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Notte

Aprì gli occhi con la sensazione di aver lottato contro un brutto sogno. Guardò l’orologio: le tre. Lorenzo, disteso al suo fianco, sembrava profondamente addormentato. Milena si alzò e, prima di andare in bagno, sbirciò da sotto la persiana la strada deserta, rischiarata dalle luci giallastre dei lampioni. Nei condomini e nelle case attorno nessuna finestra era illuminata. Pensò che il tempo stesse per cambiare perché il ritaglio di cielo che vedeva era nero, profondo come il silenzio della notte.

Di ritorno dal bagno si infilò sotto le lenzuola, ma prima di rimettersi a dormire cercò la mano del marito, sfiorandola in un usuale gesto di affetto. Era fredda.
“Lorenzo…” chiamò. Accese la lampada sul comodino. Il volto livido di Lorenzo, dalla pelle lucida come cera, sembrava una maschera, con gli occhi incassati nelle orbite e le guance affossate sotto gli zigomi. Balbettò il nome del marito, incredula che fosse volato distante, abbandonando quel bozzolo vuoto. Controllò allora il polso, e come un pugno le scoppiò un dolore in petto che le tolse il respiro. Piovendo sulla maglietta bianca di Lorenzo, dagli occhi traboccarono le lacrime, e la loro camera diventò liquida. Poi i singhiozzi risuonarono nella quiete notturna finché rabbrividì esausta, come se il calore del suo corpo si fosse disperso.
Sfiorarsi le labbra sussurrando “Bacionotte, amore” e prendersi per mano: ripensò al loro rituale della buonanotte, carico del nuovo significato di ultimo saluto. Si sentiva svuotata. Accarezzando il volto freddo del marito, si vergognò di pensare che Lorenzo l’aveva abbandonata, condannata a una solitudine dove non l’avrebbe più protetta, sostenuta, abbracciata… Doveva avvisare Riccardo.
Il figlio combatteva ogni telefonata di Milena trincerandosi dietro frasi scarne dal tono ruvido. Ora però doveva svegliarlo, anche se c’era una guerra in corso che Milena aveva motivato di volta in volta con l’età, il desiderio di indipendenza, il carattere, il comportamento maschile, e che la portavano a oscillare tra la l’amarezza, la preoccupazione e i propositi d’indifferenza.
Che il cellulare non avesse campo era strano. Provò senza successo con il telefono del marito che si stava caricando alla presa del comodino. Accese il computer, sapendo che il figlio usava Skype, ma non c’era il collegamento Internet. La televisione mandava in onda su tutti i canali un brulichio di punti neri e bianchi. Con l’inutile telecomando in mano, guardò fuori dalla finestra, ma lo scorcio di mondo che aveva visto prima era immutato. Stava sognando?
Decise di uscire dall’appartamento per chiedere aiuto a un vicino che si alzava molto presto per andare a lavorare. Non rispondeva nessuno, così provò con gli altri campanelli, ma tutti gli appartamenti rimasero muti. Rientrata in casa, controllò di nuovo i cellulari, il computer e il televisore, ma niente era cambiato. Anche il marito era nella stessa posizione, non era accaduto nessun miracolo. Andò in bagno a sciacquarsi la faccia. ‟Sto sognando?” chiese al volto che la osservava dallo specchio.
Decise che l’incertezza era più accettabile della penosa certezza della morte. Si infilò dei sandali leggeri e uscì di casa. Dalla stradina laterale dove abitavano si immise nella via più grande. Le saracinesche del bar erano abbassate e, più in là, sotto il portico di un condomino giallo, erano chiusi il negozio di informatica, il giornalaio e il meccanico di biciclette. Non c’era nessuna finestra illuminata nei condomini, solo i lampioni dai vetri rosati della strada erano accesi. Le sembrava di trovarsi in un set cinematografico, tutto pareva finto, come se oltre le facciate degli edifici non ci fosse altro. Alzò gli occhi al cielo, una lavagna nera e piatta, che a fissarla assumeva la profondità di un baratro infinito.
