Non posso credere che stia accadendo a me.
A Milano, in viaggio di lavoro, un ingordo e pornografico sportello bancomat si ingoia, in un boccone, la mia carta, nel cuore della notte, senza erogarmi alcun contante.
Desolata, torno alla camera d’albergo, per fortuna pagata in anticipo: passo una notte insonne e attendo la mattina, sperando di trovare una soluzione. La mia banca, pur appartenendo allo stesso gruppo di quella che mi ha sequestrato la carta, mi dice di non poter far nulla. Lo stesso la filiale di Milano. Incredibile! Le banche incentivano l’uso di carte e, appena accade un imprevisto, ti lasciano nel fango! Cambierò istituto appena possibile. Intanto, sono costretta ad annullare gli impegni e rientrare; visti gli esigui liquidi, lascio la macchina in uno dei pochi parcheggi bianchi disponibili, per spostarmi in autobus e, per risparmiare ulteriormente, scelgo la corsa delle 3.35. Alla fine, in un buio terminal desolato, parto sconsolata verso casa e, spero, verso la risoluzione di questo problema. Arrivo all’area di sosta la mattina presto e, come in Pane e Tulipani, beffa nella beffa, vengo lasciata a piedi. Contatto la compagnia che gestisce l’autolinea: lo sgarbato signorino spiega che devo arrangiarmi e aspettare la prossima corriera, prevista per il giorno successivo. Mi infurio, sbraito, minaccio, ma quello con un “Mi dispiace, signora, non posso farci niente” attacca senza pensieri.
A piedi, con tanto di rischio di essere travolta e con il clacson dei camionisti che mi assorda, guadagno l’uscita dell’autostrada, della quale non conosco il nome. Non so dove mi trovo. L’area pare una semi-abbandonata periferia di qualche posto piccolo, triste, anonimo; irritata mi dirigo verso il primo edificio civile che intravedo, una locanda con bar e trattoria annessi. Tiro un sospiro di sollievo, entro, certa di aver risolto in parte i miei problemi. All’ingresso, appeso a una parete in bella vista, il listino prezzi delle camere: si tratta di cifre che mi permetterebbero di salvare dei contanti e continuare tranquilla il viaggio. Noto la dicitura “Pos fuori servizio” su un foglio scritto a penna accanto al listino: sembra fatto apposta, sorrido pensando sarcastica “Per fortuna non ne ho bisogno!”. Mi dirigo al bar per prendere un caffè. Il locale è deserto, vecchio, non pulito. Dietro il bancone, c’è solo un annoiato barista, moro e con un’aria trasandata, sulla soglia dei quaranta, ma apparentemente stanco come se di anni ne avesse mille. Nemmeno un sorriso quando entro, non un saluto, si limita a fissarmi in modo infastidito. Sbuffa.
«Sì?» fa insofferente.
«Ah… Salve. Vorrei un caffè e, poi, vorrei sapere se c’è una camera disponibile per questa notte, sa…»
Non sa e non vuole sapere. Mi dà le spalle, ostentando indifferenza si dirige alla macchina per l’espresso. Mentre con enorme fatica prepara il caffè, io guardo in giro innervosita. Accanto a me c’è un grosso tavolo da ricevimento, sistemato proprio davanti la vetrina del bar, con esposte, sotto varie teche, delle torte di diversi gusti e dimensioni. Trovo la cosa assurda: per andarsi a scegliere una brioche o un sandwich, bisogna infilarsi tra il tavolo e la vetrina in uno spazio piuttosto angusto. Tuttavia, non ho tempo di soffermarmi sulla stranezza della cosa, il barista, servendomi il caffè, in modo rude e frettoloso, tanto che la tazzina quasi si rovescia, decide che merito una risposta.
«La camera c’è: sessantacinque euro a notte».
«Sessantacinque? Ma sul listino prezzi c’è scritto trentacinque!»
«Davvero?»
Chiede perplesso, si procura una penna, va al listino e lo corregge. A mano! Torna tutto contento, come se nulla fosse continua: «Come le dicevo, la camera c’è: sessantacinque euro a notte. La prende?»
«No, non la prendo, anzi pago il caffè e me ne vado! Quant’è?» Sbotto; mentre con un gesto stizzito tiro fuori il portafogli dalla borsa, perdo l’equilibrio e, per non cadere, mi aggrappo all’enorme tavolo da cerimonie, che inizia a ondeggiare. Una teca scivola a terra, non si rompe né si apre, ma la torta in essa contenuta finisce a pezzi: sono incredula, forte in me la sensazione di essere appena stata fregata comincia a farsi strada.
