nuova_dicotomia_2

Nuova Dicotomia #2

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Tutto sta nel come la si guarda, una città. Il punto di vista non genera solo prospettive ma crea finzioni rassicuranti. Ci si può ingannare per bene costruendo il proprio quadretto idilliaco.
Basta ignorare la vista periferica. E gli altri quattro sensi.
Così sto facendo io. Le mani perquisiscono cadaveri sparsi per la strada in cerca di scarpe e vestiti; non sento la loro rigidità o il loro puzzo attanagliarmi le narici. Resto inginocchiato ma a collo teso e mento alto, alla giusta altezza per vederlo: l’anfiteatro Flavio. M’inonda le retine con i suoi marmi e buchi millenari, è al tempo stesso infanzia e futuro. Un monumento eterno acconciato nelle varie epoche secondo i capricci del regnante di turno. Per sopravvivere ti sei ingegnato. Ma qui il cervello non c’entra. Anche tu sei dovuto diventare la puttana di qualcun altro. Da mattatoio a salvadanaio dell’amministrazione comunale.
Melody inizia a muoversi lungo la schiena. Io me ne frego e resto aggrappato al quadretto dal quale pesco ricordi.
Ero un soldo di cacio rispetto ai mocciosi della mia età e frignavo a scuola un giorno sì e l’altro pure. Papà mi portava a fare passeggiate ai piedi del Colosseo. Ne percorrevamo l’intero perimetro schivando pagliacci mascherati da gladiatori e torme di turisti carichi di flash e sorrisi. Lui parlava, parlava sempre, sviando dai miei problemi scolastici e le assenze; mi parlava di lui, della sua fierezza, della sua brutalità.
Il fulcro imperiale.
Se chiudo gli occhi lo vedo ancora ripetere le stesse frasi: «Flavio, tu porti il suo nome…» oppure «La maestosità della sua struttura è niente rispetto alla culla racchiusa al suo interno,» e immancabile «Vengono da tutto il mondo per rendergli omaggio.»
Quel coglione di mio padre.
Stavo lì a sentire storie di fiere, schiavi, gladi e massacri e mai una volta che fossimo entrati. La visione migliore del recinto interno è stata in un raro momento di allineamento cosmico tra me sdraiato pancia a terra, la fila dei visitatori alle casse e lo spazio formatosi sotto al cavallo dei pantaloni di un giapponese. Sproloquiava su quanto sarei stato grande al pari dell’imperatore Vespasiano, di come in futuro mi sarei battuto per prevalere sui soprusi e farmi acclamare dalle persone amate. Mi avrebbe raccontato di tutto pur di mantenere in piedi il teatrino delle falsità agli occhi di suo figlio. A otto anni poteva pure funzionare, ma già a dieci la magia era finita. Il miracolo dell’ubiquità spetta solo a Dio, quindi se mio padre stava spaparanzato sul divano non c’era un’altra sua versione a riparare la serranda del garage o a fare la spesa. Quando è stato sbattuto in carcere per una rapina il posto sul divano è rimasto vuoto.
Se potesse vedermi ora sarebbe fiero di me. Ho contribuito a portare l’arena fuori dall’anfiteatro e ho reso terreno di scontro l’intera Roma. Sono il gladiatore che impala e l’imperatore che sentenzia. Manca solo il pubblico in visibilio perché io lo ammazzo, il pubblico.

Lo shopping ha dato i suoi frutti. Ho trovato: un paio di scarpe eleganti stile mafioso, jeans senza sangue rappreso o escrementi animali e stracci vari per ripulirmi. C’è una giacca in pelle ma infilarmela è impossibile, Melody lo impedisce. Dalla cintola in su l’unico indumento da indossare deve essere lei. È parecchio possessiva.
Sono passati quattro giorni dal mio ultimo massacro. Prima di abbandonare lo stabile ho trovato un quadernino rosa di Hello Kitty. Ho preso a scriverci:

Giorni senza foga: ||||

Giorni senza cibo: ||||

Giorni senza voglia: …..

