Racconto di Marina Mongiovì
La mamma lo diceva sempre: ‹‹Tempo passa e tutte diventano farfalle››. I fianchi di Catia però erano difficili da modellare.
‹‹Pacchiona sei››. I risolini dall’ultimo banco le fiatavano sul collo, insieme all’odore delle sigarette fumate a sgamo, dentro al bagno della scuola. Catia se ne stava muta, nel suo stadio larvale; ogni tanto cambiava posizione e sentiva le cosce sfregare tra loro. Percepiva, dentro al suo cespo di capelli o sulla schiena curva sul banco, le palline di carta che le sputavano addosso. Sentiva il secco soffio che usciva dalle cerbottane, ricavate dalle carcasse delle penne Bic, e immaginava le piccole sfere depositarsi addosso come uova d’insetto. Qualche volta, in quella sua matassa di riccioli, avevano appiccicato anche le Vigorsol. Tornava a casa e tagliava intere ciocche, le gettava nel water e aspettava di vederle sparire nel vortice dello sciacquone.
La stanza di Catia era un cumulo di cose accatastate senza grazia. La vita scorreva davanti a uno schermo luminoso. Rannicchiata nel letto, sentiva l’odore del suo fiato, abbracciava due gonfie ginocchia.
‹‹Non è grasso Catia, hai le ossa grosse. I fianchi larghi, come la mamma, li vedi? E l’addome prominente di nonno Tano, te lo ricordi?››.
Lei annuiva come se quell’eredità potesse consolarla e spiegare lo stato di quiescenza, racchiuso fra quelle quattro mura.
Parlava poco Catia, la voce era appesa a un filo di seta. Comunicava coi polpastrelli, che si inseguivano veloci su una tastiera. I filtri le levigavano la pelle, cuori anonimi pulsavano solo per lei.
Usciva poco: aveva tutta la pazienza delle ninfe, attaccate alla pianta nutrice. Quando era di buonumore alzava il volume degli auricolari, accennava un passo di danza e poi tornava a letto.
‹‹Esci, fatti degli amici. Che schifo, c’è puzzo di chiuso qua dentro››.
La madre spalancava la finestra, Catia strizzava gli occhi; come un animale a cui avevano scoperchiato la tana. La madre non lo voleva capire che le amicizie si misurano col girovita. Come faceva a non capire che lei non era bella, non era firmata e non era popolare, e quindi invisibile: ‹‹Mi schifìano tutti, mamma››.
‹‹Sono fasi, poi ti passa››. Alzava le spalle, non la guardava nemmeno e tornava in cucina, a sbucciare i fagioli, e quelle poche parole liquidavano un dialogo che era monologo già dalle prime battute.
Lo stadio pupale si protraeva, era una lunga gestazione che proteggeva e non dava scampo. A Catia spesso mancava l’aria, si muoveva a stento, alcune volte le sembrava di morire sotto l’effetto di una paralisi. Quel bozzolo non aveva la sottigliezza della seta; era di taffetà.
Al terzo superiore, i compagni di classe cominciarono a sentire la puzza. ‹‹Catia lavati, cazzo!››. Una volta durante la ricreazione le tirarono una secchiata d’acqua. ‹‹Così puzzi di meno››. A Catia le risa rimbombavano nella testa, ovattate e lontane; non provò nemmeno ad asciugarsi, masticava i bocconi di un panino al prosciutto con gli occhi bassi sul cellulare. Il bidello si agitava col mocio in mano: ‹‹Che disgraziati, povera mischina!››.
E Catia diventò la mischina della terza B, mentre il suo involucro cominciò piano piano a decomporsi, emanando un tanfo di cose rimorte.
‹‹Prima o dopo si esce fuori, tutte hanno da diventare farfalla››.
La madre picchettava la sigaretta sul posacenere, una nuvola si alzava verso il lampadario della cucina. ‹‹Alle femmine ci basta poco, per farsi talìare››. Buttava il fumo verso l’alto e l’odore di tabacco impregnava i capelli, le tende, la poltrona.
‹‹Un filo di trucco, Catia. Annacati un poco quando cammini, usa la pinzetta ogni tanto e levati quei baffi e poi, quel pagliaro che hai in testa…io da signorina ci passavo i pomeriggi davanti allo specchio››.
Catia fissava lo schermo del televisore sintonizzato su un quiz del pomeriggio, mentre la sigaretta si accartocciava dentro al posacenere: ‹‹Ma poi oggi, su quel minchia di cellulare, ci stanno un sacco…Come li chiamate? Tutorial? Ecco cercati i tutorial per passare da verme a farfalla››.
La storia della farfalla era la favola raccontata alla bambina chiatta e pacchiona che ormai s’era fatta signorina, lievitando fino a esplodere. Né bruco, né farfalla; Catia era rimasta crisalide in una metamorfosi incompiuta. Sospesa a mezz’aria, dentro al suo rifugio di secrezioni. A soffocare, in mezzo ai suoi stessi umori. Non parlava, non si muoveva. Dormiva e la voce di sua madre era attutita da strati di trame pesanti come terra. Il materasso cominciò a ricalcare la forma del suo corpo e Catia si alzava soltanto per compiere gli atti quotidiani, assegnati come rituali imprescindibili.
Dentro la sua stanza, dove aveva smesso di crescere, si dava piacere e dolore. Là dentro era al sicuro, c’era quello di cui aveva bisogno. Uno schermo continuava a illuminarle il viso, gli auricolari stavano sempre ficcati dentro le orecchie e tutt’attorno c’era il pulviscolo che fluttuava a mezz’aria, lungo la scia di luce che passava dalle persiane. Chiusa nel suo rifugio, Catia perdeva peli, la pelle mutava, esalava odori. Un corpo in trasformazione, che fermentava e si muoveva appena, e che usciva fuori dal rifugio solo alle prime luci dell’alba, quando per strada passavano gli spazzini o i pendolari che scendevano alla stazione. Al mattino, Catia si sentiva nuda e libera.
Col freddo che tagliava la faccia o con l’umidità dei mattini d’estate, prese l’abitudine di affacciarsi al balcone che dava su corso Torino. Si sporgeva un poco sulla balaustra, apriva le braccia a croce e le muoveva piano, su e giù. Come ali di farfalla.
Copertina originale di Marina Mongiovì
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Marina Mongiovì (1982) di origine etnea, da tempo vive a Palermo.
Ha pubblicato diversi racconti su riviste letterarie come Pastrengo, Blam, Morel voci dall’isola e Spazinclusi.
Nel febbraio 2023 pubblica per l’editore Kalòs, un libro di racconti dal titolo “Sciara”. Finalista alla IX edizione del premio letterario città di Lugnano in Teverina; al premio internazionale Etnabook e al premio letterario città di Erice.
Accanto alla scrittura, coltiva la passione per la fotografia. Nel 2021 Letizia Battaglia sceglie un suo scatto per una mostra collettiva al Wegil di Roma. Successivamente altre fotografie verranno esposte in mostre collettive sempre a Roma e nel Centro Internazionale di Fotografia di Palermo, all’epoca diretto proprio da Letizia Battaglia.
Nel 2022 ha pubblicato un racconto fotografico dell’opera di Giovanni Verga, “Storie del Castello di Trezza”, edito da Rossomalpelo Edizioni, da cui è nata una mostra personale alla rocca normanna di Aci Castello.
Prima di oggi non conoscevo Marina Mongiovi e non conoscevo voi. Adesso mi piacete entrambi.
Grazie Francesca ❤️