Il semaforo su strada osservava l’auto in avvicinamento, alternando sguardi colorati di comprensione, dubbio e odio. Victor, a differenza del semaforo, filtrava il mondo con sfumature di grigio, era immune alla baldoria dei turisti che invadevano le notti di New Orleans per il mardi gras con canti, balli e cortei in maschera. Fermo allo stop, osservava donne disinibite circondate da gruppi di allupati. Fino al termine del Carnevale avrebbero mostrato i loro seni in cambio di collane.
Baba Jaga riteneva l’aumento del turismo un vero lenitivo per le casse esangui della loro città, e questo a Victor bastava.
Gli schiamazzi e le risa avvinazzate dei passanti, il martellare sincopato proveniente dal bagagliaio della sua Chevrolet nera del ’77 rappresentavano per lui una cosa sola: rumori di sottofondo. Aveva voglia di ficcare il CD nello stereo, ma Layla avrebbe aspettato. Doveva finire un lavoro.
Percorreva Loyola Avenue, diretto al quartiere francese, gettando uno sguardo in lontananza all’enorme cupola candida del Lousiana Superdome. Il quartiere francese era l’antico nucleo della città. I suoi 12 isolati non si erano piegati all’inondazione del 2006. Dieci anni prima, in quel rione zeppo di pub ed eccessi, conobbe la prima madre che lo allevò.
Sovrappensiero, quasi si dimenticò del rituale e inchiodò; gli pneumatici si ancorarono all’asfalto in attesa del gesto cristiano. Dal finestrino scorgeva in tutta la sua magnificenza la cattedrale di San Luigi; poté ammirare le tre guglie della Basilica squarciare il cielo perché nonostante avesse un passeggero, non era accanto a lui a distrarlo dalla vista mozzafiato. Chiuse gli occhi. Fece il segno della croce. Pensò alla trinità evocata dal simbolo.
Victor non era credente ma Baba Jaga sì.
Parcheggiò la macchina nel garage sotterraneo. Liberò dal portabagagli un uomo sovrappeso, incappucciato e legato ai polsi con del nastro isolante. Non si curò dei mugolii e dei tentativi di resistenza da parte del sequestrato, lo sospinse lungo l’intero tragitto fino al montacarichi.
Antony Wisel stava per conoscere la regina dell’ex-fabbrica.
Ai piani superiori vecchi telai si disponevano come sentinelle bardate con armature di ragnatele e polvere; proteggevano saloni spogli, un tempo stipati di operai. L’incuria si ripeteva in ogni tratto del caseggiato, a eccezione dell’ala ovest. Lì non c’erano cicche o calcinacci, in compenso abbondavano sgherri e spranghe.
Antony cercò di mettere a fuoco il suo rapimento ma, per quanto si sforzasse, non ci riuscì. Era certo di essersi messo a letto dopo una notte passata a far quadrare i conti della sua azienda vinicola. Betty, sua moglie, era fuori città con la figlia Emily. Aveva bevuto e si sentiva fiaccato nell’animo.
Non capiva se avesse più paura del buio o di cosa si celasse oltre il cappuccio. Inciampò più volte su ostacoli a lui invisibili, sentì voci in lontananza smorzarsi rapidamente al suo arrivo. La lingua, costretta al silenzio dal nastro adesivo, si appiccicava allo strato di colla, lasciandogli un retrogusto amaro in bocca. Gli sembrò di vagare dentro quel labirinto da ore e fu colto dal panico quando il suo carceriere lo arrestò. Avvertì lo spalancarsi di una porta e venne investito dal calore dell’ambiente dietro i battenti. I suoi piedi calpestarono qualcosa di soffice.
Fragranze di ibisco e lillà allietarono le narici dei presenti. Un sound blues senza parole dei primi del ‘900 rendeva nostalgica l’atmosfera.
Una voce di vecchia iniziò a parlare dopo essersi schiarita la gola: «Livery stable blues. La band era di New Orleans. Questa canzone ha più di 90 anni. È più saggia di me.» Goffamente tentò di fischiettarla mantenendo la metrica della melodia.
Antony tremava al suono di quella voce. Era aspra. Avida. Gli ricordava il dolore ai denti quando a scuola passavano le unghie sulla lavagna. Il timbro vocale, però, era attutito dagli anni e giungeva come ovattato da dietro una parete.
Gli tolsero il cappuccio e il legaccio ai polsi.
C’erano tre persone nella stanza: la vecchia di fronte, il carceriere alle sue spalle e lui.
Era ancora imbavagliato.
