A Rosario Todaro non dovevi mettere fretta. Ogni volta che chiedevi qualcosa, anche la più elementare, lui rispondeva: cinque minuti.
Anche adesso, dinnanzi alla signora che lo chiama, chiede: «Cinque minuti. Anzi, per stavolta, possiamo fare dieci?» Lei sorride e annuisce. Poi chiama la moglie: «Carmela!»
La consorte sente il marito belare e rimane un attimo perplessa, comunque, decide di non rispondere per finire di rassettare in cucina.
Visto il poco tempo a disposizione, Rosario rinuncia alla inveterata abitudine di fumarsi una sigaretta prima di annotare e passa direttamente a scrivere sul quadernetto. Inizia elencando gli spicchi salienti della sua vita:
- la fuga burrascosa in nave da Buenos Aires: un viaggio interminabile, durante il quale, il nonno gli insegnò a suonare il mandolino. Rammenta ancora di come si sentisse importante.
- La gioventù a Catania fatta di lavoro e guadagno, fino a quando suo padre perdeva al gioco e arrivavano la miseria e gli affanni di sua madre.
- La campagna d’Africa con le giovani negrette licenziose dalla carne tenace e dall’odore di sudore al cumino. Gentili e seducenti gli offrivano zighini strabordanti su enormi dischi di pane injera: li trovava spugnosi e nauseanti. Mangiava per fame, pensando alle croccanti scacciate che preparava sua madre.
- La volta in cui riuscì a scansare un agguato nemico solo perché aveva temporeggiato, per cinque minuti, sul cesso dell’accampamento.
- Nuccia: l’unica che lo aveva fatto stare bene, anche se il destino si era messo contro.
Con voce affannata grida di nuovo: «CARMELA!», poi ricomincia a scrivere:
Le delusioni.
La più grande: Rosalba. Forte fu la gioia di stringerla tra le braccia quando era una pupetta con quegli occhi verdi sempre curiosi. Come la disprezzai quando truccata e pettoruta, mi comunicò che lasciava giurisprudenza. Aveva vinto il concorso nella pubblica amministrazione e l’avevano assegnata a un ufficio, in un paesino: a mille chilometri di distanza. L’affetto morì definitivamente quando fu così sprovveduta da rimanere incinta di uno spaccone del loco. Non ci potei credere. Da studentessa pareva pigliare a morsi la vita. La lingua così affilata da avere sempre l’ultima parola.
Adesso, da quello che ho capito, è finita tra le mani di uno che la zittisce a suon di sberle.
Sono deluso da Carmela: moglie astiosa e con la testa malata. Mai stata una donna amorosa.
Avrei voluto essere più affettuoso con gli altri figli. Avrei voluto…
Prende il fazzoletto, lo passa dalla fronte alle guance scavate. Gira la testa per vedere se arriva la moglie. Scorge, sul canterano, la cornice d’argento mesta, ossidata dal tempo. Mostra la foto del matrimonio, un ritratto in bianco e nero dai contrasti ancora accesi. Erano giovani: Carmela sembrava una bambina che passava a comunione, lui asciutto, capelli neri, allisciati con la brillantina, sguardo deciso, baffetti a matita. Fino a un paio di mesi fa, nella sua testa, si vedeva ancora così.
Ansima e urla: «Carmela, mi ni staiu iennu! Unni cazzu si ficcata?» – L’alito, dolciastro e acido, che fuoriesce dalla bocca, impastata di candido mughetto, lo nausea.
Finalmente sente ciabattare i piedi della donna. Chiude il quadernetto e lo lascia cadere dietro la spalliera del letto. Ha l’impressione di essersi pisciato addosso e si vergogna.
«Che c’è? Che ti senti?»
«Ti saluto. A morti mi è venuta a pigliare. Mi acconsentì dieci minuti, ma passarono.»
A Carmela le sembra che il marito sia disorientato, cosa già capitata nelle ultime settimane, e lo sfotte un pochino: «E come mai non i soliti cinque?»
Rosario non risponde. È rimasto solo l’involucro, deteriorato dalla malattia.
Carmela lo scuote, niente. Attonita lo chiama: «Saruzzo. Finiscila di scherzare.»