«Be’» esordisce infatti il barista «ora quella la deve pagare.»
Mi giro inferocita e quasi gli grido in faccia: «Sì, sì, non ti preoccupare, la pago la tua torta! La pago, me ne vado e ti faccio anche una bella recensione su Trip Advisor: vedrai!»
Quello non reagisce, anzi, impassibile, dice: «Fanno ventisette euro e ottanta centesimi più il caffè; ventinove euro e trenta centesimi in tutto.»
«Quanti?!» Grido davvero a questo punto e lo guardo, mentre il sangue mi sale al cervello. Niente, nessuna reazione: la solita espressione, ma un lieve sorriso gli affiora sulla superficie delle labbra. Comprendo che discutere non ha alcun senso. Scaravento furibonda trenta euro sul bancone, il barista li prende e va alla cassa, conta una a una 43 monete da 1 centesimo, 11 da due e una da cinque, con una lentezza esasperante. Sono presa da una rabbia folle. Pure in giro mi prende! Faccio una fatica mostruosa a mantenere la calma e ad aspettare che torni verso di me, ma, appena si avvicina con il resto, glielo strappo di mano, cade a terra qualche centesimo, me ne accorgo a stento, mentre fuggo imbestialita, prima di commettere qualche atto poco civile.
E mi ritrovo fuori, su quella schifosa strada secondaria, con sempre meno contanti, nessuna idea su cosa fare e dove andare; mi accorgo che Mister Simpatia non mi ha nemmeno fatto lo scontrino, ma rinuncio all’idea di tornare dentro a chiederlo, sono troppo arrabbiata per pensare di farlo. Comincio a camminare, tra la polvere e sotto il sole che inizia a farsi cocente. Da qualche parte mi dovrà pur portare questa strada, mi dico irata.
Dopo un po’, la collera muta in una specie di esasperazione, finché non intravedo in lontananza un secondo edificio, ci sono delle macchine parcheggiate sullo spiazzo ricoperto di ghiaia, che funge da parcheggio, e una grossa insegna capeggia al limite della proprietà, recintata da siepi: “La locanda di Vilma: da bere, da mangiare, da dormire!”.
C’è da dire che l’italianizzazione di Wilma è poco chic, ma, al momento, la cosa mi sembra ininfluente. Affretto il passo, sono piacevolmente sorpresa: è un posto carino, in pietra e mattoni, sul retro intravedo le camere, le finestre sono aperte per far entrare aria e luce, sul davanti invece c’è una splendida veranda vetrinata, dove sono collocati dei bei tavoli, alcuni occupati, tutto intorno piante, fiori, un luogo tenuto bene e pulito. La civiltà! Finalmente, mi dico. Entro sollevata: c’è un piccolo ingresso laterale dove affacciano due porte, delle quali una conduce al bar con annessa osteria, l’altra alla reception, dove però trovo due cartelli “Pos fuori servizio” e “Per le camere chiedere al bar”, con una freccia inequivocabile che indica l’entrata dirimpetto. Sorrido, pensando ironicamente che deve essere scoppiata un’epidemia tra i terminali di pagamento elettronici in questa zona, intanto seguo la freccia e di sfuggita noto il listino esposto prima di uscire dalla reception. Con la coda dell’occhio colgo i prezzi: sono stati corretti a mano con una penna…
Ho un attimo di malessere, vado a verificare. Il listino è stampato, ordinato, chiaro: camera singola euro 35 a notte per persona. Tiro un sospiro di sollievo. Mi sarò sbagliata, sono ossessionata dall’orrenda esperienza fatta, mi dico mentre procedo verso il bar. Ma nello spostamento di nuovo ho l’impressione che i prezzi cambino… una strisciata di penna nera appare e dei numeri scritti a mano, in una brutta calligrafia tremolante, sostituiscono quelli stampati… Rimango pietrificata, ma decido di non tornare indietro: non voglio lasciarmi suggestionare, sarà la stanchezza e la camminata sotto il sole. Entro nella caffetteria.
Ho appena il tempo di contare una decina di persone che fanno colazione, quando la mia attenzione è completamente assorbita da un immenso tavolo da cerimonia disposto davanti alla vetrina del bar con sopra, nemmeno a farlo apposta, in teche di varie dimensioni, i più disparati tipi di torte.