Osservò la vecchia bere un liquido fumante da una tazzina di porcellana. Credette fosse malata, afflitta da un male che ti divora da dentro lasciandoti solo pelle e orbite vuote. La sua fisicità faceva compassione e ribrezzo: scarnificata nei pochi punti dove la pelle era esposta, aveva un volto raggrinzito e smunto. Il naso prorompeva e si piegava come un rostro di una nave affondata. Le mani diafane erano avvolte da guanti di seta nera. Nera era anche la sua veste accollata a suggerire un lutto recente. Una crocchia ispida raccoglieva il grigiore dei suoi capelli.
«Signor Wisel, si accomodi.» disse la vecchia.
Non c’erano sedie nella stanza a eccezione di una poltroncina dove sprofondava la donna. Il grammofono continuava a diffondere quel ritmo antico. Un tavolino inglese con sopra due ferri da maglia completava l’arredamento del tugurio. Guardandosi attorno, Antony annotò mentalmente un’orrenda carta da parati giallo fumo che intasava le pareti della stanza e il tappeto persiano sotto i suoi piedi.
Non riusciva a vedere l’uomo alle sue spalle.
Uno strappo secco liberò la sua bocca dalla morsa del silenzio. Mosse le labbra per destarle dal torpore. La vecchia, portandosi i ferri da maglia in grembo, l’osservava.
«Chi sei? Perché sono qui?» urlò Antony.
La vecchia allungò la schiena dalle spalle ricurve per adagiare la tazzina sul tavolino. Posata la porcellana, rispose: «La prego di non porre domande di cui conosce già la risposta. Io amo le discussioni stimolanti, quindi saltiamo i convenevoli e pronunci il mio nome.»
«Baba Jaga.» Le parole uscirono dalla sua bocca sospinte dalla paura.
La vecchia alzò la mano chiusa a pugno e sollevò il mignolo.
Un maglio di carne azionato da bicipiti si abbatté due volte sulle reni di Antony, facendolo inginocchiare a terra per il dolore.
«Intendevo il mio nome di battesimo, signor Wisel. Quel soprannome abbonda solo sulle labbra di conoscenti e nemici,» specificò Baba Jaga. «invece lei e io siamo legati solo da un rapporto d’affari. Quindi la prego, mi chiami vedova Kovač.»
Antony serrò la mascella. Con una mano si massaggiava il fianco: «Quali affari? Io non ti conosco.»
Baba Jaga sollevò nuovamente il mignolo.
Stavolta il cazzotto piombò dall’alto come un rapace. Ghermì lo zigomo di Antony portando il suo viso a contatto diretto con il tappeto. Squittendo, aspirava a grandi boccate l’aria all’interno del tappeto.
«Signor Wisel comprendo la sua agitazione, ma lei deve darsi un contegno o sarò costretta a prendere provvedimenti.»
Dalla nuova prospettiva Antony vide i tremori nei piedi della vecchia.
«Proprio perché non mi conosce gradirei un linguaggio più formale da parte sua. È in grado di farlo o devo imbavagliarla di nuovo?» disse ghignando Baba Jaga. Aveva dei denti bianchi e artificiali poggiati su gengive marce.
«Sì… Posso farlo.» sospirò Antony sollevandosi dal tappeto.
«Signor Wisel, le ho elargito un prestito quando tutte le banche le avevano voltato le spalle. Prestito che le ha permesso di rialzare, nel vero senso della parola, la sua attività commerciale. E’ sempre stato puntuale con i pagamenti, eccezion fatta per ieri.» Con le dita secche della mano accarezzava il grammofono. «Vede, sebbene nasca immigrata, l’America è la mia vera patria; io sono andata oltre il concetto di “sogno americano”, io ho fatto uscire dall’incubo ogni buon cittadino affossato da Katrina. Io ho creduto in lei, e lei mi ripaga mancandomi di rispetto.»
Allargò le braccia, come se potesse tastare nell’aria l’offesa ricevuta.
«Ieri è stato il compleanno di mia figlia, siamo stati…»
«Avrebbe potuto pagare il giorno prima e non ci saremmo trovati in questa situazione.»
Antony provò a calmare il suo respiro irregolare: «Possiamo trovare una soluzione.»
Baba Jaga applaudì: «Verrà accompagnato a casa sua e potrà pagare la quota del debito. Per il disturbo arrecatoci, dovrà aggiungere la somma di 950$.»
«950$? Dove li trovo? É impossibile!» disse Antony.
«La scarsa considerazione delle proprie capacità, unita all’uso smodato di falsi assoluti, mi rattrista profondamente. Si volti verso Victor.» A rimarcare quanto detto, l’indice della vecchia indicò un punto dietro le sue spalle.
Si voltò.
