La guarigione del lebbroso

La guarigione del lebbroso

La raggiante macchia arancione del sole si allargò tra i monti, ma l’aria gelida della notte stentava a intiepidirsi. Nascoste tra gli alberi, due vecchie baite. Di una restavano dei monconi diroccati, rivestiti a nord di muschio soffice. L’altra sembrava integra. Le spesse mura erano di pietre scabre legate da poca malta, tegole nere d’ardesia ricoprivano il tetto. Sotto un architrave sbilenco, una rozza porta in legno slavato immetteva in una stanza, oppressa da travature basse color cuoio, appena illuminata da due finestrelle. Al centro della stanza pesava una stufa arrugginita, con un grosso tubo che penetrava nel muro. Panche e sedie storpie assediavano un tavolo massiccio e, su una credenza, riposava un vecchio cesto con dei vestiti ammucchiati. Nell’unica altra stanza, l’armadio addossato alla parete, vuoto e senza ante, ricordava una capiente bara aperta, come l’alta struttura rettangolare del letto matrimoniale in legno scuro. Sopra la testiera, era incorniciata una stampa scolorita di Gesù che guariva un lebbroso colmo di speranza.

La trapunta sporca si mosse adagio. Da un lato emerse una mano aggredita da una gonfia crosta nera che sembrava stesse per scoppiare. In alcuni punti si intravedeva il rosso della carne viva. Di ogni dito rimaneva la prima falange.

Eugenio rabbrividì per il freddo che gli scorreva lungo la schiena. Si sfilò il preservativo e lo avvolse in un rettangolo di carta igienica. Fuori cominciava a farsi giorno, la giovane erba del prato brillava contro i tronchi scuri del bosco. Si guardò nello specchio sopra il lavandino. Vide un volto smagrito, inespressivo, appena annerito dalla barba lunga. Ritornò in camera da letto, Lara era girata di spalle. Le mormorò delle scuse all’orecchio, ottenendo come risposta una scrollata di spalle. Sembrava che Lara volesse tornare a dormire. Sopra il comò, tre foto incorniciate della figlia Marta: allattata da Lara, al parco sul passeggino, alle giostre sotto lo sguardo sorridente di Lara. Nell’altra stanza da letto, Marta dormiva tranquilla sotto la trapunta popolata di fatine rosa con ali d’insetto, accoccolata a Beatrice, la sua bambola di panno senza un occhio.
Il sole fece splendere il prato davanti alla baita. Apparecchiato con una spessa tovaglia rossa e bianca, a cuori e fiori, il tavolo della cucina era affollato di tazze e cucchiai, zucchero, latte e caffè bollenti, biscotti, gallette e marmellata di frutti di bosco.
“Una giornata stupenda” disse Lara. “Cominciata davvero bene.”
Eugenio non commentò.
“Cosa facciamo oggi, mamma?” chiese Marta.
“Oggi dovrebbe venire il nonno. Non sei contenta?”
“Che bello! Gioco tutto il giorno con il nonno.”
“Almeno ci sarà un uomo in famiglia” disse Lara.
Eugenio sorseggiò il caffellatte, il volto nascosto nella tazza.

Le dita dell’uomo si infilarono tra i capelli radi della donna, le accarezzarono il collo e scesero lungo la schiena, soffermandosi su un’oasi di pelle sana. La donna si girò con la prudenza del dolore. Sotto un occhio congelato da una patina opaca, i lineamenti erano nascosti da grumi di carne tumefatta, e una ruvida scorza nerastra corrodeva una spalla e il braccio. Con una mano deforme sfiorò il volto dell’uomo, dove la carne del naso si era afflosciata e la bocca arrivava fino agli zigomi, scoprendo i denti giallastri.
La donna continuò a pettinarsi con una spazzola sdentata. Sotto il braccio, una ragnatela di vene bluastre si irradiava da un bubbone nero e lucido come uno scarafaggio. L’uomo le spruzzò dello spray medicinale che venne assorbito dalla pelle assetata. Poi agitò la bomboletta e la scagliò nel mucchio con le altre, la loro scorta era terminata.

Marta si precipitò fuori dalla porta della baita appena sentì la jeep che parcheggiava sul prato.
“Nonno, nonno! Vieni, andiamo a giocare.” Marta tirava Giulio per la manica.
Anche Lara uscì di casa. “Il nonno è mio!” disse, e si buttò ad abbracciare il padre, stringendolo a lungo, la testa accoccolata nell’incavo del collo. “Mi sei mancato” gli sussurrò all’orecchio. “Mi sei tanto mancato.”
“Nonno, nonno…” implorava Marta. Lara si staccò riluttante, Giulio prese in braccio Marta.
“La mia bellissima fatina” disse guardandola negli occhi nocciola.
“E io? io chi sono?” disse Lara. Il padre l’attirò a sé cingendole la vita.
“Tu sei la mia splendida figlia” disse, dandole un bacio sulla guancia.
Eugenio rimase sulla porta a guardare Lara e Marta che ridevano con Giulio. Il gruppo si sciolse, Giulio poggiò a terra Marta e si avviò verso la baita con la figlia e la nipote.
“Giulio.”
“Eugenio.”
Giulio strinse con vigore la mano di Eugenio. Entrarono in casa, Eugenio si chiuse la porta alle spalle.