Scruta il volto contratto, pare di cera. Posa gli occhi sulla foto del matrimonio, prende la cornice e strascica i piedi fino al ripostiglio in cerca del Sidol. Con rabbia e uno straccio ridona luce a quell’argento. Poi la riporta al suo posto. Riguarda il morto, adesso ha un’espressione serena: «Tu stai beato e a mia, mi lasci nei casini. Bravo!»
La coscienza di Rosario ancora attaccata al corpo ha un moto di stizza: “Non l’hai pulita per anni e ora ti è preso lo sghiribizzo. Credi che basta così poco per essere una moglie amorosa? Ci fosse stata Nuccia al tuo posto.”
La vedova telefona con voce querula: «Angila?… A mamma sono… È successa una cosa bruttissima… U’ papà mossi! Vieni subito. Mi sento troppo male… Sì, Tinuccio e Rosalba avvertili tu. Io non ce la posso fare.»
Nel giro di mezzora arrivano Angela e Tino, i due figli che abitano in zona. Rosalba, la maggiore, arriverà dopo aver affrontato ore di viaggio in macchina.
Carmela racconta, piange, si lamenta. I figli l’abbracciano e a turno ripetono:
«Coraggio mamma.»
«Coraggio. Si sapeva qual era il suo destino.»
L’anima di Rosario osserva la famiglia riunita, vedere i figli piangere e ricordare, gli acuisce il rimorso di non averli amati abbastanza, di non aver gioito dei loro successi. Non riesce a staccarsi, anzi si sente precipitare fin sotto il divano dove trova un soffice materasso di lanicci di polvere, cenere e cicche di sigarette. Pensa con rammarico a Carmela vecchia e depressa, da anni incapace di pulire la casa in modo sufficiente, la cui attività principale, oltre che lamentarsi, è stata quella di mettersi bigodini e becchi d’oca sulle ciocche più in vista, nell’illusione di avere una testa più voluminosa.
Dopo quasi un’ora di ricordi, Angela si soffia il naso e ritorna a essere la figlia risoluta: «Mamma, adesso non c’è tempo: c’è da sistemarlo, sentire il dottore, avvertire i parenti. Se non ti senti ci pensiamo noi.»
«Hai ragione. Io mi occupo di sistemarlo, ci sono abituata a fare tutto da sola. Voi due vi occupate di sentire il dottore e le pompe funebri. Muoviamoci.» dice la madre. Mentre i figli escono, lei si alza per andare a preparare bacinella, acqua e spugna.
Spostare le parti di quel corpo appena tiepido senza sentirne i lamenti la impressiona. Attenta a non bagnare le lenzuola lo lava a pezzi in modo sbrigativo. L’attrito sintetico della spugna strofinata sulla pelle secca e pelosa le provoca un certo ribrezzo. Lo veste con il completo blu comprato una quindicina d’anni prima per il matrimonio di Tino: con quell’abito, anche se un po’ ampio, fa la sua figura: la malattia, nell’ultimo anno l’aveva prosciugato. Si rende conto del disordine nella stanza e piano comincia a rimettere a posto: infratta le pantofole sotto il letto, la camicia da notte e la vestaglia nell’armadio. Prova a trascinare la sedia pesante ricolma di indumenti usati a mezzo, ma alcune camicette scivolano a terra. Sente rientrare la figlia: «Angila, vieni qui, sbrigati.» La donna arriva veloce, si avvilisce nel vedere la madre di spalle mentre annaspa per rimettere i panni caduti sulla sedia.
Angela e Carmela rassettano. Dopo venti minuti, sentono il sospiro pachidermico di Tino. Lo trovano seduto, con gli occhi chiusi e le mani abbandonate sui braccioli della sedia larga quasi come il suo addome aggettante, al cui apice il cratere ombelicale è tenuto a stento dal bottone della camicia troppo aderente. Ha un soprassalto quando sente:
«Non so come si farà a sbaraccare tutta quella roba inutile accumulata da papà e poi ci sarà da cambiare l’intestazione alle bollette. Poi bisogna organizzare per venire a controllare la mamma che combina.»
«Ma che ti pare il momento?» sbuffa Tino.
