Novemila anni prima della nascita di Cristo, centinaia di migliaia di persone lasciarono i loro villaggi e si raccolsero a Babilonia. Pastori, contadini, e pescatori, illusi dalle promesse di una nuova economia fondata sul baratto, affollarono la prima metropoli della storia. Una città che, appena sorta, era già morente. I suoi vicoli, dopo il tramonto, brulicavano di prostitute e rapinatori, e le merci più richieste erano alcolici e armi di ossidiana.
Senza la ruota né la scrittura, privi di qualunque forma di organizzazione sociale, gli abitanti di Babilonia non potevano sapere che il Mar Nero, da lì a pochi anni, incalzato da piogge incessanti e dai frequenti terremoti, avrebbe sommerso la loro civiltà cancellandone per sempre il ricordo. Non lo sapevano, ma forse, anche se lo avessero saputo, nulla sarebbe cambiato.
Quel pezzo di montone lo mangi? Perché se lo lasci lì, beh, allora lo prendo io. Tua moglie cucina davvero bene, si vede che siete appena arrivati in città. Venite dalla zona di Uruk, vero? Anche mia madre era nata da quelle parti. Ho riconosciuto il modo in cui fate rosolare il grasso assieme alla curcuma e al porro. Complimenti davvero. Birra ne avete ancora?
Come dicevo, io sono una persona per bene, e cerco sempre di aiutare la gente come voi; perché da queste parti è davvero facile finire preda di qualche imbroglione. Ricordatevi bene: la prima regola è non superare mai il Lete, soprattutto di notte. Al di là di quel fiumiciattolo putrido c’è Pandemonium, il quartiere peggiore di Babilonia. Laggiù, a contadini come voi, può succedere qualsiasi cosa. Ma se vi doveste perdere, e qualcuno provasse a rapinarvi, o importunarvi, o peggio, allora fate il mio nome, Marduk il leggendario. Anche Marduk e basta va bene. Ma mi raccomando, dovete aggiungere “amico di Astarte”, quello è importante. Ma come “chi è?”. Stiamo scherzando? Portami un’altra birra, perché qui bisogna davvero cominciare dalle basi.
Per farti capire che tipo è Astarte ti racconto questa. Stavo mangiando a casa sua quando sono spuntati due uomini scuri e bassi. Avevano la pelle di un colore opaco, sembrava che si fossero rotolati nella terra bruciata, occhi impenetrabili, simili a sassi neri del deserto, e sopracciglia folte. Parlavano una lingua assurda, ma Astarte li capiva lo stesso. Cosa volevano questi due? Una faccenda semplice: venivano da lontano, da oriente, e dovevano portare a Babilonia un carico di zafferano. Molte e molte casse, una cosa mai vista, e avevano paura che qualcuno potesse aggredirli per rubare tutto. Così erano venuti da Astarte in cerca di aiuto. Avrebbero barattato il favore con due sacchetti di zafferano, e uno glielo diedero subito. Guardavo quella busta di cuoio sul tavolo e vi assicuro che c’era molto più zafferano lì, di quanto ne avessi visto nel resto della mia vita messo insieme. Uno spettacolo incredibile, credetemi, e Astarte come reagì? Dicendo solo: “Però facciamo a modo mio”. Quei due annuirono, lui spostò lo zafferano col dorso della mano, e riprese a bere.
Il piano di Astarte era semplice: entrare in città dall’Eufrate e scaricare le casse sotto al ponte della città vecchia, lontano da sguardi indiscreti. Poi, prima dell’alba, avrebbero raggiunto l’abitazione del mercante dove si sarebbe concluso il baratto. Io avevo un compito molto importante: dovevo restare appostato sulla riva opposta, accanto ai pescatori di Nippur, e se qualcosa fosse andato storto avrei dovuto fare rumore, creare problemi, incendiare barche; qualunque cosa per distrarre l’attenzione dallo zafferano, far guadagnare tempo ad Astarte, e dargli il modo di inventarsi qualcosa.