“C’è qualcuno?” La sua voce risuonò nel vuoto. Si sentì stupida a gridare di notte per strada. Suonò dei campanelli, che squillarono senza risposta negli appartamenti, così attraversò la strada per provare in altri condomini, ma nessuno protestò per il fastidio.
Sentì un rombo di motori. Si avvicinava dal viale che come un anello racchiudeva la città, costeggiando le antiche mura. Avrebbe voluto precipitarsi verso il semaforo lampeggiante all’incrocio con il viale per chiedere aiuto, ma esitò. Rimbombando sguaiato, il frastuono si faceva più aggressivo, come se potenti auto la braccassero per investirla. Corse a casa.
Tre grossi pick-up malconci frenarono sgommando in mezzo alla strada, di fronte all’incrocio con la sua via. Con un fracasso di portiere, scesero degli esseri neri, dal cranio deforme e dal rozzo corpo nodoso, quasi che le carni lottassero sotto la pelle di cuoio. Ringhiandosi contro in una lingua tutta grugniti, latrati e grida, si spintonavano, esibendo le fauci scure dove risaltavano zanne aguzze. Nascosta dietro la tenda del soggiorno, Milena, incredula e atterrita, spiava quella che le sembrava una ripugnante carnevalata.
Erano nudi. Uno si mise a pisciare in mezzo alla strada, negli artigli teneva un lungo pene da cavallo, sopra un grosso scroto. Quando ebbe finito, chiamò a raccolta gli altri. Si diressero verso il portone di un condominio che sfondarono, infilandosi alla rinfusa su per le scale. Dalle finestre rimaste aperte per la calura, uscivano il trambusto di oggetti fracassati e gli schiamazzi rabbiosi dei mostri, finché non ne apparve uno con sottobraccio un uomo e una donna, le braccia e le gambe penzoloni. Arrivato vicino al cassone di un pick-up, sollevò i corpi per scaraventarli dentro. E già la processione delle altre creature usciva dall’edificio trasportando corpi di uomini e donne, vecchi e bambini, che finivano nei cassoni.
Riparandosi dietro le tende, Milena scrutò la scena, sforzandosi di trovare un senso a quello che succedeva. Riconobbe una donna che giaceva in cima a una montagna di corpi: “Domani partiamo per le vacanze. Non vedo l’ora” le aveva detto il giorno prima dal giornalaio. In un altro cassone c’era un bambino dai capelli scuri che, le aveva confidato il padre, aveva dei problemi a scuola. Poi sconosciuti, e altri che aveva incrociato dal fruttivendolo o al supermercato di quartiere.
I cassoni traboccavano di corpi. Un mostro uscì dal portone trasportando sulla spalla una donna grassa che scaraventò sul cofano di un pick-up. La penetrò con ferocia, dopo averle stracciato il pigiama; la carne flaccida dei seni e del ventre sbatteva al ritmo delle spinte. Con il pene turgido, come se aspettasse il suo turno, un’altra bestia si fermò a guardare.
Milena abbassò lo sguardo. Quando lo rialzò i mostri erano ancora attorno alla donna, e mentre uno la penetrava, un altro affondò gli artigli in un seno strappandolo dal petto. Poi addentò il pezzo di carne che gli gocciolava sangue sul mento e sul petto, come una spugna intrisa di liquido. Altri si gettarono sulle cosce e gli avambracci adiposi, scarnendo la polpa dei muscoli. Uno si mise a scavare il ventre, ne estrasse il fegato sanguinolento e, ringhiando, se lo contese con un altro.
Impietrita, Milena guardava quel pasto osceno finché, con un grugnito all’apice del piacere, lo stupratore si fermò. Solo allora si rifugiò in camera da letto per sedersi accanto al marito. Sentì il rombo dei pick-up che si allontanavano, poi il silenzio. Pensò a Riccardo. Quanto avrebbe desiderato abbracciare il figlio! Si disse che almeno era al sicuro da quell’orrore.

