Copertina del racconto La Spiaggia

La spiaggia

Sbucarono finalmente sul ciglio della scogliera. Il mare scintillava sotto il sole, l’acqua trasparente si tingeva di un azzurro che all’orizzonte diventava il cielo, punteggiato da gabbiani bianchi che volteggiavano lanciando grida lamentose. In basso, cinta da ispide pareti rocciose, una piccola insenatura di sabbia immacolata era chiusa all’estremità più lontana da uno spuntone della scogliera che incombeva sulla spiaggia, gettando un’ombra scura fin quasi al mare.
“È questa!” disse Claudio indicando lo spuntone di roccia. “Allora vi piace? Non è stupenda?” Volse lo sguardo ai due bambini imbronciati e a Valeria che trasportava le borse colme di vestiti di ricambio e giocattoli. Manuele e Dario mugugnarono per nulla impressionati. Presero a destra il sentiero abbandonato che scendeva alla caletta, graffiandosi i piedi sulle rocce appuntite.
“Quanto tempo è passato.” Si guardò attorno per sovrapporre quello che vedeva all’immagine sbiadita che aveva custodito nella memoria per molti anni, avido nel far combaciare ogni dettaglio. Era stato un’unica volta in quella spiaggia nascosta, scoperta per caso dal padre. Ci erano andati assieme alla madre, il giorno prima che lei scomparisse. La splendida vacanza e la sua famiglia erano state annientate, della madre non si era saputo più nulla.
Valeria gli sorrise, come per gratificarlo, poi appoggiò le borse sulla sabbia.
“Manuele! Dario! Aspettate. Rimanete vicini finché non ci sistemiamo” avvertì la madre. Iniziò il rito della spiaggia. Claudio piantò l’ombrellone e stese all’ombra il telo dei bambini con l’immagine di due cuccioli. Magliette e pareo vennero appesi ai tiranti sotto l’ombrellone. Dalle borse emersero i giocattoli, le creme solari, una rivista femminile e il tascabile Gli uccelli e altri racconti, che vennero sparsi sopra i cuccioli.
“Volete un succo?” chiese Valeria ai bambini, rimestando nella borsa frigo al riparo dal sole.
“Sì, sì” cinguettarono all’unisono Manuele e Dario. E mentre succhiavano dalle cannucce il succo all’albicocca, la madre preparò due pesche già lavate su dei tovagliolini di carta. Claudio ne agguantò una che mangiò aspirando rumorosamente.
“Quelle sono per i bambini” protestò Valeria. Ne scelse un’altra che mise accanto alla prima. “Prendi un tovagliolo” disse, vedendo il marito sbrodolarsi il petto con il sugo della pesca.
“Non serve” rispose lui. Quando ebbe finito, gettò il nocciolo sulla sabbia. La moglie lo raccolse con due dita per gettarlo nel sacchetto della spazzatura che aveva preparato. Poi Claudio andò a sciacquarsi in mare, ritornando con il viso e il petto gocciolanti.
“L’acqua è caldissima” commentò entusiasta. Si fermò a osservare lo spuntone a forma di becco di rapace. Aveva otto anni e i violenti litigi tra i genitori continuavano a ripetersi, anche durante la stupenda vacanza che il padre gli aveva promesso. Gli risuonarono nella memoria i colpi secchi delle stoviglie gettate sul tavolo della cucina e le porte sbattute da far tremare i vetri delle finestre. Ne aveva avuto abbastanza di sentire quei rumori, basta, si ripeteva disteso nel letto della camera, basta. Finché quella sera il suo desiderio si avverò. Si stupì del silenzio, ma decise che era meglio non fare nulla, perché i rumori sarebbero potuti ricominciare. Aveva chiuso gli occhi e si era addormentato. Quando la mattina dopo li aveva riaperti, sua madre era sparita. Con il padre l’avevano cercata, urlandone il nome. Si era dato la colpa dell’accaduto, non aveva infatti desiderato che i rumori cessassero per sempre? Quella ne era la conseguenza. In seguito ci furono i carabinieri, gli interrogatori, la speranza, i sospetti, e il tempo che procedeva senza risposte. Negli anni aveva sviscerato ogni teoria che potesse spiegare la scomparsa: incidente, fuga, suicidio, omicidio. Aveva anche sospettato che suo padre potesse aver ucciso la madre durante l’ultima lite.