Prendo tempo punzecchiando la pagina con la penna. Ultima sega? Da quattro giorni lo stomaco non brontola, da quanti non mi si drizza?
Quattro giorni senza foga, tre mesi senza figa.
Arrivo a questa associazione seduto all’ombra di un pino che costeggia via dei Fori imperiali. Melody è distesa sul petto di traverso e la parte in metallo mi raschia la barba a ogni movimento del braccio. Rifugge ogni contatto con l’albero, si trova a suo agio solo con la carne. È bello sentirla rilassata.
Il vento primaverile combatte la sua battaglia contro le macerie degli edifici. Oltre al polline carica sul groppone rimasugli d’intonaco e peli. Io sono forse il suo figlio bastardo: trasparente nelle sembianze, esplicito nei modi.
«Di scarafaggi oggi neanche l’ombra.»
«Ci sono, ci sono. Basta solo cercarli.»
Sono due uomini a parlare. Dovrei rimanere stupito nel vedere due vanghe fluttuare nell’aria come fucili pronti a sparare, imbracciate da nessuno. Invece sorrido.
«Diego, solita scommessa?»
«Poi mi devi spiegare cosa cazzo ci fai coi soldi.»
«Ci stai o no?»
«Ok, ok. Però solo due tentativi, siamo già in ritardo.»
Dal tono della voce sono più vecchi di me. Se questa è una ronda, sono pessime sentinelle.
Mi alzo.
«Salve.» dico.
Evito di scattare in strada e percuotere quelle voci a forza di urla perché oggi non sono in foga.
«Chi sei? Alameda ti ha detto di raggiungerci?» fa il primo.
«Aspetta Ale, guarda la pala.» s’intromette il secondo. Ha una voce nasale. «Hai perso la fascetta identificativa?»
Melody è irrequieta rispetto alle sorelle. Mi è capitata la ribelle. Ghigno. Poi atteggio le labbra a linea morta di ECG per il fastidio di essere specchi in un mondo di ciechi.
«Sei sordo? Ci capisci?»
«No alle prime due domande.» dico ad Ale.
Scoppiano a ridere. Rido anch’io ma dal nervoso, impugno Melody e le risate smettono.
Giusto, loro la vedono.
«Che stai facendo?»
«Fidarsi è bene…»
«Lascia stare, queste bellezze sono fatte per uccidere scarafaggi. La nostra razza è immune.» mi interrompe Voce Nasale declamando ‘sto precetto che mi sa tanto di stronzata. Mi limito a rimarcare: «Razza?»
«Seguici, ti portiamo da Alameda.»
E così faccio.
Durante il tragitto diventano silenziosi. Nonostante il dono perlustrano l’area restando vicini, a giudicare dalla disposizione delle loro Pale. Sono una congrega? Spero solo Alameda non sia uno di quei santoni mandati in video alle 3 di notte sulle reti regionali dentro a una chiesa anglicana riempita da un coro gospel di cioccolatini obesi impegnati a cantare lodi all’Altissimo.
«Quei ruderi ce li eravamo ripassati?» Il magnifico duo si sta riferendo a dei busti all’interno dell’area archeologica, o forse a dei capitelli. Difficile dirlo.
«Boh. Fatti un giro rapido. Tieni, portati la bomboletta.» risponde Diego.
Sento Ale atterrare oltre la bassa inferriata alla fine del marciapiede e discendere rapidamente la collinetta accompagnato dal rumore della pallina miscelatrice. Mi affaccio incuriosito e vedo il getto giallo dello spray andare a colorare una colonna diroccata.
«Cosa sta scrivendo?» chiedo.
«Neanche sapete perché morite.» risponde Diego scandendo le parole, «È il nostro messaggio agli scarafaggi.»
«Intendi le persone?»
«Intendo la feccia, i deboli, i visibili.» Prova a dirlo con cipiglio ma il tono nasale rende l’intera frase farsesca.
«Bello.» rispondo mentendo.
La ronda prosegue con una lentezza opprimente. Varie volte supero le mie guide per poi tornare indietro a dimostrazione di un rispetto alquanto precario nei loro confronti. Da bravi randagi, marchiano il territorio con l’urina spray riscrivendo la medesima frase “Neanche sapete perché morite” sulla fiancata di un autobus annerita da un incendio. Il motto è già presente da altre parti: su tegole di abitazioni, panchine divelte o segnali stradali usati alla stregua di banner pubblicitari, con un giallo via via più tenue. Intuendo i miei pensieri Ale esordisce: «Dovresti vedere come abbiamo combinato i busti degli imperatori. Adriano ha su un abito da sera e un paio di orecchini da troione.» A metà frase stava già sghignazzando.
Le orecchie… riuscirei a mozzargliene una alla cieca mentre ride? Avrei pure l’handicap dei movimenti spastici del collo. Mi aggrego alla risata pensando alla cascata zampillante di sangue con i suoi detriti di cerume.
«Sei simpatico! Qual è il tuo nome?» dice Ale fraintendendo il mio giubilo.
«Mi chiamo Flavio, manca ancora molto?»
«Piacere Ale. Se dico Quirinale sai orientarti da qui?»
«No.»
«Manca poco. Io sono Diego»
«Piacere. I militari dove sono?» chiedo.
«Mettiti in fila sei l’ultimo arrivato, dovrai faticare per meritarti qualche massacro di gente in tuta mimetica.»
I soldati sono diventati merce rara nel giro di poche settimane. Lo testimonia il posto di blocco deserto a Piazza Venezia. Unica sentinella impotente, l’Altare della Patria.