Dopo aver salutato Lorenzo con un bacio sulle labbra, uscì di nuovo in strada, dirigendosi verso il portone fracassato di un condominio; sperava che le bestie non ci sarebbero ritornate. Un tanfo di marcio, venato dal puzzo degli scarichi dei pick-up, le fece arricciare il naso. Entrò in un appartamento attraverso la porta sfasciata. Dove non erano passati i mostri vide riposare nella penombra una fruttiera sul tavolo di vetro della cucina, e dei cuscini con ghirigori trapuntati sul divano in soggiorno. Ma in due camere da letto le porte erano divelte, i letti rovesciati, le lenzuola e i cuscini sparpagliati sui mobili o sul pavimento.
Stava per uscire dall’appartamento quando udì lo scricchiolio quasi impercettibile della ringhiera delle scale. Passi leggeri scendevano con circospezione dal piano superiore. Trattenne il respiro. Lo scalpiccio si fermò. Milena si mosse con la lentezza di un palombaro schiacciato dalla pressione dell’acqua, ma bastò un fruscio perché i passi fuggissero verso l’alto. Uscì dall’appartamento e le sembrò di vedere il guizzo di un’ombra che saliva le scale e scompariva nel buio.
“Ehi, fermati” disse sottovoce. Fece qualche scalino aggrappata al corrimano, ficcando lo sguardo nel buio. “Chi sei?” disse a voce più alta, dimenticando ogni prudenza. Nessuna risposta. Accese la luce delle scale, sbattendo le palpebre abituate alla semioscurità, anche se all’istante si rese conto di quanto fosse pericoloso. Nessuno. L’interruttore scattò e le scale ritornarono nel buio.
Sentì il rombo lontano di motori che si avvicinavano, la breve tregua dall’orrore era terminata. Si rannicchiò nell’armadio della camera da letto matrimoniale, intatta per miracolo, ripetendosi: ‟Speriamo che finisca presto… che finisca presto… presto”.
Le urla dei mostri si attenuarono, rimanendo come sospese, e un profumo di rose entrò dalle finestre spalancate. Si trovò ad aspirare profondamente la dolce fragranza che, come una bevanda calda d’inverno, le calmò i pensieri e rilassò i muscoli. Uscì dal nascondiglio. L’appartamento le sembrò così familiare. Prese in mano una cornice di metallo cesellato e sfiorò il vetro che proteggeva la foto di una donna con un bambino in braccio. Sorrise al sorriso del bambino rivedendo Riccardo da piccolo. Le dita ricordavano le guance sode dalla pelle liscia, le braccia velate da una soffice peluria, la perenne ruvida crosta di sangue essiccato sulle ginocchia. È vero che ora era sempre lei che gli telefonava, ma suo figlio stava vivendo la sua vita, si sarebbe fatto una famiglia. E Lorenzo non c’era più, ma si era spento con tranquillità nel sonno. Lorenzo che le accarezzava la schiena sotto la camicia leggera quando andavano a ballare, facendole provare un tepore che le entrava dentro.
Si avvicinò alla finestra. Tre esseri luminosi e filiformi, dai lineamenti puri e dalle lunghe vesti candide, fluttuando a mezz’aria si erano avvicinati ai pick-up delle nere creature. Queste sembravano rimpicciolite, e si ammassavano a distanza, incapaci di reagire. Un essere luminoso indicò dei corpi in un cassone, che con gli altri due sollevò quasi fossero senza peso. Erano due donne e un uomo anziano che Milena conosceva, persone gentili con cui aveva scambiato qualche parola al bar, l’uomo le aveva offerto un caffè. I mostri fremevano, trattenendosi a stento. Milena osservava incantata le figure splendenti, respirando a fondo il profumo che stava svanendo.
Una mano esile le strinse la mano. Vide al suo fianco una ragazzina con dei lunghi capelli color miele e un pigiama rosa a pupazzetti blu. Si sorrisero.
“Sono angeli” mormorò la ragazzina.
“Vieni qui, tesoro” disse Milena, prendendola per le spalle minute. Rapite, guardarono allontanarsi gli esseri celesti.