Quando Valeria terminò di spalmare i bambini di crema protettiva, Dario prese la paletta e il secchiello rossi e si mise a fare un buco nella sabbia vicino all’ombrellone, mentre Manuele si diresse verso il bagnasciuga.
“Non entrare in acqua, hai appena mangiato” lo avvertì Valeria, ma il bambino entrò con i piedi a esplorare le onde. “Vieni a giocare con tuo fratello…”
“Non vedi che può arrivare solo fino a lì” intervenne Claudio accennando alla parete della scogliera che delimitava la spiaggia proprio accanto all’ombra gettata dallo spuntone di roccia. “Qui è sicuro, non ci sono pericoli. Lascialo fare.”
“Maschi” disse Valeria sbuffando. Si alzò per andare a recuperare Manuele.
Poco dopo, vicino all’ombrellone, i fratelli erano già impegnati a modellare un elaborato borgo di sabbia provvisto di castello e muro di recinzione rinforzato da conchiglie bianche come ossa.
“Io e papà non ci siamo più ritornati” disse Claudio. Il padre era morto di tumore l’anno prima, fumava e beveva troppo, e non c’era più la moglie a rimproverarlo. Lo ricordava smagrito, la testa quasi rimpicciolita sulla candida superficie del cuscino d’ospedale, mentre negli occhi fluttuava uno sguardo stanco.
“Era troppo debole, ormai” commentò Valeria, spazzolandogli con delicatezza una mano incrostata di sabbia.
“Da bambino gli ho chiesto tante volte di portarmi, ma trovava sempre una scusa.”
“Dove è andato il gabbiano?” li interruppe Dario.
“Quale gabbiano?” chiese Claudio.
“Quello che stava lì” disse il bambino indicando la parte della spiaggia sotto lo spuntone di roccia. “È scomparso sotto la sabbia.”
“C’era un gabbiano fantasma…” cominciò il padre con voce cupa, “che spariva…”
“Dai, papà…” disse Dario.
“…che spariva e poi riappariva all’improvviso…” Con il dito punzecchiò il fianco di Dario che si contorceva dal solletico. “…per infilzare con il suo becco i bambini curiosi.”
“Basta, basta…” ansimava il figlio tra le risate.
“Posso andare in acqua?” chiese Manuele.
“Prendi le racchette, ci mettiamo a giocare sulla riva” propose Claudio ricevendo l’approvazione entusiasta del figlio.
Dario li seguì con il compito di recuperare la pallina, ma dopo un po’ si stufò. Si era allontanato alla ricerca del gabbiano scomparso sotto l’uncino di roccia, quando cacciò un urlo e si mise a zoppicare piangendo verso l’ombrellone. Scosso dai singhiozzi, non riusciva neppure a parlare per spiegare l’incidente. Quando la madre riuscì a calmarlo, mostrò ai genitori e al fratello curioso la ferita slabbrata e sanguinante sotto il piede. Valeria, tenendolo in braccio, chiese a Claudio di andare a riempire il secchiello con l’acqua di mare per lavare la ferita.
“Brucia! Mi fai male!” urlò Dario quando il padre gli versò l’acqua salata sul taglio. “Mi fai male! Basta!” Si divincolava, scalciava, piangeva, mentre la madre cercava di distrarlo raccomandandogli di fare il bambino coraggioso. Dalla ferita continuava a uscire il sangue che gocciolava sulla sabbia. Si erano dimenticati a casa i cerotti, si crucciò Valeria che pensava di aver organizzato i bagagli con scrupolo, così disse a Claudio di preparare una compressa con dei fazzolettini di carta.