Sono divertito dalla confidenza mostrata nei miei confronti. Da mesi la gioia era sposata con la violenza. Ero arrivato a pensare che le bocche potessero solo urlare e soffocare. «Ale, volevo dir-»
«Zitti! Guardate laggiù verso largo Magnanapoli, proprio all’ingresso della rotatoria.» ci interrompe Diego abbassando la voce e iniziando a respirare dalla bocca. Avanziamo all’unisono.
C’è un uomo, intento a sollevare una saracinesca di un negozio. Parte del corpo è coperto in prospettiva dalla palma al centro della piazza, indossa delle infradito a unica protezione di piedi lerci e, nello sforzo di imitare un sollevatore di pesi olimpionico, le suole in gomma ciabattano sui sampietrini ponendolo in una posa da attacco di diarrea.
Ale e Diego puzzano di sudore, Melody tenta l’impugnatura ma la ricaccio sulla schiena. Abbasso lo sguardo e conto i forellini sulla tomaia delle mie scarpe eleganti.
Mi diletto a fare l’autistico contando a ripetizione una sequenza di numeri e non mi scaglio sul ladro perché oggi non sono in foga.
Di diverso avviso è Ale – o Diego. È già arrivato a destinazione e solleva la vanga come un boia pronto a decapitare. Lo colpisce alla schiena nell’istante in cui era riuscito a entrare nel locale, stramazza al suolo con mezzo corpo dentro. Poi Diego – o Ale – si ferma. Attende il malcapitato mentre si rialza e urla il suo terrore alla strada. Ingobbito dalla botta, Infradito inizia a correre piegato in due verso il palmeto della rotatoria. Ad accoglierlo c’è l’altro socio di scorribande che lo azzoppa e poi lo elimina scavandogli la faccia.
Fa strano vedere la scena da spettatore: stesso risultato, diversa esecuzione. Mi avvicino al corpo e ai due esecutori. Le foglie a caschetto di una palma hanno assunto una tinta rossa autunnale e stanno ancora sgocciolando quando pongo la domanda: «Come hai fatto a fermarti?»
«Visto che spettacolo? Certi locali li usiamo per stanarli, ci buttiamo dentro dei barattoli di fagioli e lasciamo la saracinesca leggermente abbassata, ma sono talmente sfiniti da impiegarci un’eternità per aprirla.»
«Grande gioco di squadra sì, ma come hai fatto a fermarti?»
«Non ti seguo.» dice Diego.
«Gli hai dato un colpo, poi ti sei fermato. Eri in foga?» gli mimo con Melody la scena.
«Cazzo è sta foga?»
«Io la chiamo così. Sarebbe il momento in cui vuoi uccidere.»
«Ma noi vogliamo uccidere in ogni momento.» dice Ale alle mie spalle.
«Certo anche io! Ma da quanti giorni non uccidevate qualcuno?»
«Ti senti bene? Giorni? Facciamo ore.» E cominciano a ridere assieme. «Se fossimo sonnambuli, uccideremmo pure nel sonno.»
«Ah!Ah! Bella questa fratello.» Percuotono le pale sulla saracinesca.
«Insomma Flavio la vuoi sentire o no la storia delle trappole per gli scarafaggi?»
«Certo, continua pure.» Riprendono a parlare e mi chiudo nei miei pensieri.
Si è fermato.
Sono tre i mesi di convivenza con Melody e il massimo ottenuto è una dilazione di tempo rispetto ai suoi desideri.
«… c’era un sacco di patate e noi gliene abbiamo ficcata una in bocca mentre gli schiacciavamo i coglioni…»
Credevo ci fosse un gran feeling fra noi. Però, a guardarle meglio, le due pale davanti a me si discostano da Melody; sono più tonde e piccole. No, forse più piccole no, però sono sicuramente diverse.
«… e allora Alameda ha pensato di fare degli avamposti di avvistamento, simili a quelli dei militari nei punti strategici della città. E ogni avamposto è disseminato di trappole per scarafaggi, tipo questa.» dice Diego.
«Genio anche se indichi mica ti vediamo.»
«Ale, Vaffanculo. Flavio ha capito. Hai capito Flavio?»
Ho capito che siete un cancro per i miei ragionamenti. «Sì, sì, chiarissimo.» Somministro pacche sulle spalle ed elargisco complimenti. Poi finalmente riprendiamo a camminare. Tagliamo per via XXIV maggio. Sembra di essere nel deserto dei Tartari di Buzzati per quanta desolazione alberga ora. C’è una totale assenza di macchine o altri mezzi di locomozione, al loro posto fioccano cartelli e altoparlanti da strada.
«Finalmente si sono azzittiti. Deve essere scoppiata la centralina. Tu lo sentivi il ritornello?» mi chiede Ale.
«Quello della TV?»
«No. Parlo dei cecchini. Era un continuo di “Tenete le mani alzate durante gli spostamenti” e altre stronzate. Sembrava un corso di ginnastica per soldati. Morale della favola avranno ammazzato più scarafaggi loro di noi.»
Me li immagino in preda al panico a sparare a ogni scoreggia o petardo lanciato da un bambino. «Peccato essermela persa. Da pochi giorni sono arrivato nel quartiere. Prima era difficile muoversi, i posti di blocco erano ovunque.» E poi sono uno metodico, ho iniziato uccidendo prima i miei vicini.
«Allora ti piaceranno i giardini del Quirinale.» dice Diego.

