Novemila anni prima della nascita di Cristo, centinaia di migliaia di persone lasciarono i loro villaggi e si raccolsero a Babilonia. Pastori, contadini e pescatori, illusi dalle promesse di una nuova economia fondata sul baratto, affollarono la prima metropoli della storia; una città che, appena sorta, era già morente. I suoi vicoli, dopo il tramonto, brulicavano di prostitute e rapinatori, e le merci più richieste erano alcolici e armi di ossidiana.
Senza la ruota né la scrittura, privi di qualunque forma di organizzazione sociale, gli abitanti di Babilonia non potevano sapere che il Mar Nero, da lì a pochi anni, incalzato da piogge incessanti e dai frequenti terremoti, avrebbe sommerso la loro civiltà cancellandone per sempre il ricordo. Non lo sapevano ma forse, anche se lo avessero saputo, nulla sarebbe cambiato.
Ho conosciuto Astarte per caso, solo perché siamo vicini di casa. Un tempo ero pescatore, vivevo sulle sponde dell’Eufrate e la vita scorreva facile, come il fiume. Ma sono figlio di contadini, l’acqua non faceva per me, e in poche stagioni ho perso la barca, la casa e la moglie. Non giudicatemi, la colpa non è mia, non del tutto almeno; è che non capisco più questi tempi moderni, con queste assurde novità e i giovani che hanno, chissà perché, sempre troppa fretta. Qualcuno in città potrebbe anche raccontare che sono stato disonesto, e che per quel motivo ho perso tutto, ma non bisogna sempre credere a quello che si sente in giro.
Come la maggior parte dei disperati, ero finito a Pandemonium, il quartiere peggiore di Babilonia. Qui le ragazze agli angoli della strada sono magre e bianche, il cibo puzza di fango e la sera nessuno, ma proprio nessuno, esce di casa senza un pezzo di selce infilato nella cintura.
Era tornata da poco l’afa, quando vennero da me tre uomini delle colline. Li avevo conosciuti al tempo dell’ultimo raccolto, e avevamo concluso un baratto che, sinceramente, mi sembrava di aver gestito nella maniera più onesta e trasparente possibile. Ma quei tre mi stavano illustrando, a modo loro, di avere un’opinione ben diversa. Mi avevano trascinato nel porticato, e mentre due mi tenevano le braccia, il terzo mi flagellava sul costato con una fascina di grosse canne di fiume. Astarte uscì, quasi nudo, dalla sua casa di fango squadrato, e li guardò come se non gli interessasse nulla di ciò che stava accadendo.
Il capo di quegli ignoranti lo riconobbe e si fermò di colpo.
“Scusaci” disse, “non volevamo disturbarti”.
Astarte lo osservava senza parlare.
“Questo è amico tuo?” chiese deferente l’uomo delle colline.
Astarte non rispose, nemmeno si mosse, ma tanto bastò: i tre mi lasciarono e sparirono senza neanche salutare.
“Grazie” dissi.
Astarte mi guardò in silenzio. Poi da casa sua spuntò una prostituta magrissima.
“Avete finito con tutto questo baccano?” sbraitò.
Era vestita soltanto di una striscia in cuoio, un lembo continuo, che le avvolgeva la carne, delle spalle e giù fino al bacino. L’avevo notata spesso all’angolo del vicolo, mentre cercava clienti. Pesava meno di un caprone adulto, robaccia buona solo per i miserabili. A quel tempo non capivo perché Astarte, con tutte le sue possibilità, si comportasse così. Prendete me: nonostante le disgrazie che mi affliggono, appena riesco a raccattare qualche pietra dura, un po’ di rame, oppure una rosa del deserto, allora mi precipito al di là del fiume, dritto in qualche locale della città vecchia. Là posso barattare i miei pochi averi con il tempo di qualche femmina, ragazze abbondanti e rotonde, belle sane, e mi perdo nei loro seni pieni che lambiscono la pancia, in quei fianchi larghi che strabordano dagli sgabelli. Invece ho scoperto che Astarte, nonostante tutte le sue qualità, è attratto dalle ragazze come Tamara – la prostituta di quel giorno – così magre che, già dall’aspetto, si capisce quanto poco siano fertili. Un giorno gliel’ho chiesto.
“Ma cosa ci trovi in quella magra di Tamara?”
E lui, anziché rispondere, mi ha girato la domanda.
“Ma secondo te”, ha detto, “in una donna conta solo la fertilità?”
Ecco, capite quanto Astarte sia stupido, a volte? Una domanda così sciocca, per una risposta così ovvia, non l’avevo sentita mai. Però attenti, non bisogna sottovalutarlo, perché è un tipo davvero particolare. Mi aveva salvato da quei tre della collina, e la notte stessa lo trovai sdraiato a terra, davanti a casa sua, con la schiena nella polvere e lo sguardo verso il cielo.
“Ti ringrazio ancora” gli dissi. “Io sono Marduk, quello che hai levato dai guai”.
Lui, senza alzarsi, mugolò qualche parola e continuò a scrutare la notte.
“Cosa guardi?” chiesi.
Astarte si limitò ad alzare un dito verso le stelle.