“Voglio andare a casa” si lamentava Dario, piagnucolando.
“Tra poco passa tutto” disse il padre.
“Sarà stata una roccia sotto la sabbia?” ipotizzò Valeria.
“Nooo” disse Claudio, “è stato un granchietto che ha visto un piedino morbido morbido e gli è venuta l’acquolina in bocca, allora…” Il padre fece avanzare la mano sulla sabbia tamburellando le dita come zampette in corsa. “Zac! Ecco che l’ha preso!” Fece finta di pizzicare il piede con la tenaglia del pollice e l’indice, ma Dario lo ritirò immusonito.
“Ancora” disse Dario subito dopo. Al terzo attacco del granchio si mise a ridere. La madre gli infilò un calzino per tenere ferma la compressa di carta e gli disse di rimanere sul telo.
“Papà, giochiamo?” chiese Manuele che ora poteva avere il padre tutto per sé.
“Prendi la palla” gridò il padre lanciandogliela.
Tra le braccia della mamma, Dario guardava il fratello e il padre giocare a calcio.
Il pallone finì sotto l’artiglio di roccia. Claudio corse a riprenderlo, ma poco prima di raggiungerlo affondò nella sabbia con la gamba destra fino alla coscia. Se ne uscì con un’imprecazione. Manuele, prima stupito, si mise a ridere.
“Guardate papà” gridò alla madre e al fratello sotto l’ombrellone, facendo finta di piegarsi dalle risate.
Valeria vide il marito appoggiare le mani sulla sabbia per sollevarsi, ma il braccio sinistro sprofondò fino al gomito. Poi, come se una forza sotterranea lo risucchiasse, affondò quasi fino alla spalla. Claudio urlò di dolore. Valeria si alzò, appoggiando Dario sul telo, e si precipitò dal marito.
“Mammaaa! Mammaaa!” gridò Manuele, che era accorso a liberare il padre tirando da sotto l’ascella il braccio prigioniero. Valeria si attaccò al braccio libero, Claudio farfugliava che andassero via, che scappassero. Valeria urlava il nome del marito, ma smise di colpo quando lui, con immensa fatica, si girò per guardarla.
Il volto era livido e negli occhi galleggiava uno sguardo atterrito e sofferente che, come un lumicino, tremolò aggrappandosi agli ultimi istanti di vita, prima di spegnersi. Quando Manuele riuscì a estrarre il braccio dalla sabbia, di questo rimanevano solo frange di carne sanguinante. Si tirò indietro con una smorfia di disgusto.
“Mammaaa!” chiamava Dario saltellando sul piede sano, non arrischiandosi a uscire dal perimetro del telo, come gli aveva raccomandato la madre.
Valeria, aggrappata all’altro braccio, urlò inorridita vedendo che sotto l’inguine della gamba destra c’erano il bordo vivo della carne masticata e una chiazza di sabbia intrisa di sangue. Dal centro della macchia fuoriuscì un getto rosso, come lo spruzzo di una balena agonizzante divorata dall’interno, bagnando di goccioline Valeria e Manuele.
I piedi di Manuele cominciarono a sprofondare. Il bambino si mise a saltare alzando in alto le ginocchia, come se la sabbia fosse rovente. La madre lasciò il braccio del marito per agguantare il polso del figlio. Sentiva la sabbia, punteggiata di morte conchiglie bianche, che le si arrampicava sulle caviglie. Si mise a correre ma, come nei sogni, quando si è inseguiti e si scappa, le sembrava di non riuscire ad avanzare di un passo. Trascinò il figlio di peso.
“Mammaaa! Mammaaa!” urlava Dario dall’ombrellone.
Onde di sabbia si pararono davanti a Valeria, come un mare animato da una maligna forza sotterranea. Le scartò, zigzagando davanti ai cavalloni che si sollevavano e affondavano attorno a lei per ghermirla. Stringendo forte il polso del figlio, lo tirava per il braccio slogandogli quasi la spalla. Riuscì a dirigersi verso il bagnasciuga, dove la sabbia umida e scura era più compatta, per fuggire verso l’ombrellone.