Era ancora buio quando spuntò la chiatta all’orizzonte. Si muoveva silenziosa sulle acque docili dell’Eufrate, Astarte la spingeva con un remo, e i due uomini dell’est sedevano a prua accanto alle casse. Ma appena arrivati nei pressi del ponte è iniziata, come dal nulla, una tempesta di frecce, lance, bolidi e giavellotti. Credete a me, oscuravano la luce della luna. I due uomini dalla pelle nera furono subito trafitti mentre Astarte, non so come, riuscì a buttarsi in acqua e a trascinare con sé le casse, tutte legate a una fune intrecciata. Io, nascosto fra le barche in secca, non sapevo che fare. Spuntavano ovunque soldati armati; intanto, dal ponte, continuava la pioggia di frecce e giavellotti; mentre dalle rive, uomini con lunghi bastoni acuminati, infilzavano il fiume come si punzecchia la coscia del capretto prima di cuocerla. E come se non bastasse altri soldati ancora aspettavano nel limeccio con pugnali in selce; se Astarte avesse cercato riparo lontano dall’acqua, avrebbero finito il lavoro.
Sapete chi erano quegli uomini? Immaginavo. Guardate fuori dalla finestra. Lo vedete quel palazzo laggiù, ai bordi della città vecchia? Quello è l’Empureo. La costruzione più possente e impenetrabile di Babilonia. L’ha costruita il padre di Astarte, lui sì che era una brava persona, eravamo grandi amici io e lui; magari non grandissimi amici; l’ho incontrato un paio di volte, da lontano, ma comunque era un uomo eccezionale. Nel palazzo ora abitano i fratelli di Astarte, gente da cui è meglio stare alla larga. Quella notte, giù al fiume, vidi uno di loro, Mikail. Stava in piedi sulla riva e impugnava la sua spada di rame. Sì, avete capito bene, una spada intera, tutta di rame. Lui e i suoi uomini aspettavano Astarte, attesero fino all’alba, ma del suo corpo nessuna traccia. Scusate, abbiamo qualcosa per finire il pasto? Un dolcetto al miele sarebbe perfetto.
Voi dovete capire che Astarte non è una persona come le altre. Un giorno l’ho trovato al limite del deserto meridionale, accucciato su una roccia, che fissava una colonia di formiche rosse. Gli ho chiesto cosa facesse, e lui mi ha guardato come se fossi pazzo. “Si imparano un sacco di cose dagli animali” ha detto, ed è tornato a farsi gli affari suoi. Che raccontata così sembra che il pazzo fosse lui, invece vi posso assicurare che quel ragazzo conosce cose di cui noi ignoriamo perfino l’esistenza. Ad esempio sa come costruire una cesta di vimini, spalmarla di pece bituminosa delle terre dell’ovest, farla affondare nel fiume; per poi nuotare fin laggiù e infilare la testa nella cesta, e respirare anche sott’acqua. E così ha fatto quella volta. Ha atteso l’alba al sicuro, sul fondo dell’Eufrate, ed è emerso solo quando gli uomini di Mikail se n’erano già andati. Avreste dovuto vedere la faccia dei pescatori quando Astarte è comparso dal nulla, in mezzo al fiume, e poi ha nuotato sulla riva tirandosi dietro il carico di zafferano. Si è accasciato sulla sabbia, ha riempito i polmoni a grandi boccate, e mi ha strizzato un occhio. Poi ha indicato le casse. Non capivo.
“Ne manca una” ha detto.
Io le ho guardate e continuavo a non capire. Lui mi ha mostrato la mano aperta e si è toccato le dita una dopo l’altra.
“Prima erano così”, ha detto.
Poi ha chiuso il pollice.
“Ora sono così”.
Io cercavo ancora di capirci qualcosa, quando un pescatore si è avvicinato.
“Cercate una cassa come quella?” ha chiesto.
Astarte ha annuito.
“Si era arenata sulla spiaggia là di fronte, ma è arrivato un gruppo di uomini armati e l’ha portata via”.
E a quel punto ho visto Astarte più teso del solito.
