Sono il proiettile. Il punto marchiato nel corpo che pone fine alle domande. Abbatto, con il peso dei miei 10 grammi scarsi, quintali di carne. Decreto il tutto. Esisto da prima di Colt in svariate forme e dimensioni, ma devo a lui l’efficienza a basso sforzo.
È facile: carica, punta, arma e spara.
La distanza, con me, è relativa, non temo oscurità o gelo, gravità o strati di pelle, umori o ripensamenti. Non esito. La mia rotazione è parente stretta di quella terrestre e, come lei, compio rivoluzioni.
Rivoluzioni, rivoltelle, rivalità, rinculi hanno spesso il medesimo suono: BANG! Un tuono artificiale che rende chiunque m’impugni la perfetta personificazione di un dio mortale.
Spesso parlo a interlocutori sordi nonostante usi come megafono le canne di pistole e fucili. Mi declino in tutte le possibilità di scopo. Abbozzo, scalfisco, sfregio, lacero anche se principalmente penetro. Investo tutto me stesso nel viaggio che intraprendo.
È facile: Si avvicina? Spara. Ti aggredisce? Spara. Scappa? Spara. Spara? Se sopravvivi, spara. Nella mia cruda semplicità mi faccio comprendere dal colto all’ignorante. La più letale delle armi in natura, e di naturale ho ben poco.
È colpa della parola. Hanno paura del possibile e delle relative conseguenze, del ciò-che-potrà-esser-detto. Devo rendere muto ogni respiro, accusa o quesito, quando io vorrei solo dialogare, conoscere le persone verso cui sto andando incontro a più di 1000 metri al secondo.
Ho molto in comune con loro. Abbiamo fragilità nascoste dietro gusci protettivi che ci permettono di funzionare; siamo unici nelle nostre cicatrici impresse dai solchi del nostro utilizzo; ridotti nella comprensione perché limitati a osservare attraverso il pertugio di una canna o di uno sguardo; abbiamo picchi di goduria che interrompono la monotonia, siano essi detonazioni o orgasmi. Anch’io passo gran parte dell’esistenza racchiuso in una camera e, quando avviene l’innesco, non oppongo resistenza. Nessun sadismo né delirio di onnipotenza. Sono curioso e illuso, coltivo la speranza che la prossima volta sia diverso.
Ci siamo. È il momento. A forza di pratica colgo la differenza tra una pulitura, un’esercitazione o un’esecuzione. La mano che mi stringe è diversa dalla mano precedente. Suda. Bagna il calcio in madreperla perché l’adrenalina è materia ingestibile per una persona, figuriamoci per una mano o un proiettile.
È l’attimo più intenso, la mia venuta nel mondo. Mi convinco di essere un prigioniero a cui è concessa la libertà per brevi respiri. Purtroppo mi distraggo come mai dovrebbe fare un pilota e la mia attenzione è rivolta a ciò che mi circonda. Piccoli sprazzi di luce, frammenti di ambiente appena abbozzati mi si parano davanti e io, con la noncuranza della mia natura, li supero quando vorrei fermarmi e scoprire cosa si cela oltre lo sfrecciare sincopato. Capto un luogo chiuso, ordinato, coste di libri, polvere, luce al Led e il cranio che buco e spappolo. Mi inganno sempre. È questo l’attimo cocente prima dell’abbandono, del freddo; l’illusione che accompagna la mia vittima ad alimentare i ricordi, l’infanzia, le gioie sperimentate o solo agognate, i “farò-domani” trasformati in “non-farà-mai-più”. Rapide scariche, spasmi interiori ne mettono a nudo i pensieri, mi coinvolgono in un’intimità senza pari. Forse questa è l’amicizia, covare le ultime confidenze di chi sta diventando gelido, evitare che, oltre all’emorragia del sangue, schizzi via anche l’anima dal foro d’entrata.
A volte fantastico sulla mia esistenza sparata in un libro; spulciare freneticamente le lettere impresse su carta prima che le bruciature del bossolo le rovinino per sempre. Amerei libri di storia, d’avventura, di vendette o semplici capricci. Vorrei leggermi nell’immaginario di uno scrittore e sentir fischiare proiettili di inchiostro.
Stavolta il mio libro è Oliviero Toschi, cartografo romano con due divorzi alle spalle, senza figli e futuro, amante dei vini, del suo lavoro e dei mignoli delle donne, delle zinne, del saliscendi del gargarozzo mentre si disseta in una serata afosa, del…
Il tonfo. L’arrivo rovinoso al suolo e Oliviero smette di confidarsi. Ora resto solo io a custodire quanto resta di lui. L’ombra del padrone si avvicina e si arrampica sul cadavere, copre il foro e tutto si fa buio, ancora una volta.
Il dopo è in balia degli eventi: fluttuo, ci spostano, slanciano, accartocciano, e buttano in acqua. Il sale colma il foro e inizia la sua lenta corrosione. Ho tanto tempo a disposizione e resto concentrato su due obiettivi: ignorare il sale e trattenere Oliviero. I pesci spiluccano il corpo e lo erodono tanto quanto il sale sta erodendo me. È un bene che non senta, che sia finito senza umiliazioni. Per me è diverso, non c’è una fine, un desiderio di acqua o cibo, anche se quel vino (era un Masseto? Un Montalcino?) avrei proprio voglia di assaggiarlo. Vorrei scoprire il significato di “zinne”, e perché non vengo mai sparato nel gargarozzo. Il braccio di Oliviero si impiglia in un arbusto e oscilliamo verso una secca, ha trovato una riva, forse per lui sarebbe la salvezza, per me è solo altro tempo in cui specchiarmi.