Dal telo, le urla del figlio la spronarono a raggiungerlo.
“Andiamo! Presto!” gridò prendendo in braccio Dario, pur mantenendo la stretta al polso di Manuele, anche se si era accorta di avergli lasciato un’impronta rossastra.
“Il papà…” disse Manuele volgendo gli occhi spaventati verso la spiaggia sotto il becco di roccia.
“Via! Via!” Valeria aveva lanciato solo delle occhiate di sfuggita alla spiaggia dietro di lei. Oltre il solco disordinato per aver trascinato malamente il figlio, la superficie sabbiosa continuava a sussultare. Cercando il corpo del marito, distolse in fretta lo sguardo quando zampillò un altro terrificante geyser di sangue.

Affrontarono il sentiero che si inerpicava sulla scogliera. Dario in braccio, Manuele che si lamentava perché la madre gli storceva il polso. I piedi delicati di Valeria venivano sfregiati dalle rocce taglienti e il fiato le bruciava in petto.
Alzando lo sguardo, vide spuntare due uomini, uno robusto, l’altro più basso e secco.
“Aiuto!” gridò. Gli uomini si fermarono. “Vi prego, aiutatemi” supplicò, affrettandosi a raggiungerli, quasi avesse paura fossero un miraggio che potesse svanire di lì a poco. Dopo un ripido tornante se li trovò di fronte. I due, dalle ruvide facce bruciate dal sole, avevano appoggiato per terra il carico che stavano trasportando, avvolto in un telo impermeabile.
Valeria rovinò in un pianto disperato, smozzicando tra i singhiozzi il racconto della spiaggia, del marito ucciso, del sangue. Anche i bambini si misero a piangere. Gli uomini ascoltavano, fissandoli impassibili, senza avvicinarsi per confortarli. Valeria continuò a piangere, i bambini le si strinsero addosso. I due tacevano, finché l’uomo più robusto dette un’occhiata d’intesa all’altro.
“Andiamo a vedere, signora” disse, cercando di modulare la voce cupa a una gentilezza praticata di rado. Valeria spalancò gli occhi terrorizzata.
“No, no…” ripeté. “Mio Dio… ma non capite? Lì, qualcosa ha ucciso mio marito.”
“Di qua si arriva al promontorio che è sopra la spiaggia” spiegò l’uomo, indicando un sentiero. “L’ha visto, no?” Le sembrò che avesse un modo di parlare spiccio, abituato a comandare. “Ci faccia vedere” continuò, addolcendo il tono.
I due si chinarono assieme per alzare l’involto e si incamminarono. Valeria non sapeva che fare, ma quando l’uomo più robusto si girò indietro a guardarla e le disse “Andiamo?” si decise a seguirli.
Dal promontorio si apriva un vasto panorama. Leggere pennellate di schiuma bianca rigavano il cristallo liquido dell’acqua. La scogliera, che si ergeva a baluardo della terra contro il mare, era incavata da piccole insenature.
“Ecco, eravamo lì” disse Valeria. “Dove ci sono l’ombrellone e le borse.” Gli uomini poggiarono a terra il carico. “Lì c’è mio marito.” Si sporse per vedere sotto lo spuntone. La sabbia era chiara e pulita. “Dovete credermi…” Guardò l’uomo robusto e poi l’altro cercando una conferma. “È vero! Mio marito è stato preso… ucciso da qualcosa sotto la sabbia…”
Gli uomini la fissavano come si guardano i matti, le sembrò. Valeria liberò la mano che stringeva il polso di Manuele e, con Dario in braccio, indicò la spiaggia.
“Lì c’è qualcosa che ha ucciso mio marito” ripeté. Non vedendo alcuna reazione, gridò con voce stridula: “Perché non mi credete?”
“Le credo” disse l’uomo robusto, e con uno spintone la scaraventò giù dal promontorio assieme a Dario.