Mi si gela il sangue nelle vene e comincio a credere di star vivendo un brutto sogno. Ma una scena mi rincuora: tra gli astanti scorgo una simpatica anziana che fa colazione insieme al suo cagnolino. Infatti, seduto su un bel cuscino, sulla sedia dinanzi a lei si trova un dolce e curatissimo barboncino. Sorrido, penso che nella locanda di Vilma sono molto comprensivi e generosi per lasciare che ciò accada. Il tavolo da cerimonie deve essere una coincidenza, probabilmente da queste parti è un’usanza o semplicemente l’arredatore è lo stesso. O forse entrambe i locali si riforniscono da una pasticceria di fiducia che pubblicizzano in questo modo. Di Vilma nessuna traccia, ma dietro al bancone c’è un bell’uomo dai biondi capelli e gli occhi di cielo: di origine presumibilmente nordica, ha un aspetto molto attraente. Prepara un vassoio per la colazione con grande attenzione. Accanto un giovane anche lui di bell’aspetto: evidentemente un sottoposto, intento infatti a caricare la lavastoviglie di tazzine e piattini da caffè.
«Buongiorno» dico titubante.
Il vichingo alza gli occhi, freddo ma cortese risponde: «Buongiorno a lei.»
Anche qualche avventore ricambia il saluto. Sì, sono proprio tornata alla civiltà. Mi avvicino: «Un caffè, per favore.»
«Riccardo» fa quello «un caffè per la signora.»
In una tazzina linda, manico e cucchiaino girati dal verso giusto, il caffè arriva con accanto un piattino dove su un grazioso tovagliolo ricamato è disposto un appetitoso cioccolatino. Comincio a rilassarmi, inizio a spiegare: «Sono proprio lieta di aver trovato questo posto. Ho avuto una mattinata orrenda, non potete nemmeno immaginare cosa mi sia successo… »
Mentre racconto, presa dall’enfasi, sottolineo la follia degli eventi che mi sono accaduti con un ampio movimento di braccia, e, senza rendermene conto, colpisco il tavolo da cerimonia accanto a me, che traballa vistosamente, una teca cade e una torta finisce sformata in terra, nonostante il contenitore rimanga intonso.
Mi paralizzo. È un attimo infinito. Non posso credere a ciò che sta accadendo. A ciò che sta di nuovo accadendo.
Il barista capo, che si sta apprestando a consegnare il vassoio, sorride placido: «Ora quella la deve pagare.»
Ma io ancora incredula fisso la torta. È la stessa. È la stessa che ho già fatto cadere nell’altra locanda. Mi scappa una risata isterica. È uno scherzo, un terribile scherzo del destino, anzi, no, sono ancora a Milano, nessuno sportello bancomat mi ha mangiato la carta, io sto dormendo in albergo, presto mi sveglierò e saprò che è tutto un sogno…
«Be’, non ci sente?» incalza il vichingo «Quella la deve pagare.»
Alzo gli occhi verso di lui, non mi sembra più così attraente. Ancora mezza stordita, rispondo: «Sì, certo che la pago.»
«Bene fanno…»
«Ventisette euro e ottanta più il caffè. Ventinove euro e trenta in tutto.»
Quello annuisce perplesso, ma io, senza prestare attenzione, aggiungo: «Me la incarta la torta, per favore? Visto che la devo pagare, la voglio anche portare via…»
Il barista è sbigottito, ma c’è qualcosa di altro nella sua espressione, io decido di ignorarlo.
«Be’? Adesso è lei a non sentire? Quella me la deve incartare» ribadisco io, decisa a non farmi fregare una seconda volta e a spuntarla sull’incredibile situazione.
«Riccardo, incarta la torta per la signora: così può portarla via…»
Restiamo a fissarci per un lungo attimo, intanto Riccardo raccoglie la teca con dentro i resti della torta e la porta dietro il bancone per confezionarla. Quando mi consegna il pacco, lascio trenta euro, prendo la confezione, la apro e butto il contenuto nel cesto della spazzatura che si trova vicino a me, rompo la confezione, butto pure quella. Tutti i presenti nel locale mi fissano con espressioni indecifrabili. Riccardo è basito, mentre il suo capo, che mi sta consegnando il resto, rimane con la mano a mezz’aria.
Io lo guardo: «Lo scontrino?»
Quello lascia scivolare gli spiccioli: «Il… che?»
«Lo scontrino» ribadisco io irremovibile.
