Regalmente defecare. Per molto tempo questo era accaduto a Gregorio, ogni mattino, subito dopo il caffè. Prima ancora che i suoi sensi riprendessero a lavorare, a fargli sentire ciò che accadeva intorno, la fisiologia lo convocava in riunione: l’assemblea dei soci di una società sana, in crescita costante, nella quale un consiglio d’amministrazione competente e accorto distribuiva all’esterno generosi e consistenti dividendi. Una cosa rapida, veloce e indolore, senza opposizione, litigi o proteste. Prima ancora di aver pensato la parola cacca, tutto il male del mondo era scivolato via senza intoppi, quasi dolcemente, verso i recessi profondi del sistema fognario cittadino. Gregorio gustava l’odore di quella salvifica produzione, ne era fiero, identificandolo con il profumo della conquistata libertà, il profumo di un’umanità perfettamente funzionante che non lo tradiva mai. E Gregorio era pronto per affrontare la quotidianità con il sorriso sulle labbra. Il suo superpotere: cagare bene e regolare. Nulla, dopo una sana seduta di gabinetto, poteva compromettere il suo umore o il corso della giornata: leggero, sgombro nel corpo e nell’anima, si muoveva attraverso il mondo, gli accadimenti e la vita come brezza primaverile, fresca e carezzevole, protetto, anzi, scudato dalle brutture.
Nobilmente e puntualmente defecare. Da quando aveva ricordo, era stato così per Gregorio. Non la mattina del 19 marzo 2019. Non quella mattina. Gregorio aveva lungamente atteso che la fisiologia avesse fatto il proprio corso, come era di norma per lui nell’ordine delle cose, ma niente era avvenuto. Non capiva cosa ci fosse stato di diverso, cosa fosse andato storto. Non trovava spiegazioni razionali all’irritante e maldisponente, eccezionale evento. Semplicemente, dopo il caffè, nessun richiamo della natura, nessuna assemblea. Si era lungamente attardato nella speranza che qualcosa si fosse smosso. Aveva persino caricato una seconda macchinetta di caffè. Ma a nulla erano valsi l’attesa e i tentativi per convincere l’intestino a collaborare. Era uscito sconvolto e in ritardo per dirigersi al lavoro. Un senso di costrizione e appesantimento adombrava il suo umore, una forma acuta di acredine si accese in lui, mentre in metropolitana si avvicinava all’ufficio. Non riusciva a pensare ad altro che non fosse la sua mancata seduta di gabinetto. Era certo che ciò che non aveva espulso iniziasse a muoversi dentro di lui, a fermentare, ammorbandogli gli organi interni, corrompendogli le interiora. Le sentiva. Sentiva le feci, come tentacoli vivi e putrescenti, muoversi, trapassare confini e tessuti, giungergli ai polmoni, al cuore, diramarsi insieme ai nervi, sotto la pelle con le vene, fino al cervello, ai pensieri più intimi, fino al suo stesso spirito. Le feci che non aveva espulso quella mattina, già a poco più di un’ora di distanza, lo stavano avvelenando. Gregorio ne era certo. Quando arrivò in ufficio, già sentiva in bocca il sapore dei succhi gastrici mischiato all’effluvio di qualcosa che ben conosceva, nemmeno riusciva a nominarlo, ma che tanto lo rassicurava quando poteva riempirsene le narici dal di fuori di lui. Nemmeno cercò di giustificarsi con il capo reparto quando, arrivato sul posto di lavoro, lo convocò per chiedergli ragioni del ritardo. Gregorio era sempre stato un impiegato modello, ma proprio per questo l’accanimento del principale sull’unico suo sgarro fu feroce e impietoso. Quando i virtuosi sbagliano, i viziosi sono sempre solerti e lieti nel lapidarli. Ma Gregorio non pensava minimamente alle ingiuste parole che gli venivano rivolte e alla maligna soddisfazione degli inetti colleghi, che origliavano la reprimenda da dietro la porta dell’ufficio del superiore. Gregorio pensava all’“Airone” di Bassani, di cui qualcuno gli aveva parlato tempo addietro, e ossessivamente una frase popolare gli echeggiava in mente: “Chi non caga muore gonfio.”
L’acredine divenne odio.
“Anche lui” rifletteva Gregorio, guardando il capo “non ha cagato questa mattina. Anzi, è da molto che non si fa una bella cagata. E la merda, che non è riuscito a espellere dalla retta via, gli esce dalla bocca sottoforma di parole putride e oscene. Osceni sono i suoi pensieri. Presto anch’io sarò come lui, perché da qualche parte, tutti quei rifiuti organici, stratificati nell’intestino, dovranno pure uscire. Anch’io a breve vomiterò merda dalla bocca, come lui. Come tutti gli altri. La merda deve essere espulsa: espulsa feconda la terra, trattenuta infetta la carne. Quando la fisiologia non funziona, l’umanità si corrompe.” Questo pensava Gregorio e non aveva nemmeno bisogno di ascoltarlo, il capo, tanto vedeva quelle parole-feci piombargli addosso e ricoprirlo di escrementi fermentati e marci.
