Copertina l'imperatore Capovolto Marco Simeoni

L’imperatore capovolto

Parcheggiati sul ciglio di una scarpata segreta con la scusa della notte di San Lorenzo. Un posto speciale, lontano dall’inquinamento luminoso di Roma, oltre il Raccordo, con le fronde aperte degli alberi a fare da cornice alla notte stellata.
È bastato questo.
Il camper è senza lingua. Tanto non avrebbe parlato comunque. È fedele al conducente.
Se qualcuno passasse di qui per caso, in cerca di un dirupo o di un diverso panorama, scorgerebbe la pancia del camper bella piena. Piena zeppa di famiglia. A differenza della balena di Pinocchio, però, il camper non ha uno sfiatatoio né uno sfintere ma solo porte e finestre chiuse, così la nostra prospettiva di futuro è una lenta digestione. Nostro padre, prima di diventare l’imperatore capovolto, era un amante del cinema; un regista mancato con il tic delle mani sovrapposte a mimare una videocamera e guardarci attraverso. Ora, in questa scena, noi formiamo una natura morta con al centro dell’inquadratura un materasso lacerato e un tavolinetto rovesciati che nascondono il peggio con le loro forme. Daniele prova a rimestarci dentro con il moncherino.
Gli latro contro: «Gli incubi vanno lasciati sbollire.»
È reale, è tutto reale; solo manca di profondità. La ripresa non cattura i colori, può soffermarsi sul piattino col cocomero invaso dalle formiche; sugli schizzi di vino rappresi sulle lenzuola bianche; sui grumi; sulla cerniera della sacca da carpentiere aperta in un ghigno metallico; sui coltelli zebrati di sangue; sulla tanica di varechina; sui cocci del water decorati da cuoio capelluto sparpagliati sul pavimento, senza che questo si ricolleghi alle nostre vite. Oggetti estranei a scavare nelle nostre viscere, a gettare fuori ciò che dovrebbe restare dentro. E noi lì, amorfi, ai limiti dell’inquadratura, a fissare l’addome dell’imperatore capovolto gonfiarsi e contrarsi nel suo coma innaturale.
Nostra madre è l’unica a mantenere una parvenza di normalità. Si è ritagliata il suo angoletto e scorre la rubrica del cellulare tentando di chiamare zia Felisia. Resto imbambolato a seguire l’indice spennellare sullo schermo.
«Non c’è campo» dice mamma.
Dice e ridice solo quello, come se il ripetersi della frase portasse a un’antenna o a una svolta. Vorrei rinfacciarle che se siamo giunti qui è proprio grazie alla sua paura di cambiare però mi trattengo, ha già il peso dell’amore a schiacciarla.
«Smettila di infastidire tuo padre, è stanco.»
Ho sbagliato. Mamma non è un disco rotto. Ha altre tracce nel suo repertorio. In una sgrida mio fratello Daniele, per esempio.
«Voglio solo vedere se respira» dice Daniele con la fronte solcata da rughe. Daniele con i suoi pantaloncini cachi presi al mercatino e le gambette da insetto stecco è troppo vicino al naso dell’imperatore, ai peli neri della barba che si ricoprono di muco e saliva a ogni suo ronfare «si sveglierà presto? Sembra spaventato.»
Daniele. Il più sensibile della famiglia, l’artista di casa dalla fronte larga che prendeva lezioni di piano; e ora le sue braccia terminano al polso e l’addome è una piscina a cielo aperto. Spero solo che a papà sia stata risparmiata la carneficina dell’imperatore: il trinciapollo è ai suoi piedi, alcune dita di mio fratello sono incastrate nei lacci degli anfibi, pronte ad aiutare se servisse un nuovo nodo.
Posso chiudere gli occhi. Giorno o notte. La strana luce al neon rimbalza sulle lamiere e ci attraversa come se fossimo scampoli di radiografie. Mi sono sbagliato anche sugli oggetti e la loro estraneità. Fuso con le molle del divano, sono un centauro – metà cadavere/metà IKEA – su un piedistallo. Getto uno sguardo in basso e le ombre del divano sono le mie nuove zampe e i miei nuovi zoccoli; fluido, in un’inconsistenza cerea, mi proietto verso il cucinino, dove la TV accesa illumina un mazzo di carte, le mie carte: «Daniele non riesco a muovermi, mi prenderesti i tarocchi?»
«Me li spieghi intanto che aspettiamo papà?»
Annuisco di riflesso e le molle del divano mi scarnificano la faccia. Il dolore, se potessi viverlo, forse sarebbe la giusta punizione.