A quel tempo non potevo sospettare che lui, da quelle inutili puntine di luce sparse per il cielo, potesse aiutare i contadini a prevedere il ciclo delle piogge. E consigliare i cammellieri sul modo in cui orientarsi nel deserto. E spiegare ai marinai come anticipare l’arrivo dei venti caldi. Ancora oggi, che sono trascorse parecchie stagioni da quei primi incontri, c’è molto di quel ragazzo che mi sfugge. Potrebbe, se solo volesse, diventare una persona importante, superare anche i perfidi commercianti della città vecchia. Quegli infami, baratto dopo baratto, hanno accumulato più ricchezze di quante se ne possano sciupare in una vita intera. Ho visto spesso Astarte con rame e pietre in abbondanza, gli basterebbero per una barca, se volesse, o per una mandria. Invece lui si accontenta di vivere qui, nel quartiere peggiore di Babilonia, con un coccio di birra in mano, un po’ di frutta fermentata, e una donna dalla fertilità dubbia.
Mio padre, da buon contadino, mi ha insegnato a notare tutto e parlare poco – il frumento non ascolta, diceva sempre – e Astarte apprezza la mia bocca cucita. Oggi non è andata diversamente.
Un bambinetto è spuntato davanti a casa mia.
“Mi manda Astarte” ha detto. “Gli servono alcune cose, quindi vedi di aprire bene le orecchie”.
Avrei tirato volentieri un pugno a quel piccolo insolente, ma quando c’è di mezzo Astarte bisogna fare come dice lui. E così quel ragazzino odioso mi ha riferito il messaggio, nei dettagli, e io mi sono messo all’opera.
Jared stava macellando un montone, quando l’ho raggiunto. È bravo con la selce, ma se mi posso permettere state attenti a barattare la carne con lui, perché potrebbe rifilarvi una coscia di cane al posto della spalla di una gazzella e non ve ne accorgereste.
Gli ho chiesto un pezzo di cavallo.
“È finito” ha detto. E nemmeno mi guardava.
“Mi serve un pezzo di cavallo” ho insistito. “Magari la parte bassa della schiena…”
Jared si è alzato e ha aggirato il bancone in legno. Impugnava la selce, quella lunga per le carcasse.
“È per Astarte” mi è uscito con un filo di voce.
Lui si è fermato.
“Marduk, ma dillo subito!”
La scorsa estate Jared ha avuto un problema con le greggi. Gli sembrava che le capre, la mattina, fossero meno che alla sera. Lui sospettava del nipote, il figlio della sorella, che è notoriamente una testa calda; ma si sa, non si possono accusare i parenti a cuor leggero. Però Astarte gli ha spiegato come fare.
“La sera raccogli una manciata di ciottoli. Mentre cammini attraverso il gregge, metti un sassolino nel sacchetto per ogni capra che incontri. La mattina dopo fai il contrario. Per ogni capra che trovi, prendi un ciottolo e lo togli dal sacchetto. Se avanzano sassolini stai attento, perché tuo nipote è un ladro”.
Astarte conosce una quantità impressionante di trucchi come questo. All’inizio non sapevo che glieli avesse insegnati il patrigno, uno dei fondatori di Babilonia, se capite cosa vuol dire questa cosa. Purtroppo è morto troppo presto, altrimenti oggi le cose andrebbero in modo diverso. Comunque Jared è un uomo riconoscente. Quando ha realizzato che la carne era per Astarte, è sparito in una capanna col tetto in paglia ed è tornato con uno dei pezzi di cavallo migliori che abbia mai visto.
Ottenuta la carne mi sono spinto verso il limite della città, dove la sabbia contende al fango un limite impreciso. Lot dormicchiava nella locanda, coi capelli bianchi sparsi sul tavolo.
“Lot” ho provato a dire, “Lot!”
Nessuna reazione. Allora l’ho scosso.
“Vattene” ha risposto.
“Lot, sono Marduk”.
“Appunto”.
“Mi serve da bere. È per Astarte”.
Il vecchio allora si è alzato di colpo, come punto da uno di quei serpenti di mare che riescono a far bruciare i gomiti col loro fuoco senza fiamme.
Astarte ha questa mania di aiutare tutti e io proprio non lo capisco; certo, qualcuno poi gli ricambia il favore, ma a che prezzo? Lot, ad esempio, aveva problemi grossi con gente che conta. Quelli scendevano a Pandemonium e volevano bere senza dare nulla in baratto. Quando Lot si è lamentato, quei maledetti gli hanno incendiato la locanda. Lui l’ha rimessa in piedi, ma quelli sono tornati, volevano continuare come prima, sembrava una questione senza uscita. Finché è intervenuto Astarte. Lui ci sa fare col laccio, e con la selce, e anche a mani nude, e da allora nessuno beve più alla locanda senza lasciare qualcosa in cambio.
“Fermentato di datteri” ha detto Lot porgendomi una sacca in cuoio. “È il suo preferito, quindi vedi di non toccarlo”.
