Si chiacchiera amabilmente tra amici ed esprimo un’opinione molto concisa.
“Hai il dono della sintesi” commenta qualcuno.
Lo fulmino con uno sguardo carico di sospetto. Ma no, l’espressione dell’amico è priva d’ironia e il suo è un complimento sincero. Ed è vero, raramente mi perdo in chiacchiere e molti apprezzano che non li seppellisca sotto un profluvio di parole; solo che spesso questa dote si tramuta in un difetto: l’aridità del pensiero.
È sempre stato così, fin dai tempi della scuola: ricordo la fatica di scrivere un tema di lunghezza accettabile, mentre i compagni riempivano con disinvoltura facciate su facciate. Oppure i tentativi inconcludenti di arricchire le mie risposte telegrafiche alle domande dei professori, durante le interrogazioni.
Questa ideazione poco prolifica mi ha reso la vita difficile in svariate circostanze. Le riunioni politiche ne sono state un tipico esempio. Lì non vale la regola, che io ritengo sacrosanta, secondo la quale se hai qualcosa da dire la dici, altrimenti taci. In quel contesto, per contratto devi avere un’opinione e saperla esprimere con copiose argomentazioni. E poi c’è sempre qualcuno che se ne esce con la fatidica frase:
“Bene, adesso facciamo un giro per sentire cosa pensano i compagni!”
Disastro: in genere io non penso niente, oppure penso poco, sicuramente troppo poco per fare l’intervento che si richiede in queste circostanze. La storica frase “Sono d’accordo con il compagno che ha parlato prima” sintetizza una piccola tragedia quotidiana: quella di chi vuol fare politica ma non ha doti dialettiche, e se ha un’idea, è sempre striminzita, e riesce a contenerla tutta in una sola frase, al massimo una principale più una subordinata, con l’uditorio che aspetta il dipanarsi del discorso e non ha capito che il discorso è già finito.
La difficoltà è inoltre aggravata dal disagio che mi causa svolgere una qualunque attività sotto gli occhi di un pubblico, a cominciare dalla cosa più semplice, cioè, appunto, parlare. Se vado indietro nel tempo, alla ricerca della prima occasione in cui ho memoria di questo fastidioso sintomo, arrivo verso i 6-7 anni, epoca in cui le zie si ostinavano a farmi prendere lezioni di pianoforte. Le lezioni e lo studio, in sé, non erano poi così male, anche se poco produttivi, finché non si palesò una minaccia imprevista: il saggio. La prospettiva di salire su un palco, sedermi sul seggiolino e suonare sotto gli occhi di un pubblico mi terrorizzava. Ne ero sicura: il mio insuccesso sarebbe stato clamoroso e mi avrebbe alienato per sempre l’affetto della famiglia. Penso sia questa la ragione della fobia, all’epoca, e probabilmente anche ora: la paura di deludere. “Da te ci saremmo aspettati di più” è una frase che spesso riecheggia nella mia mente; l’ho sentita, ho immaginato di sentirla, non saprei dire. È buffo che in tanti anni di analisi questo nodo cruciale non sia mai emerso e ciò rafforza il mio convincimento di aver sprecato un mucchio di tempo e di denaro.
Per vari anni, con mio grande sollievo, sono riuscita a evitare il saggio di pianoforte grazie alla mia salute cagionevole che m’impediva di esercitarmi adeguatamente, per cui all’approssimarsi della data fatidica la mia insegnante giudicava sempre insufficienti i progressi ottenuti e io ero salva. La minaccia fu sventata definitivamente dalla morte improvvisa della mia insegnante, che con il cinismo tipico dei bambini salutai con grande sollievo. È divertente che a posteriori, con la fantasiosa benevolenza con cui si riscrivono gli eventi famigliari, il mio abbandono dello studio del pianoforte fu imputato allo shock per la perdita dell’insegnante. Amatissime zie, voi non avreste mai pensato che io potessi deludervi!
Salto qualche anno e mi ritrovo adolescente, iscritta all’Unione dei comunisti italiani marxisti-leninisti, in preda a una follia che posso giustificare solo con la mia giovane età. Il maoismo, che era il nostro verbo (letteralmente: ricordo che il Vangelo, che l’anno prima tenevo sul comodino, e di cui ogni sera leggevo un versetto, era stato sostituito dai pensieri di Mao, la mia nuova religione), il maoismo, dicevo, imponeva l’autocritica, una specie di processo pubblico in cui ci si accusava dei propri crimini, per lo più ideologici. Arriva il giorno fatidico della mia autocritica, mi sono preparata un discorso profondo ed elaborato, mi sembra di avere corposi argomenti da disquisire, e invece, quando tocca a me, esaurisco il tutto in trenta secondi netti, con la voce sempre più strozzata dall’emozione.
“Da te non ce lo saremmo aspettati!” leggo negli sguardi delusi dei compagni.
A un certo punto non ne ho potuto più del senso di inadeguatezza e ho cominciato ad architettare escamotage per trarmi d’impaccio. Al direttivo della CGIL, ad esempio, ne usavo uno particolarmente efficace. Dichiaravo fin dall’inizio che all’ora tale avevo un impegno improrogabile che mi costringeva, ahimè, ad abbandonare lo stimolante consesso. Dopo di che mi segnavo per l’intervento quando c’era già una bella lista di abili oratori, nessuno affetto da pensiero striminzito come me, che mai e poi mai sarebbero riusciti a stare nei limiti, regolarmente, quanto inutilmente, prescritti dal coordinatore. E quando arrivava il mio turno:
“Fiorella, tocca a te”.
Che disdetta, è ormai troppo tardi, mi aspetta l’avvocato, il treno sta per arrivare, la gatta è ormai in travaglio, insomma quello che voi preferite: devo lasciarvi, devo privarvi del mio contributo, vi abbandono, un po’ delusi, a immaginare quello che avrei voluto dire e che non saprete mai, e che neanche io so.