Dalla mia ultima visita scolastica il Quirinale ha subito un notevole restyling.
Non hanno badato a spese: al posto della porta, a demarcare il confine fra il suolo pubblico e la reggia dei presidenti della Repubblica c’è un carro armato. Sopra di esso vedo un’altra Vanga.
«Gemellini, fatto buon viaggio?» dice la sentinella.
«Puoi dirlo forte! Abbiamo un nuovo compagno d’armi.» risponde Ale.
Ci arrampichiamo sul mezzo militare. Dev’essere fermo da un bel po’. I cingoli hanno sfranto i sampietrini e la sua mole nasconde il vero ingresso alla tenuta. È un mezzo Ariete con lo stemma della bandiera italiana vicino alla scritta spray “Neanche sapete perché morite”. All’interno del parco lo scempio raggiunge il sublime. I quattro ettari di giardino sono un vago ricordo. Dove era stato possibile scavare ci sono trincee degne della linea Maginot. Il prato, un tempo curato, è stato stritolato in nome della difesa di un simbolo di potere oramai decaduto. La fontana delle Bagnanti è stata retrocessa a orinatoio, le ampie aiuole hanno ripreso a crescere senza la supervisione dei giardinieri formando guglie frastagliate da art déco. Disseminate nell’area lo sguardo spazia su rifiuti, armi e rottami dalla dubbia provenienza. Sorpasso un forno per la pizza con al suo interno una parte umana indefinita.
E poi le mosche. Si sollevano a nugoli quando passiamo vicino a cumuli di terriccio troppo poco spessi per nascondere il tanfo di morte. Se prima era la casa di tutti gli italiani adesso è un necrologio a cielo aperto.
Alameda adora l’arte. Altrimenti il distacco tra Vietnam esterno e pulizia degli interni sarebbe difficile da spiegare. L’eco delle nostre suole si diffonde in un ambiente anacronistico rispetto alla violenza di questi mesi. Dove sono i cadaveri? Dov’è l’odore di marcio? Respiro a pieni polmoni e sento il profumo lindo e pacato dell’ordine. I tappeti, gli arazzi e persino i quadri sono al loro posto. Melody è immobile. Le do una schicchera sul legno per farla riprendere.
«Sei rimasto a bocca aperta Flavio?» dice Ale sghignazzando.
«Spalancata.» Superato uno scalone con un tappeto centrale bordeaux che sembra farmi la linguaccia, il magnifico duo mi conduce attraverso un ampio corridoio con portefinestre dalle dimensioni gargantuesche. Le voci arrivano in lievi sussurri dall’interno del Salone dei Corazzieri.
Alameda è megalomane. Altrimenti perché scegliere la sala delle cerimonie di Stato come luogo di ritrovo?
Oddio quanti siamo! Un battaglione di vanghe allineate alla rinfusa in un’area di almeno 300 metri quadrati. Siamo 50? 100? Dal brusio di sottofondo avrei scommesso fossimo di meno. Parlottano pudicamente e il nostro ingresso non desta interesse.
«Tu resta qua in disparte. Ti andiamo a prendere la fascetta.» sussurra Diego.
Ci sono tre tappeti scarlatti ramificati come i percorsi dei ciechi indirizzati nelle varie direzioni. Uno però è stato messo di proposito rivolto a un palchetto in velluto rosso con sopra un megafono. La spessa porta in legno alle spalle del palco si apre ed emerge una Vanga. Le altre, alla sua vista, iniziano a puntare e vibrare, come chiodi attratti da un magnete, in direzione dell’oratore con in aria il megafono.