Piantato su due solide gambe c’era un ragazzo. L’intero suo corpo mandava segnali in tal senso: l’ampio torace svettava su una massa di carne temprata da fatiche. Indossava jeans e una canottiera sdrucita. Le braccia in tensione erano attaccate ai fianchi e mostravano solchi di muscoli definiti attraversare l’intera superficie fino alle spalle, creando avvallamenti simili a catene montuose. Ciò che disorientava era la sua testa: un tatuaggio a forma di collare e un’ampia cicatrice rendevano la pelle del collo striata come una zebra. Il mento, le guance e la fronte erano invase da sciami di cicatrici. L’orecchio destro era fuso lateralmente con il cranio. La testa era completamente rasata. Le sopracciglia, di un giallo paglierino, erano rade e si perdevano con l’abbronzatura da strada del viso. Gli occhi erano spenti, semichiusi, senza un guizzo di vita.
«All’età di 12 anni gli è stata diagnosticata una forma di mutismo selettivo. Due anni dopo una lama seghettata trafisse e devastò la sua gola. Al sintomo psicologico si sommò la menomazione fisica.» spiegò Baba Jaga.
Antony ritornò sulla sua aguzzina. In piedi, avanzava nella sua direzione. Era sorretta più dalla volontà che dalle giunture del suo corpo.
In una mano stringeva i ferri da maglia.
Riprese a parlare molto vicina all’orecchio di Antony: «Oh! So cosa sta pensando. Si sta chiedendo cosa c’entri questa storia con lei. Vede, il mio ragazzo tace perché preferisce ascoltare. È lo stesso potere decisionale che ha portato lei a non pagare gli interessi del prestito generosamente elargito.» Il fiato della vecchia si condensò sulla faccia del sequestrato.
«Non è possibile. Non sta capitando a me» mormorò Antony.
«Se si ostina a voler usare il termine impossibile, signor Wisel, lo faccia almeno connotandolo all’interno di una frase adatta a rimarcarne il giusto significato. Ad esempio: a causa della sua negligenza nel rispettare i nostri accordi finanziari, è impossibile per il suo corpo uscire indenne dalla stanza.»
«Ma io pagherò! Io voglio pagare!»
«Conosce l’editto di Rotari?» disse Baba Jaga.
«L’editto?»
«Era una raccolta di leggi redatta dai Longobardi nell’Anno Domini 643. Eviterò di tediarla con una lezione di storia, però, tramite l’editto, Re Rotari ideò la soluzione per gente come lei. Arrivò a calcolare un’indennità che superò il concetto stesso di denaro, la chiamò guidrigildo.» Baba Jaga assaporò quella parola. «L’amputazione di una mano, di un occhio o del naso valeva mezzo guidrigildo. Fortuna vuole sia la somma che lei deve a me.»
«No no! Ascoltatemi, io pagherò subito!»
«Ne sono convinta, non sono certo una macellaia ma, vede, lei ha bisogno di un monito, di una stigmate; a rammentarle l’errore di oggi basterà uno specchio. Veda il lato positivo, avrà più soldi per comperare un bel regalo a sua figlia.»
Bucò la cartilagine di Antony con i due ferri da maglia fino al setto nasale, poi strappò via con forza inusitata.
Le grida di disperazione e di dolore riecheggiarono nell’ala ovest. Udite solo dal vento, vennero spazzate via con la complicità della notte.
L’Original Dixieland Jass Band oltre a essere il Palo alle torture di Antony Wisel era anche la sveglia ufficiale dell’organizzazione. Victor si svegliava con la stessa musica nelle orecchie da tredici anni. Gli dava un senso di sicurezza. Prima ancora di aprire gli occhi sapeva di essere nel ventre dell’ex fabbrica. Gli occhi rimanevano chiusi durante tutti gli esercizi mattutini. Quando li apriva, sapeva già cosa fare: aiutare Baba Jaga. C’erano altri Antony Wisel da raggiungere, braccare, agguantare e portare al cospetto di sua madre.
Nella sua stanza mancava il bagno. Nella sua stanza non c’era nulla oltre a un letto e ai suoi attrezzi. I pochi vestiti di sempre lo aspettavano buttati sul pavimento. Aveva appuntamento con lo Snorky nel pomeriggio a Lakeview, uno dei quartieri messi a tappeto da Katrina due anni prima. Il sole dalla finestra gli indicava con il suo vigore che mancavano diverse ore all’impegno. Decise di andare prima da Layla. Layla era la sua tappa fissa.