«Per te non è mai il momento! – incalza Angela – Tanto, se c’è bisogno, tocca a me che sono la figlia femmina più vicina, che non ha nessuno da badare. Tu e tua sorella, prima ve ne lavate le mani, poi mi tempestate di telefonate. In particolare, quella che abita lontano, che ha sempre da criticare, ma il culo non lo muove. Lo dicevo che papà ultimamente non mi piaceva: era sempre affaticato, pallido. E poi aveva la pressione che ballava, ma tu rispondevi che il professore all’ultima visita aveva detto: tutto a posto.»
«Ma che mi vuoi dare la colpa a me? Se l’avevi tanto a cuore potevi fare da te senza chiedere, come hai sempre fatto. Non so se ti ricordi l’intrallazzo con la casa al mare?» ribatte Tino.
«Ancora con quella storia? – Angela, come un fuoco d’artificio, scoppia – Tu e quell’altra stronza, mi avete scassato quella cosa che non ho.»
Carmela, sprofondata nella poltrona di Rosario, con la testa sotto l’aureola di sebo, impressa dal marito, si ridesta: «Muti! I vicini vi sentono. E poi in questo momento.» Piange e si lagna: «Ohimè, come farò.» Sospira «Saruzzo, perché mi hai lasciata.» Si soffia il naso: «Oddio, non ce la posso fare!» E si batte più volte le mani sulle cosce.
L’anima di Rosario a sentire quelle parole si gonfia di rabbia: “Gli facevo schifo. Mi voleva morto, e ora piange. Cose da pazzi.”
I figli guardano attoniti la disperazione della madre, restano in silenzio. Le luci esterne dei lampioni si riflettono sui vetri del balcone: l’imbrunire acuisce lo struggimento nella stanza. Il silenzio è rotto dal trillo del telefono. Tino risponde, è Rosalba. Veloce informa: è in partenza e arriverà entro mezzanotte.
Finita la telefonata Tino chiede: «Io ho fame e ordino qualcosa, tanto mamma non mi pare in grado di fare nulla. Qualcuno si unisce o fate digiuno per vegliare?»
«Sento un certo languore alla bocca dello stomaco e qualche cosa di appetitoso la mangerei, che so, due begli arancini con il ragù. Però fate voi, posso anche restare digiuna.» dice Carmela.
«Mamma, ti prego, non fare sempre la vittima.» dice Angela.
«Minchia. Ma com’è possibile che hai sempre da ridire sulla mamma?» sbotta Tino sollevando le braccia in alto.
«Tino? – dice guardando il fratello e puntandogli l’indice della mano destra – O’ fan culo!»
Carmela si alza e va ad abbracciare le spalle del figlio: «Tinuccio, a mamma, non te la prendere. Lo sai com’è fatta to soru: ha stato sempre nervosetta.»
Tino per un attimo stringe le mani della mamma e le bacia. Sente sulla nuca lo sguardo schifato della sorella e prova la stessa vergogna di un tempo. «Basta!» Si divincola dalle braccia della madre, con un balzo si dirige alla mensola all’ingresso e cerca sull’elenco telefonico il numero di una pizzeria: «Io ordino ‘na bella scacciata che broccoli e due siciliane. Me le voglio mangiare in onore della buonanima di papà. Angela, per te?» chiede a spalle basse senza girarsi a guardarla.
«Non ho tanta fame,» risponde mentre si raccoglie i capelli, li arrotola e li appunta con una penna presa dalla borsa «ordinami una focaccia con le verdure, e lo speck, ma senza cipolle, mi raccomando.»
A sentir parlare di arancini e scacciata, i frammenti materiali dello spirito di Rosario riesumano un certo appetito: “Scusate, vorrei mangiare anche io. Porca miseria, perché non mi considerate mai?” Vorrebbe ordinare, ma si vede stecchito nel letto e comprende.
Quando sono tutti seduti a tavola, deve accontentarsi di sentire i profumi, il rumore dei coltelli che affondano nel ripieno e tagliano l’impasto croccante. Ascolta masticare, biascicare, parlare e bere: “chissà se riescono ad apprezzare fino in fondo il piacere di mangiare. A me quante volte sarà capitato?”