Se c’è una cosa che ho imparato dai cadaveri è la loro predilezione per i vestiti. Ci restano incollati e lasciano andare il resto.
La distrazione è la prima avvisaglia dell’allontanamento, ero protetto, compattato nel cervello e adesso in questo cranio mi ci perdo, il vento spira attraverso le orbite e il tintinnio del mio bossolo spero diventi il richiamo di una campanella a festa.
E in effetti qualcuno arriva, dopo milioni di scampanellii. Piccoli piedi scalzi e neri più del fango mi calpestano e si ritraggono, piccole mani cotte dal sole scostano l’erba e le ossa. Mi raccolgono e ispezionano.
Devo aggiungere un altro punto all’elenco degli aspetti in comune con gli umani. La vanità. Mentre vengo massaggiato, soffiato e sfregato penso… sono presentabile? Avrò perso lo smalto, il lustro da proiettile nuovo. Mani Piccole non sembra badarci molto e mi stringe nel pugno. Ho un fremito. Sono ancora necessario, com’è possibile? Mani Piccole ha un nome ma per scoprirlo dovrei ucciderla e io preferisco rimanerle estraneo. Ciò che più desidero va al di là di un nome. Se fossi carne questa intensità la chiamerei svenire. E sverrei come Oliviero, rapito dalle emozioni alla proposta di nozze e relativo rifiuto, in uno scampolo indefinito di passato.
Mani Piccole è implacabile. Incontra altre mani che vivono con lei in un posto molto distante da Oliviero. Mi presenta ai suoi simili, tentano di toccarmi ma lei li fronteggia e li respinge tenendomi tutto per sé. Mi sento ubriaco come fossi stato immerso nel vino caro a Oliviero, in un vorticare continuo di spostamenti e vibrazioni. Una parvenza d’umanità.
E poi si ferma. Rigida.
Conosco quella tensione che scorre lungo il braccio (È facile: carica, punta, arma e spara.) Arriva alle dita e le rende importanti, sicure. Mi sento nudo senza l’alveo della mia pistola mentre Mani Piccole compie movimenti che sembrano collaudati.
Ci siamo. È il momento. È strano, la pratica stavolta non mi è d’aiuto. Mi spara e non mi spara. Ruoto al rallentatore e vengo accompagnato nel mio secondo viaggio dai suoi polpastrelli. Non sono brevi respiri ma scorci nitidi della sua esistenza: una capanna di paglia e fango, mosche, foschia naturale, umani smunti così diversi da Oliviero, ancora mosche, uno scheletro di TV a tubo catodico senza il tubo catodico, stuoie e cenci buttati a terra con sopra altre mosche, un tessuto unto. Il mio obiettivo. Penetro il tessuto con lentezza, lo strappo con gentilezza. Aspetto l’inondazione di sangue, sofferenza e confidenze, invano. È già morto. No. Non è mai stato il vivo che io conosco.
Mani Piccole afferra il mio nuovo involucro e corre, corre più veloce del vento che indugia a farmi tintinnare in questa notte calda. Prende a calci qualche rottame e mi piazza di fronte a una pozzanghera. La luna riflessa mostra un ovale con degli sterpi per capelli e un foro sul lato destro. Ci sono io dentro quel foro e riesco a osservare senza essere sparato. Mani Piccole ride con la sua bocca sdentata e con un sasso affilato squarcia i lati dell’ovale; contemporaneamente sento lo strappo, il canto degli insetti, il respiro degli alberi, il tramestio di altri piccoli piedi che setacciano e cacciano. Un bambino si avvicina a Mani Piccole e le mostra qualcosa. Lei contrariata gli schiaffeggia i palmi e una vite arrugginita cade a terra e ruzzola nella pozza d’acqua. Vengo sollevato e portato troppo vicino al viso del bambino.
(È facile: carica, punta, arma e spara.)
Non accade nulla, giusto Mani Piccole che urla un po’ però niente corpi a terra, niente buio. Nasce una disputa, la faccia nera del bambino è piena di argomentazioni, Mani Piccole desiste e mi poggia a terra. Vengo sfilato dal foro e me ne fanno praticare un altro leggermente più decentrato e in basso rispetto al primo. Avviene tutto nel medesimo modo ma stavolta vengo invaso dall’odore stantio degli escrementi e della terra umida prima di essere collocato nuovamente nel foro iniziale.
Mi stanno cercando. Stanno cercando altri me. Mani Piccole adesso è distante, forse è preoccupata e vorrei tanto poter essere la bocca per tranquillizzarla. La rassicurerei sussurrando che la nostra produzione supera di gran lunga la loro riproduzione. Se è veramente me che cerca, può rilassarsi, altri occhi di metallo non tarderanno ad arrivare.
Copertina di Matteo “ShannoSauro” Vettori
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