«Lo scontrino, Riccardo, la signora vuole lo scontrino!»
Urla il vichingo e inizia a ridere come se avessi raccontato la barzelletta più esilarante al mondo. A quel punto, tiro fuori il cellulare dalla borsa: «Be’, lo spiegherà alla Guardia di Finanza perché la mia richiesta la fa tanto ridere.»
Inizio a digitare il 117, ma, prima di capire cosa stia succedendo, sento un dolore lancinante al polso. Il cellulare vola via oltre il tavolo da cerimonia. Stordita dal dolore e presa alla sprovvista, mi volto e realizzo: Riccardo mi ha colpito con un vassoio.
«Ma sei pazzo?!» grido sconvolta. La sofferenza è tale che mi prendo il polso in mano, piegando le spalle in avanti e accartocciandomi quasi su me stessa. Ho un attimo di vertigine, una seconda vassoiata mi arriva a una spalla, perdo l’equilibrio e vado a sbattere contro il tavolo da cerimonia, che si ribalta, rovinando a terra insieme a me con un frastuono assordante.
Cerco di sollevarmi, ma un nuovo portentoso colpo al ventre mi rigira su me stessa, facendomi rimbalzare a terra e togliendomi il fiato. È il vichingo che, una volta raggiunta, mi ha tirato un calcio.
«Vuole lo scontrino la signora!» lo sento gridare. «E diamoglielo ‘sto benedetto scontrino!»
Rumori di sedie che si muovono, passi che si avvicinano, cerco di guardarmi intorno, sono circondata da piedi, mi colpiscono, mi appallottolo per difendermi; qualcuno mi picchia con un oggetto duro, legnoso, cerco di guardare: è la simpatica anziana che mi sta pestando con un grazioso ombrello da passeggio, mentre il dolce barboncino mi morde una scarpa ringhiando rabbioso.
«Perché?» riesco a malapena a sussurrare «Perché anche lei signora?»
Nessuno mi ascolta. Nessuno mi risponde. I colpi mi piovono addosso incessanti, una tempesta di dolore e sofferenza. Piango, ansimo, cerco di rannicchiarmi il più possibile. Sto per perdere i sensi. Chiudo gli occhi, tentando ancora disperatamente in qualche modo di difendermi.
«Bel casino» disse Giovanni, l’agente amico del barista Ector, dopo essere stato chiamato alla Locanda da Vilma per un’emergenza.
«Ma che dovevamo fare, Giova’? Quella voleva lo scontrino!»
«Capisco, certo, però potevate almeno fare un lavoro pulito!»
«Sì, sì, questo è vero, ma Riccardino c’è partito in quarta… l’impeto della gioventù… a quel punto, non restava da fare un granché…»
Giovanni sembrò riflettere pensieroso per qualche attimo. «Per la miseria! Negli ultimi tempi, ne capitano parecchi di questi che chiedono lo scontrino…»
«Già, sta diventando un problema…» rispose preoccupato Ector.
«Troveremo un modo» cercò di rincuorarlo Giovanni, dandogli una bella pacca sulla spalla «Come abbiamo sempre fatto!» gli strizzò l’occhio a mo’ d’intesa «E, per questa, non ti preoccupare, ci penso io con i ragazzi…»
«Grazie Giova’, sei un amico!»
In quel mentre, con fare educato e quasi avesse avuto timore di disturbare, si avvicinò una compita signora. «Agente Giovanni, mi scusi… posso chiedere?»
«Ci mancherebbe, signora Maria! Mi dica!»
«Ho trovato questo telefonino, credo fosse della signorina, mi sembra bello… lo posso tenere per regalarlo a mio nipote Massimo?»
Giovanni prese in mano lo smartphone, che la graziosa vecchietta gli porgeva, lo soppesò e, soddisfatto, rispose: «È un Samsug Galaxy ultimo modello… Guardi che bella custodia protettiva… Vale una fortuna! Massì, lo tenga pure, però lo faccia resettare… Il figlio piccolo dell’Ornella è bravo in queste cose, lo ripulisce e lo fa come nuovo, vada da lui… gli dica che la mando io» restituì il cellulare e gentile commentò: «Suo nipote sarà felice! È proprio fortunato ad avere una nonnina premurosa come lei, signora Maria.»
Maria ringraziò calorosamente, sorrise amabilmente, mise il cellulare in borsa, prese Lulù in braccio, salutò e si diresse contenta a casa dell’Ornella.
Foto di Francesca Riscaio