Io invece ero contento come non lo ero mai stato. Avevamo casse e casse di zafferano, un tesoro, e potevamo barattarlo con qualunque cosa in città: barche, capi di bestiame, palazzi nella città vecchia, prostitute in quantità, e alcol fino alla fine dei nostri giorni. Invece Astarte mi guardò in malo modo e mi vietò di aprire quelle casse, “qualunque cosa fosse successa”, proprio così disse; e quando Astarte parla, vi assicuro che è meglio ascoltarlo. Quindi, anziché festeggiare quella improvvisa fortuna, mi obbligò a restare due notti intere davanti all’Empureo, sdraiato per terra e vestito come uno straccione, in attesa non sapevo neanche io di cosa. Finché vidi uscire Mikail, quello con la spada di rame; ma anziché coi soliti sgherri che si porta appresso di solito, era con Jibril, un altro dei fratelli. Il mio compito era semplice, dovevo tirare un filo di lino che avevo legato attorno al polso, così Astarte, che era nascosto dove non lo potevano vedere, avrebbe saputo che era successo qualcosa di anomalo. E allora tirai il filo e lui si mise a seguire quei due, e sapete cosa scoprì? Me lo raccontò lui stesso la mattina dopo. Mikail e Jibril avevano girato tutta notte per la città. Avevano raggiunto Eridu, il quartiere dei pastori; si fermavano davanti a una porta, discutevano, a volte segnavano lo stipite con un pennello intriso nel sangue denso di agnello, altre volte se ne andavano e basta. Poi erano venuti a fare la stessa cosa qui, a Dite, davanti alle case di alcuni contadini, e poi dai pescatori di Nippur, e anche da un paio di mercanti nella città vecchia. A Pandemonium si erano fermati solo davanti alla casa di Astarte, mentre a Ubaid, il quartiere dei ricchi, nemmeno ci erano passati. Poi erano tornati a palazzo.
Eravamo a casa di Astarte, stavamo riflettendo su cosa volesse dire tutto questo, quando un gruppo di uomini armati fece irruzione. Era gente dell’est, veniva dallo stesso paese lontano di quelli dello zafferano, e avevano tutti lame di ossidiana. Ora, dovete sapere che l’ossidiana è sempre tagliente, basta spaccarla ed è fatta, per questo in tanti la preferiscono. Ma la selce, se lavorata bene, è molto più pericolosa, perché è resistente. Comunque quelli, senza dire niente, si sono scagliati su Astarte, e l’hanno circondato. Lui ha preso dalle tasche due ciottoli duri dell’estuario, ne teneva uno per mano, e quella gente intanto lanciava fendenti, ma Astarte parava coi ciottoli del basso Eufrate, e spaccava l’ossidiana come nulla fosse, poi li colpiva sulle tempie, uno dopo l’altro, spaccava e colpiva, e in breve furono tutti sul pavimento. Io presi un coltello di selce dalla cucina – sono bravo con le lame, quando mi ci metto – ma Astarte mi fermò.
Quando quella gente si riprese, lui parlò nella loro lingua, parlò a lungo, gli uomini si massaggiavano la testa e si guardavano l’un l’altro, finché annuirono e si alzarono. Astarte si girò verso di me e disse solo: “Andiamo”. Io lo guardai e allargai le braccia, come a dirgli che non stavo capendo nulla, ma lui mi strizzò l’occhio e uscì. Vi posso assicurare che quando fa così lo odio davvero. Se fosse possibile, ma chiedo con gentilezza, prenderei volentieri qualcosa per digerire, non perché il pranzo fosse pesante, anzi, tutto molto buono, ma voi di Uruk fate quel buon fermentato di datteri con le erbe e i legni aromatici, vero? Mia madre ci metteva anche un po’ di cumino. Mmh, buonissimo, sembra il suo. No no, lasciate pure qua la sacca.
Dicevo, Astarte a volte mi fa proprio arrabbiare. E quella volta non fu da meno. Portò gli uomini scuri d’oriente fino alla grotta dove avevamo nascosto le casse di zafferano e quelli, senza bisogno di ordini, le portarono fuori, le ammassarono, e gli diedero fuoco. Astarte mi dovette trattenere per le vesti: quel tesoro, distrutto senza motivo! Mi mancavano le forze. Piangevo in ginocchio mentre lui mi guardava e rideva; non credo di averlo mai odiato tanto. Dalle casse, mentre bruciavano, usciva un rumore strano e inquietante, come un sibilo o uno stridìo.