*

Quant’è eccitante aspettare una stella cadente. Si vive l’attesa fingendo di scegliere fra tanti desideri quando il nostro vero sogno, sappiamo già qual è. E il mio era che anche papà credesse nei sogni. Volevo dargli un appiglio e le mie carte hanno contorni, personalità sepolte. Ho sollevato il suo fato dal mazzo dei tarocchi senza permesso, mentre lui entrava nel camper infuriato, urlando e acquattandosi come un gorilla in cerca di facili interruttori che ponessero fine al tutto.
iv. l’imperatore
Stringevo tra indice e pollice la carta che avrebbe dovuto guidare mio padre. È un bel tarocco, bastava mostrarglielo e ogni cosa sarebbe andata nel verso giusto. Continuai a stringerlo quando inarcò la schiena e sradicò dalla credenza la bombola del gas, facendola roteare come una falce.
Se porto una carta abbastanza vicina all’occhio, con l’altro posso vedere attraverso lo spioncino del mondo. E dopo il Mondo, nei tarocchi, c’è il Matto e dopo il Matto il mazzo finisce; invece c’era l’usurpatore e il suo reame di violenza.
ǝɹoʇɐɹǝdɯı,ן ˙ʌı
Avevo lasciato cadere la carta a terra.
E fu quella la versione che vide prima di renderci pezzetti del suo regno.

*

Il ricordo condiviso tormenta l’imperatore sottosopra: aggrotta le ciglia, serra gli occhi alla stregua di chi sta affrontando l’ultima battaglia; scalcia, smanaccia e continua a deturpare quanto ha già distrutto. Si appropria del mio senso di colpa.
Nostra madre accusa noi dei danni; vandali ci chiama. Intima il silenzio, esige l’ordine. “Tutto com’era prima” è il suo credo. Nostra madre è contro i divorzi e le gomme da masticare sotto i banchi, è contro gli scandali e i colpi di testa. Manca una carta dei tarocchi adatta a definirla. Lei è più natura, un giunco che si piega alla minima brezza. Non sarà un disco rotto però ha la testa sfondata come una parentesi graffa. Il cervello è colato come frappè impiastricciandole i capelli freschi di tinta per la serata speciale. Mentre si alza, abbandonando il suo rifugio protetto, mi scappa da ridere perché le ossa del cranio si scontrano e applaudono con fare polemico a ogni suo movimento strascicato. È capace di trovare ordine anche nel massacro. Davanti a lei rassetta, dietro di lei inquina, gocciola poltiglia cerebrale.
Dissenteria di pensiero.
Un po’ invidio la sua dedizione.
È passata la notte di San Lorenzo, mamma. Sono passate le sensazioni di caldo sulla pelle, delle sere d’estate, dei possibili inverni, dei sudori del sesso, di lauree e di nipotini. Almeno può star tranquilla che nessuno si suiciderà come zia Felisia.
Lo so. Da vittima non dovrei prendermela con un’altra vittima. Non dovrei provare astio per la bombola del gas che mi ha fatto prima volare come un Icaro e poi atterrare Arlecchino, frantumandomi la cassa toracica in mille coriandoli bianchi. Infesto un camper e lui mi contagia con le sensazioni di mia madre, di mio fratello in un rapporto promiscuo tra ospite e parassita. E sento i sapori, i non detto aleggiati per mesi in questa scatoletta metallica prima di depositarsi sul fondo. Dalla mia visuale ingabbiata non posso puntarlo, quindi il camper lo sorveglia per me. Papà dorme del sonno dei folli e noi non possiamo svegliarlo. Non possiamo toccarlo anche se lui ci ha massacrato più e più volte.
Ci ha impresso il marchio dell’imperatore.
Questo lo sa persino Daniele, peccato nei tarocchi sia la Temperanza e danzi nello stomaco del camper con gli intestini esposti e il ricordo delle mani amputate, facendosi scivolare addosso il rancore, scovando nuovi possibili giochi. Si attacca con la schiena allo stipite della porta tra gli sbafi di pennarello che indicano le nostre altezze. Io ero il gigante, lui il nano. E ora allo stronzetto basta concentrarsi e… plop! L’occhio sinistro si stappa dall’orbita e dondola sulla guancia, pronto a issarsi come un pirata sopra lo zigomo pesto, la fronte bordata di sangue rappreso supera la testa di mio fratello e il numero in arancione 168 cm. Riesce a crescere nella morte. Abbiamo un nuovo gigante. Sono così fiero di lui, forse troppo tardi capisco quanto si possa maturare dalla sofferenza. Quelli di fuori dovrebbero spaccare porte e finestre e andare oltre lo scempio, i conati di vomito, le mutilazioni, e soffermarsi sull’occhio di mio fratello che sale come la mano delle domande dei curiosi, che sfida il peso della tomba.
No no no cazzooo! Si fotta la Temperanza e la mia voglia di leggere i tarocchi al carnefice; io sono la Giustizia. Sono intriso della mia merda e ho perso la verginità con dei cuscini eppure mantengo una dignità. Sono qui per condannare e la sentenza è senza appello: il camper è complice, la città è complice. Roma, l’eterna, si è voltata dall’altra parte. Perché non ha concesso altre occasioni a un uomo che ha sbagliato in buona fede, prima di rinnegarla totalmente.