Tutte tranne Melody.
«ALLUNGA LA MANO.» urla l’oratore.
«E TOCCA LA FEDE!» risponde la platea, issando ognuno verso l’alto il proprio strumento di morte. Un suono gutturale di incitamento accompagna lo scandire ritmico del sollevamento delle pale. Sono asincroni nei movimenti e hanno un fervore pari a un corpo di kamikaze.
«Con oggi fanno ventuno giorni dall’inizio del mio digiuno. Pesavo 120 chili e quando pisciavo non mi vedevo il cazzo. Adesso mi nutro della paura degli scarafaggi e riesco a correre senza sentire la fatica o la stanchezza. Ero destinato a morire d’infarto ma ora è diverso, le debolezze sono un vago ricordo,» l’oratore trae un profondo respiro senza staccare il megafono dalle labbra e poi sussurra «Perché adesso abbiamo qualcuno che si prende cura di noooi.»
«IL NOSTRO DIO PERSONALE.» urla la platea.
Il tamburellare delle vanghe in aria attira la mia attenzione sul soffitto ricoperto d’oro. Stiamo facendo il percorso inverso, da età dell’oro nei cieli a età del ferro imbracciata sulla Terra.
«Eletti, oggi dovremo rinunciare alle nostre solite discussioni. Ho trovato un covo.» dice l’oratore.
«Andiamo a stanarli, andiamo a schiacciarli. UH HA UH HA» il canto di guerra riempie le sale del Quirinale e si eleva a minaccia di strage mentre la platea si sparpaglia correndo alle uscite.
Almeno i cori gospel me li hanno risparmiati.
«Flavio, Flavio sei qui?» dice una voce maschile sconosciuta.
«Sei il distributore di fascette?»
«Puoi chiamarmi così mi occupo dei feriti e di istruire i nuovi arrivati. Mi chiamo Valerio.»
Ha una voce stranamente dolce rispetto al contesto: «Allora istruiscimi dottore.»
«Solo laureando e temo lo resterò a vita vista l’assenza dei relatori.»
«Tutti morti?»
«Vieni, ti dico per strada.»
Valerio parla per dieci minuti buoni. Ricontrollo la sua vanga per essere certo sia uno di noi. Nessun aneddoto su un linciaggio o amputazione, anzi sembra proprio il ragazzo modello adorato dalla suocera. Afferma cose interessanti, sembrerebbe una rivolta nata dal basso. Portantini uccidevano medici, bidelli insegnanti, etc. etc.
«Ne sei certo?» chiedo.
«Ho raccolto diverse testimonianze di eletti passati per il nostro gruppo.»
«Ci sono altri gruppi?»
«Ce ne sono in tutto il mondo.»
«Organizzati come questo?»
«Su Roma sicuramente.»
Valerio si ferma di colpo per il passaggio di una camionetta dell’esercito e gli finisco addosso. La sua reazione è alquanto eccessiva: mi spinge con entrambe le braccia lontano da lui, imprecando.
«Flavio, non toccarmi!»
«Ok, siamo suscettibili.» lo canzono.
«Parli sul serio? Da quanto sei da solo?»
«Da sempre.»
«Cazzo. Va bene senti, mai toccare uno di noi. Le vanghe impazziscono.»
«Melody è rimasta al suo posto e pure la tua.»
Vedo la vanga di Valerio ferma. «Già, è strano.» mormora. «Ci penserò dopo. Ora stiamo per assaltare gli scarafaggi. Tu resta nelle retrovie con me e goditi lo spettacolo, siamo intesi?»
«Ricevuto dottore.» mi metto sull’attenti e poi sbuffo per il gesto inutile.