Gli Animals, con il testo della loro “House of rising sun” riuscivano a descrivere a Victor la donna con cui scopava e la città in cui respirava. Schiaffò il loro CD nello stereo della macchina e si diresse alla sua “casa del sole nascente”. Per la gente comune era il “Pussy Lion club”: uno strip club per 8 ore a notte e un bordello full time. Layla, Victor l’aveva conosciuta lì. Era andato a sedare una rissa e a spaccare qualche naso di clienti troppo sbronzi o troppo al verde per pagare i conti del locale. Si trovava in bagno a sciacquarsi via il sangue dalle mani e dallo specchio sopra il lavabo apparve una ragazza fin troppo coperta per l’ambiente. Quella notte aveva i capelli verde smeraldo. Un’altezza da modella era inutilmente slanciata da tacchi su cui pareva muoversi con disinvoltura. Il piccolo seno sodo non subiva sobbalzi dal suo incedere sicuro. Lo sguardo vivo e passionale era mascherato da un trucco dozzinale da prostituta. Il sangue la eccitava.
Fecero sesso attaccati al muro del bagno, con l’asciugamani elettrico a ricoprirli di aria calda. Al terzo incontro Victor si accorse della parrucca.
«Ti fa schifo se ti scopo con la testa rasata?» chiese Layla allora.
Victor fece cenno di no.
Parcheggiò la macchina vicino a un parco pubblico. Un gelataio con il suo camioncino dispensava gioia e carie ai bambini del quartiere. Percorse le stradine interne, mangiò un trancio di pizza ai peperoni da Reginelli e si avviò verso il locale. Le pareti esterne del bordello, gli aveva detto una volta Layla, nella loro versione originale erano di una tonalità di eliotropo acceso. A Victor sembravano viola con sopra i tre millimetri di smog che rivestivano ogni cosa a New Orleans. Era un piccolo locale eccentrico a un piano affacciato su strada con all’ingresso una porta di legno marcio, sovrastata da un’insegna al neon eternamente spenta. Superata la porta si arrivava al vero accesso. I soci avevano tutti una tessera magnetica. In caso di problemi c’era la sorveglianza. Accedendo al locale si veniva immersi in una cacofonia di suoni provenienti dai tavolini e dai privé; dal palco false cantanti ammaliavano con la sinuosità delle loro forme. Del monopolio del viola non c’era più traccia all’interno e, senza accorgersene, il giallo presente nei pavimenti, il verde degli arredi e il blu del soffitto ti portavano a epilessia. Nei sotterranei, cubicoli claustrofobici permettevano ai clienti di dar sfogo alle loro perversioni.
Victor era salito sul palco, diretto alla zona camerini. Il locale alle 9:00 era frequentato solo dalla ditta di pulizie.
«Il mio Mastino è venuto a trovarmi.» disse Layla. Le piaceva fargli agguati, addentandogli il lobo superstite dell’orecchio o strusciandosi da dietro sulle sue natiche.
Lui reagì come la nitroglicerina in una centrifuga.
Entrarono nel camerino di lei. La sbatté sul banco vicino a uno specchio di scena. Si calò i pantaloni, Layla allargò le gambe dentro la minigonna mostrando la totale assenza di biancheria intima. La sollevò alla giusta altezza del suo sesso. Si accertò fosse pronta a riceverlo con i suoi umori e la penetrò. Non c’erano preliminari per lui. Dopo l’amplesso, Layla iniziò a baciarlo sulle labbra permettendo alla sua lingua di esprimersi senza suoni.
Lei rimase distesa sollevando una gamba verso la lampadina del soffitto. «Victor ma io cosa sono per te?»
Victor chiuse la cintura dei pantaloni.
«Ti piacerebbe fossi la tua donna?»
Infilandosi gli stivali consunti, senza voltarsi a guardarla, annuì.
«Allora potresti parlare con la vedova Kovač e dirle che io non sono più la puttana di nessuno.»
Baba Jaga aveva spiegato a un Victor ancora adolescente l’energia della donna: una femmina era in grado di soddisfare molti maschi e mai il contrario. Quindi era normale per una giovinetta diventare una prostituta.
«Victor mi ascolti? Io non ce la faccio più!» si voltò di schiena, mostrando il viso rotto da lacrime sullo specchio appannato. «E’ arrivata a chiedermi 3000$ per farmi lavorare. Io non voglio più succhiare cazzi! Lo sai ho una bella voce, potrei esibirmi in un nightclub.»
Lui uscì dal camerino a torso nudo, lasciando Layla singhiozzante. Rientrò dopo mezz’ora. La mano destra di Layla aveva perso tre unghie finte. La plastica color corallo aveva lasciato posto alle vere unghie in cheratina. Layla le stava mordendo quando Victor posò il borsone. Lo aprì e le consegnò una busta giallognola con il logo dello “Scoglio della mantide”.
«Dove sei stato? Perché la busta?»
Gliela strappò dalle mani e le mostrò il contenuto: 8000$ in pezzi da cento. Non aspettò la replica della ragazza. S’infilò il giacchetto e tornò alla macchina.
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Copertina originale di Doctor Tale and Mister Shot
Un pensiero su “Il muto #1”