l’antimuffa, il suocero, il fratello, il vicino di casa. Erika ha un corpo, l’alito che sa di vino, i denti lievemente violacei e le labbra pitturate, mentre Bertha non è così, lei che invece è così…così…come è Bertha? Dunque, David, mi dica se ho capito bene, le capita di sentire che il suo corpo non sia propriamente suo. Ieri, quindi, non lei, ma il suo corpo si è fatto male. L’indice della mano destra, parte del suo corpo, si è bruciato con la caffettiera dimenticata sul fuoco acceso. 

Erika sorride mentre lui cerca di coprirsi il petto, le cosce e il pube con la camicia bianca tutta pieghe. Ha freddo e qualcosa gli dice che deve andare. Devi andare, vero? Ripete ancora Erika e lui guarda l’orologio e batte gli occhi, in tilt, contro il quadrante che segna mezzanotte. La percezione del tempo? David, sa dirmi qualcosa del suo sentimento del tempo? Forse deve vomitare. O vuoi rimanere? Chiede ancora Erika. Fa cenno di no. Hai paura? Fa cenno di sì. Confonde mai pensiero e percezione? Mi spiego meglio, David, le capita mai di credere di sentire o vedere quello che forse sta solo pensando? Veramente Erika gli sta dicendo che lo aveva visto attraversare la strada e che, riconosciutolo, aveva parcheggiato ed era entrata in quella rosticceria solo per lui? David cerca i calzini. Uno è su di un libro buttato a terra, sul tappeto. Non riesce a individuare l’altro. Se lo trovasse, allora potrebbe andare. Erika parla di risarcimento. Lei non ha alcun debito con lui, risponde, forse. Non ne è sicuro perché lei sta continuando a parlare. Erika gli spiega che doveva farlo entrare in casa sua, perché non ha mai smesso di pensare a quel periodo in cui lo aveva tenuto fuori. Il calzino, l’altro, è sul suo piede. Adesso li ha entrambi. Forse può andare. Non ricorda di averle mai lasciato qualcosa di suo. Erika si alza in piedi. È avvolta in un lenzuolo giallo, stretto sul seno, i capezzoli sono disegnati. Lei ha sempre avuto un corpo, sempre. Può una donna mettere al mondo figli pur non avendo un corpo? Bertha ne era stata capace. Aggrotta le sopracciglia. Forse capisce, dopo più di venti anni. Non dovrebbe essere lì. Gli pare di svegliarsi, per un attimo. Parla, forse. Salta in piedi, spaventato dalle urla di Erika. Cosa avrà detto mai? Le sembra mai di credere di essersi addormentato o di andare col pilota automatico? David, le accade di parlare o di agire senza essere pienamente presente a se stesso? Episodi di sonnambulismo? Chi non è mai veramente sveglio, non può mai neanche dormire. Erika è nuda. Sta urlando e agitando le braccia. Capisce che deve andarsene. Cerca i pantaloni, ma li ha già indosso. Quando li ha infilati? Perché Bertha non ha un corpo? E perché Erika ha questo corpo? L’albero di Natale, dall’angolo del salone, la illumina di blu, di rosso, di verde. Erika si piega, prende qualcosa dal tavolino e glielo sbatte in faccia, sul muso. Non fa male, graffia. Sono banconote. Strizza gli occhi, David. Dalle parole che accompagnano i pugni che sta prendendo al petto e sul viso, capisce che le ha dato dei soldi. E non parlare di mio figlio, pezzo di merda, gli sta urlando contro. Gli chiede conto delle sue azioni. Perché non è rimasto a casa con la sua famiglia? Perché è a casa di una donna che non vede da più di vent’anni? Perché non è con sua moglie, i suoi figli, la sua famiglia? È solo ubriaco o pazzo, eh? Ah, pensa, non dovrebbe bere, adesso che sta prendendo le medicine. Bene, adesso ricorda. E mi ascolti bene, David, non si azzardi a bere. Si veste più in fretta che può, comunque troppo lentamente per i desideri di Erika, che minaccia di chiamare la polizia. Arrivato alla porta, subito prima di uscire, non dimentica la busta con l’antimuffa. Ne aveva presi due flaconi. Era stato previdente.

Il viaggio di ritorno pare sempre più veloce. Non questa volta. È sul vialetto di casa. Si ferma per guardare l’ora, mentre il cane ulula dietro il cancello. Si avvicina puntandogli gli occhi negli occhi, facendolo scappare. Quando apre la porta di casa è l’una di notte. Per strada si era dovuto fermare davanti alla saracinesca di una gioielleria e poi ancora con la fronte sulla corteccia gelata di un albero per vomitare con dolore, sgranando gli occhi. Aveva pensato più volte di stendersi a terra e vedere come sarebbe andata a finire, solo che Bertha gli aveva ogni volta ordinato di stare dritto con la schiena e tornare. Si era fermato ad una fontanella e l’acqua gli era caduta nello stomaco facendogli male. Aveva ruttato più volte e tremato per il terremoto che sconvolgeva le sue interiora, mentre sputava rimasugli di pollo che gli erano rimasti incagliati fra i denti. Ma alla fine aveva visto casa, illuminata ad intermittenza dal lampione difettoso. Ce l’ha fatta.