Una sottile crepa di angoscia contrasse lo stomaco di Milena. Il profumo si era dissolto nell’aria non appena gli angeli erano scomparsi. Fissò accigliata la ragazzina, che ricambiò con uno sguardo confuso. Le creature infernali si rianimarono con sbuffi e grugniti, fino al consueto baccano di urla, ringhi, schiamazzi. Milena si accorse terrorizzata che dalla strada potevano vederle.
“Non ti muovere” sussurrò alla ragazzina. Spostò adagio la tenda per nascondere entrambe. Un mostro sembrò notare qualcosa, diffidente guardò attorno e verso le finestre dei condomini, ma poi si riunì al gruppo che entrava rumorosamente in un portone. Si accucciarono sul pavimento stringendosi assieme. Alla ragazzina battevano i denti, sembravano sassolini che rimbalzavano su una lastra di marmo. Milena la strinse più forte facendole appoggiare la testa sul suo petto e le accarezzò i capelli.
“Su, amore, non fare così…” le sussurrò in un orecchio mentre le scioglieva con gentilezza i pugni. Piano piano, il calore dei due corpi si fuse. Sembrava che le bestie avessero finito, si sentirono i pick-up allontanarsi strombazzando.
“Quelli erano gli angeli” ripeté la ragazzina mantenendo la testa appoggiata al petto di Milena.
“Certo, amore” disse Milena, ma si chiedeva perché avessero scelto proprio quelle persone. Davvero solo quei pochi erano destinati a… dove? Mentre tutti gli altri sarebbero sprofondati… all’inferno?
“Gli angeli ci porterebbero in paradiso con Dio” disse la ragazzina. “Ma ho paura che invece mi prendano i diavoli.”
Milena, la rassicurò: “Non puoi aver fatto nulla di male, sei solo una bambina”. Ma forse erano già all’inferno, pensò. L’abbracciò.
“La mamma e il papà…” raccontò la ragazzina, “non riuscivo a svegliarli, sembravano…” Si fermò, gli occhi le diventarono lucidi. “E anche mio fratello… poi ho sentito i… diavoli…” Scoppiò a piangere. Milena la strinse più forte. Avrebbe voluto piangere anche lei, ma doveva essere forte per quel piccolo corpo caldo.
“Tranquilla…” mormorò.
Udirono tonfi di passi che le fecero balzare in piedi terrorizzate. Il baccano nell’appartamento accanto veniva spezzato da ringhi furiosi. Inseguirono con lo sguardo ogni angolo della stanza alla ricerca di un rifugio. La ragazzina si ficcò sotto il letto, addossandosi al muro. Milena arrangiò le coperte fino al pavimento per camuffare meglio il nascondiglio, poi si strinse nell’armadio. Finirono di sistemarsi quando, grugnendo e ringhiando, la creatura infernale entrò nell’appartamento. Milena conficcò le unghie nei palmi per arginare il terrore. Mordendosi le labbra, si impose di respirare in silenzio, sbirciando dalla fessura tra le ante dell’armadio. Il mostro entrò nella stanza avvolto da un tanfo soffocante di carne in putrefazione, a fatica Milena riuscì a trattenere i conati di vomito. Il cuore le scalciava in petto con tanta potenza da farle credere che rimbombasse nella stanza. Vide oscillare l’orlo della coperta.
In un attimo, il letto fu scaraventato sulla parete, mostrando la ragazzina che cominciò a urlare, annaspando sul pavimento e scalciando contro gli artigli che riuscirono ad abbrancarla per una caviglia. Milena vide la ragazzina sollevata come fosse senza peso – i capelli che frustavano l’aria – e sbattuta contro la parete. Gridava terrorizzata, ma dal secondo schianto, quando la macchia di sangue si allargò sul muro, le urla si spensero in rantoli soffocati. Tutto avvenne così in fretta che Milena non ebbe il tempo di chiudere gli occhi. Cercava di bloccare i tremiti, ma sentiva che stava perdendo il controllo. Il mostro, continuando a stringere la caviglia della ragazzina, le puntò un piede sul costato e disarticolò la gamba dal bacino. Milena chiuse gli occhi e sentì gli schiocchi delle articolazioni che cedevano, seguiti da grugniti di soddisfazione e dal risucchio umido della carne strappata. Si era bagnata i pantaloni del pigiama e l’urina tiepida si stava raffreddando. La creatura masticava rumorosamente in una stonatura di strappi, risucchi e scricchiolii di ossa macinate. Uscì dalla stanza solo dopo aver scaraventato i resti della ragazzina dalla finestra.