Alle 11 e 47, Gregorio aveva già bevuto altri cinque caffè, nel disperato tentativo di innescare una reazione a catena, anche una diarrea dolorosa ed esplosiva gli sarebbe andata bene pur di liberarsi in qualche modo. Ma ancora non riusciva a ottenere alcun risultato. Decise di non mangiare alla mensa dell’azienda. Si diresse, in pausa pranzo, al supermarket, che faceva orario continuato, all’interno del grosso centro commerciale vicino al posto di lavoro. Si armò di tutte le bibite e gli alimenti che giudiziosamente generazioni di donne della sua famiglia gli avevano, negli anni della sua gioventù, sconsigliato perché potevano avere effetti socialmente indesiderabili: latte e bevande gassate fredde, pagate con un sovrapprezzo perché conservate nei frigoriferi industriali del punto vendita, prugne secche, cachi, cocktail di erbe lassative e tutto quello che riteneva realisticamente di poter ingurgitare, per dare il via a una evacuazione che sarebbe passata alla storia. Si sedette su una delle panche all’interno della cittadella commerciale e iniziò a trangugiare metodicamente ciò che aveva acquistato nel supermercato. E fu allora che cominciarono le allucinazioni. Gregorio iniziò a vedere tutti gli altri clienti sotto forma di Mr Hankey, direttamente usciti da una pessima puntata di South Park. Una marea monocolore di stronzi, con occhi grandi e sorrisi ebeti, con pettinature ordinate e braccine a forma di piccoli stronzi reggenti pacchi e borse di varia forma e dimensione.
All’odio, si unì l’angoscia.
Quando rientrò in ufficio, veramente il suo umore era di merda. Aveva il ventre gonfio e teso come un pallone da pallavolo, uno sciabordio inquieto e continuo negli intestini, nemmeno avesse ingoiato uno sciacquone rotto, un concerto di rane che stavano annegando, ma di defecare non se ne parlava proprio.
Alle 15 e 21, Gregorio prendeva, al distributore automatico dell’azienda, il tredicesimo caffè della giornata, accompagnato da una cioccolata calda e un pessimo cappuccino sintetico, e fumava la prima sigaretta della sua vita, scroccata in malo modo a una collega; si era pure dovuto recare fuori dall’azienda, per poterla fumare, giacché era vietato farlo all’interno dello stabile.
Quando a fine lavoro prese la metropolitana per tornare a casa, alle allucinazioni visive si aggiunsero quelle uditive. Aggrappato alla maniglia del vagone, come se stesse precipitando e quello fosse l’unico appiglio rimasto per la salvezza, Gregorio cominciò a sentire i pensieri degli altri viaggiatori, tutti rivolti verso di lui. Lo deridevano. Deridevano la sua disgrazia. Lo schernivano impietosamente.
“Ti ha abbandonato, Gregorio, la tua buona fisiologia ti ha abbandonato. Rassegnati.” Sussurravano malignamente, guardandolo di sottecchi. “Alla fine, anche tu diventerai come noi, un contenitore di feci marce!”
Li guardava inferocito, digrignando i denti in un moto inconsapevole e inconsulto, e sentiva le sue budella gonfie rivoltarsi, gli intestini gridare dolorosamente. Tutti quei sussurri gli si appiccicavano addosso, lo sozzavano, come dentro di lui la merda che non era voluta uscire lo aveva avvelenato per l’intera giornata. Iniziò a sudare Gregorio e, senza aspettare la fermata giusta, cominciò a gridare contro tutti quei piccoli Mr Hankey che lo accerchiavano: “Non sarò mai come voi! Mai! Mai!”
E, appena la metropolitana si fu fermata, fuggì come un pazzo fuori dalla cabina e corse, corse via, attraverso la scalinata che guadagnava la luce, quasi ammazzandosi sulle barriere dell’uscita, e finalmente, completamente consapevole di ciò che stava facendo e di quale fosse la soluzione, l’unica soluzione possibile, si diresse al ponte sovrastante il fiume che divideva in due la città. Con una furia e una forza che non avrebbe mai saputo dire da dove gli fossero giunte in soccorso, divelse la rete protettiva, irragionevolmente raccolse la valigetta del lavoro, gettata da un lato per sfasciare la barriera, e, stringendola ossessivamente in mano fino a farsi male per la grande pressione con cui la teneva al petto, si gettò nel fiume. Gregorio non morì in modo stoico né in maniera eroica. Gregorio non ebbe pensieri drammatici, anzi, concentrato com’era sulla propria liberazione dal magma fecale, che gli intasava organi e anima, l’unico suo rimpianto fu la consapevolezza che non avrebbe potuto assistere al momento dell’evacuazione e l’ultima sua considerazione fu solo: “Non morirò mai gonfio: io mi sgonfierò morendo!”
Immagine presa da Pixabay
bel racconto…sicuramente particolare. Questo mi ha fatto venire in mente:
“Ascoltatemi tutti e cercate di capire! Niente di ciò che entra nell’uomo dall’esterno può farlo diventare impuro. Piuttosto, è ciò che esce dall’uomo che può renderlo impuro'” (Matteo 15, 10-20)
Un punto di vista veramente interessante! Grazie mille, Simone, per aver letto il racconto e per aver lasciato il tuo pensiero! Mi fa molto piacere sapere che hai apprezzato la lettura! Grazie ancora! Francesca