La grande tavola è ancora apparecchiata. Al centro c’è una pentola a pressione e a capotavola, al suo posto, un piatto pulito, le posate ai lati, i bicchieri. Ce ne sono due. Uno per l’acqua, l’altro per il vino. Ah, il vino. Lascia le bottiglie sul tavolo, accanto alle altre. Le conta e dato che sono dieci gli viene da pensare che dietro, forse, c’è un messaggio, un’intenzione. Da un angolo del salone doppio, l’albero di Natale illumina Bertha, I bambini dormono, dice con la sua voce svenevole, ma violenta fino all’omicidio. Sta guardando la televisione. Fa per alzarsi in piedi e barcolla cadendo sul divano. È ubriaca. Sul tavolo è aperto lo spumante. Bertha ubriaca. Per un attimo David pare svegliarsi. Una lucina si accende in lui. L’idea che gli altri abbiano un’interiorità, che le loro azioni nascano da emozioni e le azioni da decisioni, ecco David, questo è per lei ragionevole? Forse ha fatto del male a qualcuno? Questo è forse uno dei casi in cui si fa del male? La aiuta ad alzarsi. Bertha muove un braccio, in modo quasi impercettibile. Si sta ribellando. Non dovevi tornare, è lei che parla? È scossa da brividi, mentre sale le scale che la portano al piano di sopra.

David si ritrova in sala hobby. Respira con la bocca spalancata, la pancia gonfia sale e scende, mentre è seduto alla scrivania. Tira il cellulare fuori dal cassetto. Ventitré chiamate perse. La metà sono di Bertha, altre del fratello, alcune del padre. Un messaggio del suocero che dice che gli romperà il culo, presto. Ci sono due chiamate di Alex e due suoi messaggi. Legge il primo. Sono gli auguri di Natale. Legge il secondo. Avrà un ulteriore finanziamento e un mese di tempo per presentare analisi, preventivo e tutto il resto alla società. Nessuna azione legale, fiducia incondizionata, o quasi. Sente una proporzione, una corrispondenza, David, fra ciò che le accade e ciò che sente? A livello emotivo, ma anche corporeo?  David è nel bagnetto cieco che dà sul garage. Appena accende la luce si sveglia la ventola. Abbassa la lampo e cerca di pisciare, gli occhi brucianti semichiusi e la fronte poggiata alla parete gelida. Deve attendere, ma alla fine il canale si apre e, con un fremito dei lombi, inizia a liberarsi di urina fumante. Alza gli occhi al soffitto. In alto, in un angolo, la muffa aveva avuto il tempo per tramutarsi in un bubbone frastagliato, tanto scuro che sembra aver divorato la parete dall’interno, quasi che una parete possa avere un’interiorità, un dentro separato da un fuori, un’essenza o anima. Non è così. Rivede le cosce di Erika e si piega in preda ad un conato, e mentre con le mani stringe la tazza del cesso si piscia addosso, sulle scarpe e sui pantaloni sporchi di vomito. La muffa è un problema, Bertha ha ragione.

È seduto a capotavola e deve concentrarsi su lunghi respiri per non sentirsi male alla sola vista dell’arrosto con patate o della pasta al forno. Bertha, quella mattina, l’aveva dolcemente invitato ad alzarsi dal letto e a lavarsi. Gli aveva fatto trovare due caffettiere fumanti. Era persino riuscita a strappargli alcune parole di bocca, abbracciandolo freddamente alla notizia dei soldi, di quei soldi di cui tanto avevano bisogno. La guarda ancora. Pulita, sobria, profumata e senza sfumature o ambiguità. È lì, tutta intera, presente. David non riesce a decidersi: era veramente uscito di casa ieri? Prende il cellulare e controlla ancora i messaggi. Quelli di Alex ci sono. Stacca gli occhi dal telefono. Continua a non esser più così sicuro di sé, dei suoi quarantacinque anni, del suo lavoro, dei figli, della casa, delle macchine parcheggiate in garage, di Bertha lì in piedi accanto a lui che, fissandolo negli occhi, gli riempie fino all’orlo il bicchiere del vino. Non dovrei bere, dice, forse. Bertha sorride, È Natale.

Il cane scodinzola, i figli rumorosi si godono i nuovi giocattoli prima che la noia li assalga, la madre fa avanti e indietro dalla cucina, il fratello è seduto sul divano, il padre ravviva il fuoco nel camino, Bertha gli poggia la mano sulla mano, bella e pulita com’è. Che deve fare? Chi è che agisce, e cosa vuole? Non lo sa, ma si ritrova in piedi, Dove stai andando? e forse lui le risponde che ha dimenticato di passare l’antimuffa che ha comprato. La certezza di aver veramente parlato e non solo pensato gli viene dalla risposta di Bertha, che lo fissa con i suoi occhi spalancati e il viso bello e senza rughe, naturalmente ambrato, perso in una fissità da bambola, Ma non l’hai comprato. Avresti dovuto, ma non lo hai fatto, alza le sopracciglia, sorridendo. E lui la guarda, mentre tutti guardano lui. Persino il cane lo fissa. Sa di non avere veri argomenti, Hai ragione, sorride tornando a sedersi, incrociando con lo sguardo una scatolina sistemata fra il piatto e il bicchiere dell’acqua. 

Copertina originale di Ottavia Marchiori

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Tommaso Aramaico vive e lavora a Roma. Alcuni suoi racconti sono stati pubblicati su riviste e in silloge. Da anni cura un blog dove si può trovare tutto quello che c’è da sapere su di lui.

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