A pancia piena parlano poco, cercano di eludere il sonno: Tino passa in rassegna i libri impolverati che leggeva da ragazzo messi ancora nello scaffale principale della libreria.
Angela, indossato il vestito e le ciabatte, che si è portata dietro, aiuta la madre a selezionare le cose da tenere. Prende la cornice sul canterano: «Come eravate giovani. Si vede che vi volevate bene.»
«Sì, sì. Povero Rosario. Mettila a posto che ci lasci le ditate.» borbotta Carmela. La figlia la riposa nell’angolo più esterno, rivolta verso il padre.
A mezzanotte e quarantacinque la veglia soporifera è scossa dall’arrivo di Rosalba: l’ingresso è annunciato dal puzzo di sigarette fumate durante il viaggio. Senza salutare, punta in cerca del morto.
Davanti al corpo del padre piange, gli afferra le mani, cerca un alito di vita ormai assente: ha un moto di repulsione nel percepire le dita fredde e pesanti. Riadagia l’arto e si sfrega la mano sul pantalone per cancellare quella sensazione estranea. Si accende una sigaretta, guarda i suoi polpastrelli, sono gialli quasi come quelli del padre e la cosa le da un certo orgoglio. Carmela la guarda storta: «Ancora? Vuoi fare la fine do papà?»
Rosario dall’alto vede la figlia e ha pena.
La donna aspira vorace, la brace del tabacco crepita. «Ma com’è successo? Ha sofferto?»
«No. Mi chiamò e disse: “Me ne sto andando, è venuta a prendermi. Le ho detto cinque minuti, il tempo di salutare”. Chiuse gli occhi. Pensavo a uno scherzo. Lo chiamavo: Saro, Saro, ma niente.»
Rosalba singhiozza e si rivolge al padre: «Ma non si fa così, senza avvisare. Io ci volevo essere. Tenerti la mano, dirti quanto ti voglio bene.»
A quelle parole Angela ruota le pupille verso l’alto e unisce le mani muovendole in segno di diniego. «Non essere drammatica. Nessuno è riuscito a dirgli nulla. È morto da solo, come desiderava stare da molti anni.»
«Tua sorella ha ragione: a me mi considerava un ingombro. La morte ha esaudito il suo desiderio.»
«Povero papà. Nessuno ti capiva. Solo io.» bisbiglia Rosalba.
L’anima di Rosario ricorda le difficoltà dell’ultimo anno, quando sentiva il male nutrirsi delle sue forze. Aveva paura, ma taceva. Iniziò a credere che dopo la morte avrebbe ritrovato Nuccia. Fantasticare su come sarebbe stato l’aldilà leniva la sofferenza terrena.
«Scusate,» interviene Tino «domani sarà un’altra giornata pesante, io mi vado a buttare sulla poltrona a riposare un po’. Se c’è bisogno…»
Rosalba risoluta: «Andate, andate. Io non ho sonno. Resto qui. Se crollo mi trovo un angolo da qualche parte.»