“Mammaaa!” gridò Manuele. Stava quasi per seguire la madre e il fratello nel vederli piombare giù sulla spiaggia, ma riuscì a rimanere in equilibrio sul bordo di roccia. I due uomini gli furono addosso. Quello basso lo agguantò per un braccio, trascinandolo verso l’altro, che lo sollevò per le ascelle. Urlando, il bambino scalciava e graffiava, ma la presa era inesorabile. L’uomo lo lanciò nel vuoto. Allungando le braccia in una forsennata ricerca di salvezza, Manuele gli aveva afferrato un lembo della camicia, ma la spinta lo strappò via. Finì di sotto, cercando di aggrapparsi alla calda aria estiva.
Gli uomini disfecero l’involto di telo impermeabile che conteneva un uomo nudo, la faccia tumefatta, le palpebre gonfie e violacee. Le punte delle dita senza unghie erano nere di sangue rappreso, i testicoli, necrotizzati in corrispondenza di pinzature di elettrodi. Lo presero, uno per i polsi, l’altro per le caviglie, e dopo averlo fatto oscillare lo lanciarono giù in spiaggia. La madre era già mezza sepolta dalla sabbia impregnata di sangue, poco distante spuntava una piccola gamba che terminava in un calzino bianco. Da una vicina chiazza scura si levò uno zampillo che lo sporcò di rosso vivo.
Finirono di piegare il telo, poi l’uomo più robusto si chinò per raccogliere il bottone di madreperla strappato dalla camicia, se lo mise in tasca e annunciò che dovevano recuperare l’ombrellone e le borse. L’altro gli rispose con una smorfia, e in spiaggia sgranava gli occhi lanciando rapide occhiate tutto attorno. Quando se ne andarono, il basso in testa, il robusto accennò un sorriso beffardo.
Arrivarono a una Fiat solitaria, parcheggiata con cura sul lato della strada. “Dev’essere questa” disse l’uomo più robusto. Frugò nelle borse e trovò delle chiavi e due portafogli. Intascò soldi, bancomat, documenti e la foto che ritraeva i bambini alle giostre, ributtando i portafogli vuoti nella borsa. Sacche e ombrellone finirono nel bagagliaio. Guidò fino a un’auto nascosta all’interno di un sentiero. “Seguimi” disse, scendendo dall’auto della famiglia e passando alla guida dell’altra. Arrivati a uno slargo della strada, si fermarono per togliere le targhe, raschiare il numero di telaio, e prendere dal cruscotto i documenti della Fiat, che spinsero giù dalla scogliera. Una decina di gabbiani appollaiati sulla rocce si dispersero in cielo indispettiti, protestando con grida rauche. L’auto ondeggiò sull’acqua, poi si inabissò.
Ripartirono.
“Dobbiamo raccontare che…” disse l’uomo più basso dopo un paio di chilometri.
“Ci siamo sbarazzati di quell’infame” l’interruppe l’altro, lo sguardo fisso all’asfalto sbiadito. “Nel solito modo. Non serve dire altro.”
La strada si snodava sopra la scogliera, i due uomini ondeggiavano all’unisono seguendo l’andamento delle numerose curve.
“Come sta tua moglie?” saltò fuori a un tratto il basso.
“Come cazzo vuoi che stia? Ha un cancro. Non guarisce mica.”
Rimasero in silenzio per il resto del viaggio, ascoltando il ronzio del motore.

Copertina originale di Nataliia Ienzheievska-Onashko

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Racconto di Maurizio Donazzon

Sono nato a Treviso, nel 1961, e dal 2009 tengo corsi di Scrittura creativa presso l’Arci di Treviso, dove lavoro. Ho tenuto un Laboratorio sull’intervista da cui è stato tratto il volume Storie di vita Migrante. Terra Ferma Edizioni 2015, con dieci interviste di migranti.
Alcuni miei racconti sono stati pubblicati in antologie di concorsi letterari, altri sono presenti nelle riviste on-line WebSide Horror, Cinque Capitoli, Il Paradiso degli Orchi, Verde.

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