Milena si rese conto dal baccano in strada che gli altri mostri erano ritornati. Tremava e piangeva, tappandosi la bocca per soffocare i singhiozzi. Sentì il corpo molle, l’energia che le scivolava via come sabbia dalle mani. Avvertì un formicolio alle dita, poi perse i sensi.

Rinvenne nel silenzio, addossata ai cappotti ispidi, il volto bagnato di lacrime e muco. Aprì lentamente gli occhi e vide la confusione dei mobili, delle pareti, del pavimento e del soffitto impiastricciati di sangue. Era stremata.
Attraversò la strada deserta per tornare a casa. Il condominio dove abitava non era ancora stato devastato; in camera, il marito la rassicurò con la sua immobile serenità. Si lavò e, dopo essersi cambiata, si infilò sotto le lenzuola stringendo la mano fredda e rigida di Lorenzo. Sul soffitto, l’ombra delle pale si allungava come un ragno. Che ore erano? Non si era vista la luce, il cielo era rimasto un’impenetrabile tavola nera.
Immagini, emozioni, ricordi e pensieri balenavano nella sua coscienza. Nel cassone di un pick-up ammassato di corpi inerti, un grosso orologio da uomo in acciaio aveva scintillato per un attimo alla luce dei lampioni. Si era infastidita durante il battibecco con il marito per una questione di soldi, secondo lui avevano speso troppo quando si erano concessi una vacanza alle terme. “Perché dobbiamo sempre ordinare del vino costoso?” A cena da loro, dopo un mese di sole telefonate, il figlio seguitava a controllare Facebook sullo smartphone, mentre lei e il marito soppesavano, con gran dispendio di parole, le sue opportunità di lavoro. Paradiso e inferno. Qual era il suo destino e quello di suo marito? Per quali peccati quella ragazzina era stata destinata all’inferno? Delle zanne, splendenti in contrasto con le labbra color cuoio, entravano nella pelle chiara di una donna arrossandosi di sangue. “Ho bisogno dei miei spazi” le aveva detto il figlio andandosene via di casa da un giorno all’altro. “Ma dove vai?” Smarrita, aveva cercato lo sguardo del marito, che aveva risposto: “Faccia quello che vuole”. A cosa era servito affannarsi, sacrificarsi, angosciarsi, addolorarsi, ora che tutto sarebbe finito?
Ritornavano. Sentì uno crampo allo stomaco, ma pensò che il dolore sarebbe stato breve, come per la ragazzina, il tempo di perdere conoscenza. Non aveva risolto di suicidarsi, le era mancato il coraggio. Il fracasso si fece più vicino, erano entrati nel condominio. Inspirò il profumo, ricordando la piccola mano della ragazzina che si infilava nella sua. I mostri infernali rovistavano ora negli appartamenti ai piani inferiori, avvicinandosi a quello direttamente sotto il suo. Il profumo di rose diventò più intenso. La invase una sensazione di benessere e di tranquillità, la mano di Lorenzo le sembrò calda e morbida. Si girò a guardarlo, il volto era quello di sempre, del marito addormentato, come le piaceva contemplarlo prima di addormentarsi anche lei, ricordando la giornata appena trascorsa. Nell’appartamento si scatenò un chiasso furibondo.