Nel silenzio della stanza Rosalba, sente risuonare la voce di suo padre “Tu sei l’unica ad essere come me”, questo mantra e il dolore per non esserci stata nel momento del trapasso, soffocano la stanchezza di tutte le ore di guida. Si siede in fondo a letto, lo guarda e gli pare sorrida. Giunge le mani come faceva da bambina quando era a catechismo, prova a ricordare una preghiera, ma nella mente si affastellano frammenti di Padre Nostro, Salve Regina, Angelo di Dio e la cosa la irrita. Incrocia le dita e sospira. Prova a ricordare le frasi salienti dette dal padre, i momenti indimenticabili vissuti insieme, ma non appare niente. Sospira senza riuscire a fermare un pensiero. Sempre più nervosa afferra dalla borsa le Merit, il pacchetto nella mano la rassicura, lo apre e scopre che ne sono rimaste quattro: me le farò durare! Trova l’accendino di plastica rossa e striscia il dito per far scaturire la scintilla dalla pietrina, ma la fiamma non si manifesta. Riprova una seconda volta, poi una terza. Lo scuote e riprova ancora due, tre, cinque volte: solo scintille. Irritata lancia con rabbia l’accendino verso il canterano. L’oggetto atterrando sul mobile non trova il giusto attrito e per inerzia urta la cornice che traballa e cade a terra. Dal pavimento si eleva un’eco di vetro triturato. L’anima di Rosario ha un tremito, il corpo di Rosalba un sussulto: Cazzo, questa non ci voleva. Raccoglie la cornice e scopre che dietro la foto del matrimonio ce n’è un’altra, un’istantanea Polaroid, fatta davanti a uno specchio, in cui c’è suo padre con una donna sconosciuta che in testa ha un velo da sposa, per il resto sono in mutande tutt’e due. Nasconde la foto nella borsa e va in cucina ad accendere la sigaretta. Quando rientra non è più nervosa, si gira verso il morto che ha l’espressione sempre più placida, la stessa che gli scorgeva quando veniva una cliente a comprare le lampadine. Rosalba era una ragazzina gelosa e osservava come ai due adulti luccicassero gli occhi. Una volta si accorse che la donna gli aveva lasciato un foglietto piegato, chiese al padre che cosa ci fosse scritto e lui dopo aver nicchiato, le disse che erano i giorni in cui poteva andare a cambiare gli interruttori a casa della signora. Non convinta, cominciò a scendere in bottega quando era chiusa in cerca di indizi e segreti. Così venne a conoscenza dei quadernetti in cui il genitore annotava le cose rilevanti: scoprire che suo padre fosse anche un maschio la fece sentire spaesata.
Guarda il morto e gli chiede «Dove li hai messi?» Poi come se avesse trovato la soluzione inizia a cercare, senza far rumore, disotto il letto.
L’anima di Rosario chiede a Dio che la figlia non trovi il quadernetto fatto cadere dietro la testata. E difatti, Rosalba, rinviene solo una serra di sacchetti di plastica annodati coperti da una coltre di lanicci. Sotto il canterano trova quattro anonime scatole, in ognuna un paio di scarpe della madre, ritenute scomode. Passa all’armadio, spalanca ogni anta e infila le mani sotto i cumuli di abiti, coperte e lenzuola, ma niente. Senza far rumore va a prendere la scala, sale e inizia a cercare tra le pile di contenitori di varie dimensioni e colori, alcuni li riconosce, li aveva depositati lei stessa sopra l’armadio, quando Rosario aveva dovuto lasciare la bottega. Le mani, sempre più infarinate di polvere, con bramosia aprono e rovistano nel passato. Nella quarta fila posteriore intravede una scatola di scarpe da bambina, marca Balducci: le ricorda come sue. Le mani tremano e ha la pelle d’oca mentre toglie il coperchio. Resta sorpresa nello scoprire che lì dentro non ci sono le scarpe, bensì i quadernetti su cui scriveva suo padre. Prima di toccarli avvicina la scatola al naso e inspira: un odore soffuso di pellame e di carta vecchia. Finalmente, leggendo quei fogli, potrà conoscere chi fosse veramente suo padre.
Lo spirito di Rosario è quasi pronto ad andare, impiega gli ultimi cinque minuti per lasciare i rimpianti e i desideri di tutta la vita che ogni giorno l’avevano gravato di astio. Vorrebbe dire a Rosalba di non dar peso alle pagine che leggerà. Lascia questo luogo di doveri, sicuro di ritrovare Nuccia per un’eternità di piacere. Guarda ancora una volta quel corpo freddo, una mosca è posata sulle labbra, lo sente un presagio, s’inquieta. Il suo nuovo viaggio, comunque, ha inizio.
Rosalba guarda tutti quei quadernetti, sono impilati e numerati per anno. Ne sceglie uno dalla copertina ruggine su cui è scritto 1971 – n°2, accende una sigaretta e apre una pagina a caso. Legge:
11 aprile 1971
È una Pasqua amara. Quella disgraziatissima figlia è partita da due anni e non vuole tornare. Ci ha detto per telefono che vuole fare la sua vita. E quale sarebbe la sua vita? Stare sola ed essere una preda da scannare?