Un uggiolare sommesso e un fiato accelerato spezzano la stasi. Sembra sia il solo ad accorgermene.
«Jimbo che fai? Vieni via da lì o mi caschi di sotto. Ma cos… ehi tutto bene lì dentro?» qualcosa raspa, qualcuno bussa.
Già immagino lo smacco per l’imperatore: “Trovati da uno stupido cane intento a pisciare.”
Fantastico. Il padrone di Jimbo vomita sulle scalette dell’ingresso. Così ora non possiamo più apparire come la famigliola del Mulino Bianco. Chi ne soffrirà maggiormente sarà il camper. Lo so perché sono fuso con lui. Dagli specchietti retrovisori Jimbo si allontana di gran carriera incitato dal padrone. L’istinto animale avrà avvertito il cane. Il camper è onnivoro. Nella sua pancia oltre a ritagli di noi ci sono bollette e fatture e documenti del tribunale che occludono come tumori il suo tubo di scappamento e che hanno ingolfato i pensieri di nostro padre portandolo a credere che una come nostra madre arrivasse al divorzio. E’ questa la vera follia. Un demone che crede, una donna che non può cambiare.

Possiamo chiudere gli occhi ma non le orecchie. Le sirene destano nostra madre mandandola nel panico. «Venite qui, stiamo vicini.» sono i soccorsi ma c’è ben poco da salvare. «Supereremo anche questa. Siamo una famiglia.» Abbraccia l’imperatore capovolto come un lenzuolo. Lei sa. Spera di nasconderlo ma lui respira e deve pagare per questo. Daniele fa sbocciare budella dall’ombelico e le avvolge alla porta come fossero chiavistelli.
Io non esisto.
Altrimenti darebbero credito alla mia sentenza anziché disfare l’ultima scena. Il camper non capisce cosa stia accadendo però ha paura dei lampeggianti, dei fari e dei clacson. Ha bisogno di certezze, di passaggi di proprietà. Di silenzio. Il camper non sa contare però capisce quanto 72 rate siano molte di più delle sue ruote. L’imperatore capovolto ha sempre indossato una corona di latta e presto il suo regno sarà circondato da sbarre. Noi finiremo dentro i sacchi, il camper resterà a digiuno.
Io non esisto, il freno a mano non esiste.
Le assi del camper iniziano a cedere. Accetta la vecchiaia come noi accettiamo la decomposizione.
Sussurro al camper, a papà, al demone che lo possiede: «Su una cosa ha ragione mamma. I lutti uniscono le famiglie, se resti, ti porteranno via, di che altro hai bisogno?»
A quanto pare nulla. La nostra bara su gomme spancia, cede alla pendenza e cede l’imperatore. Crolla supino durante l’ultimo viaggio verso il burrone. Le urla dei soccorritori in lontananza sono un fastidioso vociare rispetto al dolore che prorompe dalla gola dell’unico vivo, mentre il suo corpo viene schiacciato dal frigorifero, centrifugato dal continuo ribaltamento del camper che si schianta contro il terreno, ammaccandosi e polverizzandosi come le mie ossa. Il frastuono finale è l’atterraggio perfetto.
Ora siamo tutti fusi con l’anima del camper. Dalla poltiglia di ossa, organi e rottami emerge l’uomo che amiamo spoglio di corona e scettro.
Schiudo le labbra: «Bentornato, papà.»
Con occhi lacrimosi e una maschera di pentimento che gli si fa strada sulla faccia, si avvicina a me. Sta per dire qualcosa ma non voglio rovini il momento e gli strappo la lingua a morsi.

Copertina di Stella Passerini

Un pensiero su “L’imperatore capovolto

  1. Il tuo racconto mi è piaciuto molto. Riassume al meglio le caratteristiche delle tua scrittura: linguaggio figurato con immagini originali e coerenti al contesto (“sulla cerniera della sacca da carpentiere aperta in un ghigno metallico; sui coltelli zebrati di sangue”), situazioni weird con personificazione di oggetti (“Il camper è senza lingua.”) e punto di vista dei morti assassinati.

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