Sorrise ricordando il figlio preoccupato di lasciarsi andare sul lungo scivolo rosso dove scendevano i bambini più grandi. “Mamma… guardami, mamma…” Teneva stretto con le manine il bordo di ferro. “Mamma! Guardami…” Dalla porta entrarono due angeli che illuminarono la stanza di luce, le sembrò di percepirne il tepore sulla pelle. Fluttuarono verso il letto e la sollevarono. Stringeva forte la mano del marito, allora un angelo sollevò anche lui. Alzando il petto, Milena respirò il profumo che saturava la stanza. Chiuse gli occhi beata. Galleggiava nell’aria, il corpo leggero, la mente sgravata dalle preoccupazioni, unico legame rimasto con il mondo terreno la mano che stringeva la mano del marito, quella mano che l’aveva accarezzata quando facevano l’amore. Il fracasso si allontanò, diventò un brusio.

Che serenità! Si impregnò di amore come una pianta assetata. Si sentiva impalpabile, della materia delle nuvole, immersa nella luminosità soffusa che la circondava. Riappacificata con l’universo e con se stessa. L’amore pervadeva ogni sua fibra. Era felice, appagata. Guardò la sua mano stringere una mano che si prolungava in un braccio amputato. Sottili bisturi di luce azzurra avevano sezionato gli arti e il torso di Lorenzo. Gli esseri luminosi, raccolti sopra di loro, con gentilezza avevano fatto scomparire ogni brandello della sua carne nelle brillanti cavità delle loro bocche. Che gioia! Avrebbe gradito assaggiare quel cibo appetitoso.
Prendete, e mangiatene tutti. Questo è il mio Corpo offerto in sacrificio per voi. Ricordò che il giorno della sua Prima comunione il parroco aveva raccomandato ai bambini di non masticare l’ostia per non far male a Gesù. Dovevano scioglierla in bocca come una caramella.
Si riempì i polmoni del profumo di rose che saturava l’aria. Lame di luce azzurra stavano sezionando le sue gambe. Gocce di sangue rotolavano come rubini, assorbite dal piano luminoso dove poggiava. Gli angeli si divisero la sua carne, facendola svanire nelle amabili bocche. Che bello! Anche a lei sarebbe piaciuto assaggiarsi. Che sapore aveva la sua carne? Era una brava cuoca, il marito la elogiava di fronte agli ospiti quando invitavano gli amici a cena: “Cucina meglio di mia madre”. Avrebbe potuto preparare un bell’arrosto con la sua coscia. Le sue narici ricordarono il profumo di coniglio al forno con patate al rosmarino. Quando le incisero il ventre, zampillarono rivoli di sangue che, senza macchiare le vesti candide degli angeli, si polverizzano nell’atmosfera come cipria purpurea. Osservò con curiosità gli organi che le venivano asportati: il fegato sanguinante si dissolse tra le labbra trasparenti degli esseri paradisiaci.
Prendete, e mangiatene tutti. Questo è il mio Corpo offerto in sacrificio per voi.
Un bisturi di luce si avvicinò alla sua testa ed entrò nella fronte. Vide aprirsi un tunnel splendente dentro il quale spinse fiduciosa lo sguardo. Questo è Dio, pensò. L’immacolata luminosità cominciò ad attenuarsi, diventò una soffice penombra, poi scese l’oscurità della notte

Copertina: Circolo di Baccio Baldini (Firenze, 1436-1487), L’Inferno secondo Dante, da un affresco del Campo Santo di Pisa (dettaglio), circa 1460-80.
The Metropolitan Museum of Art, New York.

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Maurizio Donazzon
Sono nato a Treviso, nel 1961, e dal 2009 tengo corsi di Scrittura creativa presso l’Arci di Treviso, dove lavoro. Ho tenuto un Laboratorio sull’intervista da cui è tratto il volume Storie di vita migrante, Terra Ferma Edizioni, 2015, con dieci interviste di migranti.
Alcuni miei racconti sono stati pubblicati in antologie di concorsi letterari, altri sono presenti nelle riviste on-line WebSite Horror, Il Paradiso degli Orchi, Spazinclusi, Verde. Autore aggiunto presso Spazinclusi.

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