Si ferma, schiaccia il mozzicone con forza, poi scorre diverse pagine ingiallite dal tempo:
20 giugno 1971
Carmela ha aspettato dieci giorni prima di dirmelo: Quella schifosa che è fuori casa si è fatta mettere incinta. Non è stata buona manco a fare la buttana, e io che ci avevo messo tante speranze. La vita è un bicchiere di fiele. A quella ingrata vorrei che…
Sente i muscoli della schiena contratti, non vuole continuare a leggere le ingiurie di suo padre, chiude e ne sceglie uno blu più recente. Apre le pagine che tengono celata un’altra Polaroid, ritrae la stessa donna, ha l’espressione gioiosa e in mano una torta come se la offrisse a chi la sta fotografando. Rosalba si rende conto che, anche se volgarotta, riesce a sprizzare vitalità anche da una foto vecchia, proprio l’opposto di sua madre. Legge:
20 marzo 1978
Ieri la Festa del Papà, nessuno dei miei figli se n’è ricordato. Ho festeggiato con Nuccia. È stato il più bel regalo ricevuto nella mia vita. A letto Carmela è ‘na morta, si capisce che le faccio schifo. Con Nuccia si futti una meraviglia, a lei ci piaci e macari a mia. Peggio per Carmela, ma tanto lei è presa dalla sua depressione. Che sfortuna che ho avuto: una moglie che non serve a niente, una figlia buttana, l’altra non voli marito. Meno male che Tino ha la testa a posto e continuerà la discendenza.
Scorre più avanti:
20 maggio 1978
Rosalba ha mandato la foto di Tiberio con la torta e sei candeline: è insipido, non ha preso per niente da noi. Meglio. Con Nuccia facciamo le cose vastasi come nei giornaletti. Quando ne ha voglia mi chiama e mi dice: “Signor Todaro ce l’ha cinque minuti per cambiarmi una lampadina, o cambiare una presa. Certamente Signora Maugeri, cinque minuti e sono da lei.
Quando suono il campanello ho già la minchia tisa. Che femmina. Una così dovevo trovare.
Chiude e ne sfoglia un altro con la copertina arancio datato lo scorso anno:
30 dicembre 1979
I miei figli verranno a mangiare a scrocco per il primo dell’anno. Sai che divertimento. Fortuna che esiste Nuccia. Mi ha fatto un bel regalo. Sapeva che mi sarebbe piaciuto una picciotta tenera e lei me l’ha fatta trovare. L’abbiamo fatto in tre. Toccare quel culo e quelle cosce giovani mi faceva impazzire. Mi scoppiava il cuore. Anche se il malaccio mi farà campare poco, almeno moru felice. Grazie Nuccia. Ti voglio tanto bene.
Rosalba serra gli occhi e fa dei respiri profondi. Dopo ripone il quadernetto, ricopre la scatola, la scaraventa sull’armadio e riporta la scala al suo posto.
Rientra in camera, sbircia il morto nel suo abito da cerimonia, sposta lo sguardo sul cassettone dove c’è la cornice senza vetro. Aggiusta la foto sbiadita dentro l’intelaiatura e la rimette come era prima, infine, con il piede, nasconde i frantumi di vetro sotto il cassettone: Se qualcuno se ne accorgerà, dirò che è stata l’anima di papà che prima di volare via, venendomi a salutare, per sbaglio l’ha fatta cadere.
Sono le cinque e venti, sente un dolore profondo alla pancia: Sarà il digiuno. Strofina le mani sul viso, sanno di nicotina, da bambina quell’odore gli dava disgusto, ma adesso le fa sprizzare la voglia di fumare. Prende la penultima Merit ed esce sul balcone, le piace l’aria fresca sulla faccia stanca e appiccicosa, inspira tre volte prima di accendere la sigaretta.
Illustrazione di Francesco Coco
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Giuseppe Coco lavora, cucina, pensa e scrive su pastogentile.com. Negli anni pubblicato alcuni saggi divulgativi tra scelte etiche e Medicina Tradizionale Tibetana e una raccolta di racconti (La musica ci gira intorno). Con soddisfazione ha visto manifestarsi alcune storie su Spazinclusi, Pastrengo, Malgrado le mosche, Grande Kalma, Rivista Blam, Sguardindiretti, Voce del verbo, tremila battute.
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