Sorreggendo il cesto dei panni con un braccio, Kiera socchiuse la porta dietro di sé e scese nel seminterrato. Guardò il calendario condominiale, che indicava il giorno del bucato assegnato ai sei appartamenti, ognuno contraddistinto da un numero. Vide il suo e sorrise.
Era stata sballottata dall’Ufficio Provinciale del Territorio alla Ragioneria Comunale, quindi allo Studio Legale Regionale e infine allo Sportello Catastale Decentrato per ottenere una visura per il suo capo. Vedere quel numero, ora, le restituiva un posto nel mondo.
Mentre apriva lo sportello della lavatrice sentì una chiave infilarsi nel portone d’ingresso: a quell’ora poteva trattarsi solo di Keto, secondo piano a destra, che rientrava tardi dal lavoro. I restanti inquilini erano più abitudinari, probabilmente stavano già cenando. La vecchia, piano terra a sinistra, aveva già finito, sparecchiato e pulito, e si era posizionata davanti al televisore. Stava diventando sorda, ogni sera il livello del volume aumentava.
Mentre versava il detersivo nel cestello, Kiera si accorse di non aver sentito i passi della persona che era appena entrata. Rimase immobile, per un momento immaginò di essere in un film dell’orrore, con un serial killer silenzioso alle sue spalle, lei china e indifesa. Ma una porta sbatté, e il rumore che echeggiò nella rampa delle scale strangolò quella sciocca immagine.
Premuto il pulsante di avvio, Kiera lasciò i panni sporchi a girare nell’acqua schiumosa e salì la prima rampa di scale. Sperò che la vecchia Kivalà non fosse appostata col fiato trattenuto dietro lo spioncino, pronta a uscire e a ricordarle di non fare il bucato troppo tardi la sera. Educatrice civica in pensione, la portinaia ti fermava sulle scale se non seguivi le regole alla lettera e con insistenza picchiettava la sua bacchetta sulla ringhiera. Di fronte a lei, piano terra a destra, viveva la signora Kevita, una donna mastodontica che non dava confidenza, stava sempre chiusa in casa per paura di una ramanzina dalla portinaia, e sobbalzava con uno schianto quando sentiva dei passi avvicinarsi.
Per evitare entrambe, Kiera salì le scale saltando i gradini a due a due. Atterrò sul tappetino della sua vicina, che slittò facendole perdere l’equilibrio. Kiera diede una forte gomitata contro la porta di Kyssa e rimase immobile come una statua di sabbia, pronta a sgretolarsi d’imbarazzo per una secchiata d’improperi. Ma nessuno venne ad aprire per chiedere spiegazioni o rimproverarla – la sua vicina era un’assistente di bordo, quasi mai in casa, e solo ogni tanto compariva di sfuggita sul balcone per fumare una pipa.
La ragazza tirò un sospiro di sollievo e poggiò la mano sulla porta di casa. Si accorse che non era socchiusa come l’aveva lasciata, per cui afferrò la maniglia e la piegò in basso, ma non riuscì ad aprirla. Kiera indietreggiò di scatto, per un momento pensò di essere sul pianerottolo sbagliato, forse aveva fatto due rampe in più. Il regolamento della palazzina voleva che gli appartamenti avessero tutti la stessa porta, tutti lo stesso zerbino. Ma il nome sulla targhetta del campanello era il suo, anche se non ricordava lo spazio tra le vocali.
Le venne la tentazione di suonare, ma viveva da sola. Sorrise per l’idea bizzarra. Riprovò ad aprire, e non riuscendoci si aggiustò la coda dei capelli. Abbassò la maniglia e fece pressione con la spalla, forse qualcosa era rimasto incastrato. L’ostinazione della porta cominciò a infastidirla: non aveva telefono né soldi con sé, avrebbe dovuto chiedere aiuto alla vecchia. La tentazione di suonare tornò con stizza, e per scrupolo premette il campanello, un tocco del pulsante breve e perplesso.
Dall’interno una voce pronunciò parole indistinte, la serratura scattò e apparve un uomo. Kiera provò a immaginare quale fosse l’espressione sul proprio viso in quel momento, una sorta di iroso panico sbalordito.
– Ma lei chi è?
L’uomo e la ragazza pronunciarono le parole simultaneamente, con intonazioni diverse.
– È da un po’ che sta qui a smanettare con la porta di casa mia, – disse l’uomo con aria accigliata.
– Casa sua? – ringhiò Kiera aggressiva.
– Cosa vuole?
– Cosa voglio? – esplose Kiera, irritata anche per il fatto che per la seconda volta stava ripetendo le parole dell’uomo. – Esca fuori da casa mia e mi lasci entrare!
Kiera alzò il tono della voce sperando che gli altri inquilini della palazzina la sentissero e uscissero in suo soccorso. L’uomo alzò un sopracciglio.
– Lei sta vaneggiando, – disse calmo. – Ora, se vuole scusarmi.
Allibita. Kiera si sentì schiaffeggiata al rallentatore, come la porta che le si chiudeva in faccia, lasciandola incapace di muoversi. Avrebbe dovuto gettarsi sullo sconosciuto come la martora nel documentario la sera prima, sopravvivenza è anche difesa del territorio. Ma scelse la dignità, rinunciò al proprio orgoglio, e scese dalla vecchia.
Suonò il campanello più volte prima di sentire il volume del televisore abbassarsi. Inspirò a fondo, per raccontare quella situazione assurda mantenendo la calma, perché poteva essere solo un malinteso, e mostrò il suo sorriso più affabile.
– Com’è entrata lei? – chiese la donna dal petto prepotente senza darle il tempo di aprire bocca.