E così mi sono diretto verso la città vecchia. Il quartiere di Pandemonium era quasi vuoto. Le sue abitazioni di fango, tozze e rovinate, erano perfino belle sotto la luce storta del tramonto. E quando ho attraversato il ponte sull’Eufrate, il poco sole rimasto lanciava una luce calda sulla città vecchia. I ricchi non li capisco. Adorano quelle grosse palazzine in terra e paglia, che a ogni terremoto cadono una sull’altra, sotterrano tutta quella gente, e loro subito a rimetterle in piedi. Sembra proprio che non vogliano stare in basso come noi, noi poveracci di periferia, ma che gli piaccia tanto guardare lontano. Cosa vedano poi dalle loro finestre, non lo so e non mi interessa.
Appena entrato nella città vecchia ho capito subito che era successo qualcosa. C’erano gruppi di gente armata ovunque, ho incontrato perfino uno dei vecchi amici di Astarte, di quelli che contano, quelli che stanno nel palazzo. Aveva una spada costruita interamente in rame, e un vestito tutto di porpora. Vi rendete conto? Quella è gente che a Babilonia può fare quello che vuole, e andrà sempre peggio. Si stanno organizzando, senza che nessuno si possa opporre, e finiranno per comandare su tutti, decideranno ciò che si può e ciò che non si può fare.
Comunque nessuno mi ha considerato, come sempre, e così ho raggiunto Astarte. L’ho trovato in un vicolo dietro l’Empureo, dove mi aveva detto il ragazzino. Era sdraiato in mezzo ai rifiuti, coperto di sangue, sembrava svenuto ma la mano stringeva ancora un femore di bue. Astarte preferisce usare le ossa, piuttosto che i pezzi di selce o le lame di ossidiana, dice che si trova meglio, vallo a capire. Comunque, quando mi sono avvicinato, lui ha aperto gli occhi di colpo, e io mi sono spaventato. Avrebbe potuto spaccarmi il cranio con quell’osso, ma per fortuna mi ha riconosciuto e ha sorriso, come fa lui quando incontra un amico. Questa cosa mi riempie sempre di soddisfazione.
“Prima la sacca” ha detto, così gli ho passato il fermentato.
Ha bevuto a lungo, gli piace bere, si sa, e poi ha chiesto la carne. L’ha divorata in pochi morsi e solo alla fine mi ha chiesto l’altra cosa. Di quella non vi ho detto nulla perché, sinceramente, non saprei spiegare come faccia Astarte a guarire la gente con le piante. Fatico a crederci anch’io, nonostante l’abbia visto di persona. Lui prende quelle erbacce inutili che crescono ai bordi delle strade e potrei stare qui tutta la sera a raccontarvi cosa riesce a fare. Insomma, per farla breve, quella volta Astarte ha lavorato un po’ di foglie con le mani e se le è sparse sopra alle ferite. Mugolava dal dolore, avreste dovuto sentirlo, ma poco dopo è saltato in piedi e sembrava che si fosse appena svegliato dopo una nottata tranquilla.
“È pieno di gente armata” ho detto. “Cos’hai combinato?”
Lui mi ha guardato, con quel solito sorriso storto che vuol dire tutto e non vuol dire niente. Io mi sono girato a guardare l’Empureo. Assurdo. Un palazzo di pietra in una città sterminata di casette in fango. E ci avevano raccontato che sarebbe stato utile per tutti quanti.
“C’è di mezzo il tuo fratellastro?” gli ho chiesto indicando il palazzo. “Quello ha un esercito intero che gli obbedisce, non come te che hai solo qualche amico volenteroso. La vuoi smettere di rovinargli i piani?”
Astarte continuava a sorridere, e così ho capito che mi avrebbe raccontato tutto, certo, ma solo a tempo debito, perché la faccenda non era ancora risolta.
È stato allora che dal fondo del vicolo sono spuntati quegli uomini. Astarte li ha guardati e il suo sorriso si è allargato ancor di più. Soppesava l’osso di bue, sorrideva, e andava verso di loro senza fretta. Sono arrivati altri uomini, qualcuno con la selce, altri con l’ossidiana, uno di loro impugnava due grossi sassi legati fra loro. E Astarte continuava a camminare col suo osso in mano. Poi tutti quegli uomini si sono scagliati contro di lui e allora… e allora niente. Quello che è successo dopo è un’altra storia e adesso devo proprio andare, non posso farlo aspettare. Astarte mi ha dato un compito, stasera, aspetta giù al porto vecchio e si sa, quando lui chiede è meglio accontentarlo. Ma la prossima volta, prometto, la prossima volta vi racconto tutto. Potete fidarvi, le promesse di Marduk sono una garanzia.
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Michele Frisia è perito balistico. Alcuni suoi racconti si trovano su Nazione Indiana, inutile, Verde, Risme e altre riviste. Il suo primo libro, un saggioromanzato dal titolo “Delitti e castighi”, è uscito nel 2019 per Dino Audino Editore, con la prefazione di Giancarlo De Cataldo. Il seguito uscirà nel 2020 col titolo “Corpi del delitto”. Gestisce un blog con aspirazioni interdisciplinari su www.michelefrisia.it ed è redattore di Narrandom.