“Se cammini per un’intera stagione verso il levante” disse allora Astarte, “tenendo il mar Nero a sinistra e il mar Rosa a destra, supererai deserti e montagne, e alla fine arriverai in un luogo verdeggiante, dove vivono questi uomini scuri. Laggiù gli animali sono diversi dai nostri. I buoi sono grigi come la luna, e alti quanto tre uomini, e hanno un naso lungo che usano come un braccio. I leoni hanno segni come di artigli sul dorso e sul ventre, occhi di pietra, e si nutrono di uomini. E ci sono tanti tipi di serpenti diversi che non basta una vita intera per conoscerli tutti. Ma il peggiore è la vipera dell’est. Quando morde, la maggior parte delle persone muore subito, e chi muore è fortunato, perché chi invece sopravvive va incontro a un destino peggiore della morte. Gli uomini perdono la barba e i capelli, alle donne spariscono seni e fianchi. Si diventa sterili e poi pazzi”.
Io lo guardavo pensando che scherzasse, che volesse solo farmi paura. Invece era serio, e quando indicò le casse che bruciavano mi accorsi che gli strani versi erano cessati. Poi guardò gli uomini scuri e parlò ancora nella loro lingua. Quelli abbassarono il capo e annuirono.
“Cosa gli hai detto stavolta?” chiesi.
“Che hanno qualcosa che mi interessa. E che la voglio”.
Ero sempre più confuso dallo strano comportamento di Astarte, ma io lo conosco bene, so che bisogna fidarsi. Mi invitò, dopo due albe, a raggiungerlo alla città vecchia. Ci sistemammo in un angolo, sempre travestiti da accattoni. Io non capivo, ma lui mi fece segno di aspettare e indicò un’abitazione alta e ben fatta. “Lì” disse Astarte, “abita uno dei mercanti più influenti di Babilonia. I suoi colleghi lo ascoltano, e ha rovinato più di una volta i piani dei miei fratelli”.
Poco dopo l’alba una donna uscì gridando da quella casa, correva e gridava, diceva che suo marito stava male e che aveva perso i capelli, e la barba, e che parlava come un pazzo. La gente si affacciava dalle capanne e dai palazzi, scendeva in strada, si ammassava. Poco dopo arrivarono Mikail e Jibril, con un sorriso soddisfatto sul volto. Si piazzarono davanti alla porta, bussando coi piedi. Mi accorsi che sullo stipite si notava ancora il sangue di agnello rappreso. Un uomo anziano, vestito di pregiata porpora, ma senza capelli né barba, uscì barcollando. Stava chino e lo sguardo era vuoto. Mikail lo afferrò per un braccio come per mostrarlo alla folla.
“Questo è ciò che succede a chi si mette contro di noi” gridò Jibril alla gente radunata. “Le cose cambieranno a Babilonia, dovete sottomettervi”.
Fu allora che Astarte si alzò.
“Malachia”, disse, “prendimi quella cosa”.
Lo sguardo del vecchio tornò lucido all’improvviso. Con uno scatto liberò il braccio dalla stretta di Mikail e si raddrizzò. Guardò per qualche istante quei due con disprezzo, fisso nelle pupille, poi rientrò in casa. Quando ricomparve teneva una gabbia di legno nella mano. La alzò, sorridendo, verso i fratelli di Astarte.
“Ne è valsa la pena” disse, “mi sono rasato barba e capelli, ma la vostra faccia mi sta ripagando del sacrificio”.
Nella gabbia c’era un topo rossiccio e magro, senza coda, che stava mordendo di gusto i resti di un serpente.
“Ecco la vostra vipera” disse Astarte, “ha fatto la fine del montone nei pranzi di matrimonio”.
I due si guardarono.
“Anche le altre vipere dell’est” continuò Astarte, “quelle che avete piazzato nelle case in giro per la città, anche quelle sono diventate cibo per i miei piccoli amici”.
Il topastro rosso intanto continuava a mangiare di gusto e squittiva. La vipera era ormai scarnificata, solo qualche osso più resistente giaceva sul fondo della gabbietta. Astarte spezzò il legno delle piccole sbarre e l’animaletto corse nella casa di Malachia.
“Come hai fatto?” chiese Mikail fra i denti. Intanto aveva impugnato la spada di rame.