– In che senso? – balbettò Kiera disorientata.
– Come ha fatto a entrare in questa palazzina? – disse la donna scandendo le parole con impazienza. Era bassa, di corporatura robusta, indossava calzoncini da safari. Le braccia incrociate sul seno abbondante avrebbero bloccato una mandria di rinoceronti. – Il portone è sempre chiuso, io non la conosco e non le ho aperto, quindi cosa ci fa qua?
– In che senso non mi conosce? – Kiera fece uno sforzo sfiancante per non urlare alla donna che era una vecchia rimbambita, sorda e brontolona. – Sono Kiera, l’inquilina del piano di sopra.
– Quale piano? Sono la portinaia, conosco tutti gli inquilini e lei non so chi sia.
– Ma che dice? Primo piano a sinistra, io abito lì da tre anni.
– No, – la corresse Kivalà, – lì abita il signor Era da tre anni.
– Chi?
– Sì, il signor Ki Era.
– No! – la ragazza non poté evitare una smorfia isterica e si guardò intorno. – Ma cosa dice? È uno scherzo? Di sopra c’è un uomo che si è chiuso in casa mia. Capisce? Il mio appartamento, invaso! Ero scesa un attimo a fare il bucato…
– Lei ha qualche rotella fuori posto, – disse la donna avvicinandosi alla ragazza, e fece per afferrarla.
– Ma che fa?
Kiera balzò indietro, odiava che le si mettessero le mani addosso. In preda al panico salì su per le scale, al secondo piano. Keto era l’unico degli inquilini che si fermava a parlare se la incontrava nell’atrio, erano anche usciti insieme una volta. Bussò forte alla sua porta, coi pugni, trattenendo le lacrime. Nessuno venne ad aprire. In compenso Kiera sentì la serratura della porta alle sue spalle girare due volte, i coniugi Ketichella, e poi una voce soffocata dire: Chiama la polizia!
– Ma che avete tutti! – urlò Kiera.
Corse giù, la vecchia era rientrata lasciando l’ingresso aperto, un buco nero come le fauci di un ippopotamo. Kiera raggiunse la stanza del bucato, accese la luce e chiuse la porta dietro di sé. Avrebbe voluto bloccarla, ma non c’era la chiave. Strisciò a terra con lo sfinimento di una preda braccata e rimase lì, col peso del corpo a ostruire l’ingresso.
Mentre cercava di capire cosa fosse successo, qualcuno bussò.
– Chi è? – chiese d’istinto, portando subito le mani alla bocca.
– Keto, – rispose la voce dall’altra parte.
Kiera si alzò e lo fece entrare.
– Mi riconosci? – gli chiese afferrando i lembi della tunica. – Sai chi sono?
– Se non lo sai tu, chi altri? – sorrise quello mantenendo le mani dietro la schiena.
Non era un sorriso bello: aveva i denti storti, gli angoli della bocca non erano simmetrici, e più si allungavano più gli zigomi diventavano spigolosi. Era un sorriso gentile, ma in maniera estenuante. Kiera ebbe l’istinto di prenderlo a schiaffi per accertarsi che fosse vero, per non doversi lasciare un livido addosso con un pizzicotto.
– Voglio tornare a casa! – abbaiò esasperata.
– Che cos’è casa?
La placidità di Keto la infastidì, l’istinto di prima stava diventando voglia di prenderlo a pugni.
– È il mio appartamento al primo piano, con i mobili dal design scandinavo, i libri in ordine alfabetico, le orchidee bianche a ogni finestra, il basilico in cucina, il frigorifero pieno di calamite di posti in cui non sono mai stata.
– Tutto qui?
– Che vuol dire tutto qui? – lo guardò indispettita Kiera.
– Hai solo fatto un elenco di oggetti. – Keto la fissava dritto negli occhi, come se volesse scavare con due cucchiai. – Begli oggetti, ma nient’altro che oggetti.
Kiera soffiò e si voltò dall’altra parte. Si inginocchiò, incrociando le dita sopra la testa come a formare un elmetto. Il rumore della lavatrice attirò la sua attenzione, gli occhi si fissarono sul movimento rotatorio, costante, come di un’onda intrappolata. Quella vista in qualche modo la calmò.
Keto aprì lo sportello e la macchina vomitò acqua e detersivo. La ragazza balzò indietro spaventata. In quel rigurgito di liquido detergente, però, c’era un buon profumo, sembrava già tutto pulito. Kiera si avvicinò al cestello, infilò il naso per annusare meglio.
– È così… – voleva dire confortevole, ma le sembrava la parola sbagliata.
– Hai bisogno di aria fresca, – la rassicurò Keto.
La prese per un braccio, con morbidezza, come un vecchio amico, e la portò di sopra. La ragazza si lasciò trasportare, come su una nuvola, aveva ancora nelle narici l’odore dell’ammorbidente.
– Cos’è? – chiese. – Non ricordo che odore è.
– L’odore della notte, – disse Keto sospingendola con garbo.
Sentì il portone chiudersi dietro di sé con una serratura a scatto e, un istante prima, la voce della vecchia chiedere: Chi era? Ma nell’udire il click, per un momento ebbe la sensazione di appartenere di nuovo a un posto.
*****
Copertina originale di Thomas Lehn
Thomas Lehn è cresciuto sotto pini marini che guardavano il mare, e ora vive accanto a salici piangenti che sfiorano un fiume. Si ciba principalmente di fichi e acqua del rubinetto, e quando può sta sul balcone a inseguire il sole. Ha creato Oblò per scrivere meglio e pubblica racconti su riviste online.