Il rifugio è il McDonald’s di Fontana di Trevi. Tanto valeva si rifugiassero al Quirinetta, almeno ci sarebbe scappato un buon musical horror.
«Dev’esserci ancora elettricità per alimentare i frigoriferi. E i frigoriferi alimentano gli scarafaggi.» dice Valerio.
Alimentano anche noi, ma sorvolo sull’ovvietà. Dei cento al Quirinale ne vedo solo una ventina assembrati lungo il perimetro dell’edificio, in attesa. Piccioni atterrano sulla terrazza dell’edificio. «Dove ci sono piccioni, c’è cibo.» dico.
«Sopravvivranno a noi quei topi con le ali.» dice Valerio.
Rido: «Non erano i gabbiani?»
«Adesso vuoi troppo. Sono medico, mica veterinario.»
«Chiudete la bocca laggiù, buttiamo l’amo.» intima l’ennesimo uomo sconosciuto.
«Amo?» dico.
«Vedrai.» dice Valerio.
Di tutte le azioni in grado di stupirmi, la più inaspettata era vedere. Eppure è proprio quello che accade. Appare un uomo. È molto alto e indossa un cappotto logoro. Passa incolume vicino a molti Eletti prima del suo ingresso nell’ex fast food americano.
Melody inizia a puntare e vibrare.
«Che gli prende alla tua vanga? Non è il momento della comunione.» sussurra Valerio.
«Secondo te sono io a dirle cosa fare?»
Evito di impalarlo sul lampione della luce perché oggi…
Merda.
«Valerio vattene è la foga.» farfuglio.
«Eh?»
Sono già lontano, mi scapicollo per colmare la distanza tra me e la carneficina. I muscoli si contraggono e rilassano, la lingua lecca le labbra in cerca di sudore e io sono dentro il Mc con un salto.
Tecniche di accerchiamento? Tutte stronzate. Colpire e colpire duro.
Effetto sorpresa.
Faccio lo slalom tra i pannelli crollati lungo i corridoi bui con i battiti del cuore a pulsare adrenalina nelle vene. La mente inizia un’azione di multitasking per escogitare vari modi di stanare la feccia macchiata dal più atroce dei delitti: respirare. Giro l’angolo e impatto con un corpo. Finiamo entrambi a terra. Io sono già in piedi mentre sento il derelitto lamentarsi e toccarsi il bacino. È un vecchio di colore incartapecorito.
Kinder sorpresa.
Apro il mio bell’ovetto per avere il suo dentro, gli pianto Melody nella dentiera e stabilisco il nuovo record di estensione di arcata gengivale, faccio leva sul mento e sento il crack dell’osso cranico abbandonare la spina dorsale.
È già morto e neanche l’ombra di cioccolato bianco, solo tantissimo sangue. Me ne serve uno giovane per divertirmi.
Intingo le mani nella pozza scura e inizio a pittare le mura di emoglobina riprendendo la corsa. È il mio filo di Arianna liquido a salvaguardare il percorso cosicché io possa perdermi nella frenesia.
Entro nei bagni. Bingo. La porta sbatte facendo entrare la poca luce del giorno e svela un tesoro senza pari: donna e bambino accovacciati sotto un lavandino.
Il volto della donna è un ritratto di rassegnazione. È colta da tremori e le labbra si serrano all’ingiù pronte alla fine. «Ti prego lui no. Lascia mio figlio, salvalo, lascialo andare.» Il pianto rovina il momento e le parole diventano confuse. Tira su con il naso e guarda nella mia direzione «Ti prometto non scapperò.»
Scoppio a ridere. Scappare. È la barzelletta migliore mai sentita. Sono talmente felice da sfogarmi prima sui lavandini e sulle porte dei cessi, pur di sentire proferir stronzate da quella bocca da comica. Nel mio atto vandalico prendo troppo slancio e Melody si conficca nell’anta di legno. L’acqua fuoriesce all’impazzata dai tubi.
«Dai Melody, collabora poi ti faccio divertire.» Poggio un piede sullo stipite e strattono. Si disincastra finendo alle mie spalle e mandando in frantumi un vetro.
Riabbasso lo sguardo e c’è solo la donna. Applaudo. «I miei complimenti mamma-coraggio. Però se la smetteste di fare di testa vostra, potreste vedere dall’altra parte una persona seria e rispettosa degli impegni presi.»
Vagava con la testa cercando di immaginare una faccia dietro le mie parole; le sferro un calcio sotto la mandibola e sbatte la nuca sulle piastrelle. «Perché hai fatto scappare il moccioso? L’avrei risparmiato, avrei…»
Oh no! È svenuta.
«No, no, no dai mamma-coraggio, riprenditi. Dimmi un’altra barzelletta. Fammi sbellicare.» La scuoto per le spalle, nessuna reazione. Ho perso il mio tesoro. Melody struscia alla fine del braccio e le tocca l’addome. Ragiona, lei è la mappa! E ogni mappa ha una X, il punto in cui scavare. Sollevo il maglioncino e le espongo l’ombelico.
«Ta-dan. La X.» Sto per baciarla ma un reflusso acido mi fa desistere e sputo tutto nel cesso. Con tutta l’acqua a bagnarmi le caviglie su questo atollo di ceramiche mi sento come Jim Hawkins alla scoperta del tesoro. Lui ci ha messo mesi, io impiegherò secondi. A riprova di ciò lacero il punto X scavando a fondo e meraviglia delle meraviglie trovo il mio filone di gemme preziose racchiuse nel tratto intestinale. Purtroppo Melody non porta trofei su di sé, resta sempre asciutta e pulita, allora la faccio tuffare per farla divertire e lei si impiglia squarciando tubi e sguazzando in un brodo di sangue ed escrementi.
Esco dal bagno carico di aspettative e vengo ripagato. Il marmocchio è lì, paralizzato. Mi acquatto al suo livello e urlo: «Una sola cosa dovevi fare. UNA SOLA!» Prende a strillare in falsetto così gli tappo la bocca e lo sollevo. «Mai sentito parlare di evoluzione? Di Darwin? Poco male a breve potresti incontrarlo. Ora chiudi gli occhi, mammina è impresentabile e noi vogliamo tu sia sereno, vero Melody?»
Conduco il moccioso nel cesso: «Stai piangendo troppo, poi ti disidrati. Ecco, bevi.» gli infilo la testa nel water. Mi giro verso mamma-sventrata: «Sto rispettando i patti.»
Melody è posta sopra il bambino. Si ruota di 180 gradi e la parte concava della sua testa metallica aderisce e preme sulla piccola nuca. Il marmocchio scalcia e sbatte le ginocchia nel tentativo di liberarsi. Lo sento prendere boccate di ossigeno e l’esecuzione si protrae portandomi a noia.
Mi allungo e bagno nuovamente le dita nel gruppo sanguigno della morta per avere dell’inchiostro con cui giocare a filetto sulle mattonelle:

X in basso a sinistra – O al centro – X in alto a destra – O in basso a destra – X in alto a sinistra e vinco!

Un trambusto improvviso mi fa rinsavire. È arrivata la cavalleria? Esco dall’acquitrino mortuario e vedo due pale inseguire un gruppetto di persone. L’euforia mi sta abbandonando e salto la giostra, però resto ad assistere.
Tre uomini si barricano formando un bunker con i tavolini e l’angolo del corridoio. Li do per spacciati ma da un’apertura del fortino sbuca la canna di una pistola. Prima ancora di sentire gli spari Melody mi porta giù, sbatto sul pavimento e mi rompo il naso quando i rimbombi d’arma da fuoco invadono il corridoio; fiotti di sangue mi imbrattano la mano intenta a tamponare l’emorragia. Agli altri è andata peggio: entrambi colpiti.
In quel momento sento per la prima volta le grida inumane.
Provengono dalle Pale.
Sono atroci. Mi tappo le orecchie, vorrei strapparmi i timpani per far smettere il tormento. Inghiotto sangue e vivo la disperazione in ogni sussulto e spasmo delle armi. I manici si contorcono assumendo la forma di dita artritiche e il ferro della lama regredisce avvizzendo a uno stato catramoso gonfio di bolle; le sento crescermi dentro come pustole e mozzarmi il respiro.
La vista prende ad annebbiarsi tingendo il mondo a tinte fosche, mentre le forze mi abbandonano ruzzolo sul pavimento rientrando in bagno. Finisco abbracciato a mamma-coraggio, lei con gli occhi aperti io con gli occhi chiusi.

Copertina di William Bersani

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