Astarte gli sorrise, poi guardò Jibril, che non era meno irritato del fratello, ma lo nascondeva in modo migliore.
“Non sei mai stato molto sveglio” disse Astarte a Mikail. “Guarda tuo fratello. Lui ha capito”.
Jibril, chiamato in causa, stringeva col pungo i lembi della veste di lino e teneva le labbra serrate.
“Sapevo del vostro piano fin dall’inizio” disse Astarte, “sapevo che volevate eliminare i vostri avversari uccidendoli, o umiliandoli, con i morsi delle vipere dell’est. Che avevate chiamato quei mercanti dalle terre lontane, per ottenere i serpenti. E così gli ho fatto sapere che ero io la persona giusta, per far entrare il carico in città. Sapevo che mi avrebbero ingaggiato, senza dirmi il vero motivo. E sapevo dell’imboscata sotto il ponte, perché non avevate nessuna intenzione di barattare con loro, volevate solo rubare ciò che vi serviva. Così mi ero organizzato, per nascondermi sul fondo del fiume, ho finto di aver perso una cassa di vipere, solo per potervi seguire e così, mentre sceglievate i vostri nemici più pericolosi, mi avete aiutato a capire chi sarebbe diventato mio alleato. In tutte quelle case ho lasciato una mangusta, un animale piccolo e inutile, all’apparenza. Voi vi ritenete simili ai leoni, che ruggiscono di prepotenza e si muovono in branco. Queste manguste invece sono più simili a me, solitarie e invisibili, ma con una dote unica: ciò che più fa paura agli altri animali, e all’uomo, i serpenti velenosi, per loro è un semplice ma gustoso spuntino”.
Quello che accadde dopo fu un vero disastro. Astarte era arrabbiato come forse non lo avevo mai visto in vita mia, e ne diede tante, ma tante ai suoi fratelli, che quei due non si sono fatti vedere in giro fino alla stagione successiva. Ha spezzato la spada di Mikail in tre pezzi, e prima che arrivassero i rinforzi armati dall’Ergileo ho visto che teneva Jibril per la lingua, con due dita, come fanno alcuni cacciatori di lupi selvaggi sulle montagne del settentrione. Poi la strada si è riempita di lame in selce. Gli uomini del palazzo ci avevano circondato. Ho pensato: siamo morti. Invece Astarte ha sorriso e si è infilato due dita fra le labbra. Ne è uscito un sibilo lungo e potente e sui tetti delle case sono spuntati guerrieri scuri dell’est, ovunque, armati di tutto punto.
“Non credo che abbiano gradito il vostro modo di gestire i baratti” ha detto Astarte. “Avete ucciso due dei loro giù al fiume, e ora vogliono una spiegazione”.
E così, mentre dai tetti piovevano sassi e lance, e soldati colpivano altri soldati, e lame di selce cozzavano contro lame di ossidiana, noi ce ne siamo semplicemente andati. Anche quella volta non siamo diventati ricchi, ma con Astarte è sempre così, ormai ci sono abituato. Non è un uomo legato ai beni materiali, come le spezie o le pietre dure, è uno che ama vivere a modo suo. È proprio come me. A proposito, se domani fate il piccione cotto nel brodo del suo grasso, beh, allora passo a trovarvi. Ma mi raccomando, tenete il coriandolo a bagno nel latte tutta notte, è importante. Ci vediamo per pranzo quindi, e no, non serve ringraziare.
Per me è sempre un piacere raccontare qualche storia su Astarte.
Copertina di Francesca Galli
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Michele Frisia è perito balistico. Ha iniziato scrivendo racconti di genere e sceneggiature, poi ha smesso. Alcuni suoi racconti si trovano su Nazione Indiana, Pastrengo, inutile, Carie, Verde, Risme e altre riviste. Il suo primo libro, un saggio romanzato dal titolo “Delitti e castighi”, è uscito nel 2019 per Dino Audino Editore con la prefazione di Giancarlo De Cataldo; il seguito, “Corpi del delitto”, uscirà nell’autunno 2020. Gestisce un blog con aspirazioni interdisciplinari su www.michelefrisia.it, è autore aggiunto di Spazinclusi e redattore di Narrandom.