Sotto i passi della donna e dell’uomo, le foglie secche crocchiavano nella quiete del bosco. Arrivati a una trappola rudimentale dove uno scoiattolo agitava la lunga coda grigia, l’uomo lo uccise con una bastonata, per infilarlo poi nella sacca che portava al fianco. Di ritorno alla vecchia baita, svuotarono le sacche sul tavolo. Il raccolto era uno scoiattolo, due uccelli, funghi. Mentre la donna tagliava i funghi, l’uomo scuoiò lo scoiattolo e affettò la carne molto sottile per poterla masticare meglio. Spaccò il cranio allo scoiattolo e agli uccelli, offrendo i minuscoli cervelli alla donna che fece il gesto di dividerli, ma l’uomo scosse la testa.

“Non è possibile tornare in città con te?” chiese Lara.
“È meglio di no” disse Giulio. “Qui è più sicuro, ce ne sono in giro ancora troppi. Non vorrai essere contagiata proprio adesso che l’epidemia sta per finire?”
“È che siamo fuori dal mondo” si lamentò Lara. “È già un anno… pensavo che ormai…”
“Diciamo che il contagio è stato bloccato” disse Giulio, “ma ci sono ancora molti zombie…”
“Contagiati” corresse Eugenio.
“Zombie” continuò Giulio, “divisi in bande anche numerose, che l’esercito non è ancora riuscito a eliminare.”
“Comunque sono ammalati…” disse Eugenio.
“Cazzo!” sbottò Lara. “Il solito intellettuale che deve difendere tutti.”
“Lara…” disse Giulio.
“Nonno” disse Marta mostrandogli la bambola senza un occhio, “hai visto che Beatrice è ammalata?”
“Sono sicuro che la mamma la guarirà.”
“Non troviamo più il bottone dell’occhio” disse Marta.
“Sono ammalati, se fosse capitato a te?” riprese Eugenio rivolgendosi a Lara.
“Ammalati pericolosi” disse Lara alzando a poco a poco la voce. “Soprattutto da quando si è diffusa la favola che mangiando il cervello dei sani sarebbero guariti. Che cazzo faresti se qualcuno volesse mangiarti il cervello? Ah, certo, l’intellettuale si metterebbe a discutere, a valutare le esigenze delle parti, a ragionare…
“Non è stato fatto altro che mandare l’esercito” disse Eugenio. “Quanti ne hanno ammazzati come cani rabbiosi finora?”
“Sono pericolosi” commentò Giulio.
“Intellettuali del cazzo” gridò Lara. “Il vostro cervello è troppo marcio anche per gli zombie.”
“D’accordo, ora calmiamoci” disse Giulio.
“Mamma” interruppe Marta, “posso andare a giocare con il nonno?”
“Agli ordini!” disse Giulio. “Prima però scarichiamo le provviste. Marta, ti ho portato un regalo…”
“Che cosa, nonno? Che cosa?”
“Vieni ad aiutarmi e lo vedrai.”
Lara ed Eugenio rimasero seduti a fissare i cuori e i fiori della tovaglia tirolese. Eugenio strofinò con il polpastrello una macchia su uno dei cuori. Quando Lara si alzò per guardare dalla finestra il padre e Marta, Eugenio si alzò di scatto e uscì dalla stanza.
“Mamma! Mamma! Guarda cosa mi ha regalato il nonno…” Marta entrò come una raffica di vento primaverile, lasciando la porta aperta. Teneva stretto un morbido orsacchiotto color nocciola che alzò per mostrarlo alla madre. “Posso portarlo con me a letto? Posso, mamma? Posso?”
“Certo, amore. Beatrice sarà contenta di avere un nuovo amico.”
“Beatrice è uno zombie” disse Marta severa. “Deve stare da sola, è ammalata.”
“Povera Beatrice” commentò Giulio, appoggiando le sacche delle provviste sul pavimento.
Eugenio emerse dalla stanza da letto. “Vado a fare un giro nei boschi” disse.
“Se incontri uno zombie, convincilo a non mangiarti il cervello” disse Lara.
“Portati un fucile” disse Giulio.
Eugenio salutò la figlia che non rispose perché troppo occupata a far conoscere la casa al nuovo orsacchiotto.

La donna sedeva sul pavimento di legno con il mento appoggiato al petto. L’uomo cercava di svegliarla con dei buffetti leggeri, spruzzandole dell’acqua sul viso. La chiamava con parole che erano suoni irriconoscibili, cercando di farle bere dell’acqua da un bicchiere. La donna aprì l’occhio sano dietro cui si affacciò un’anima confusa. Respirava a fatica. Sorseggiò l’acqua che si colorò di sangue marcio. L’uomo l’aiutò a sollevarsi e, sostenendola come poteva, la trascinò a letto e la distese, ripiegando dei vestiti sotto la testa per tenerla sollevata. Gli occhi le si chiusero. L’uomo le passò tra i capelli la mano sfregiata dalla malattia e sfiorò la fronte con delicatezza, poi andò a sedersi nell’altra stanza, trovandosi a fissare una foto stropicciata. Sorridevano tenendo stretti di fronte a loro i figli, un maschietto e una bambina, una versione infantile e ingentilita dei genitori. Anche nell’abbigliamento si somigliavano, jeans e maglioni verdi, con una pennellata di giallo fluorescente nei braccialetti di gomma della moglie e della figlia. Sullo sfondo, chiassose scie di luce di una giostra dove aveva proibito al figlio di salire. Rimise la foto nella sacca e uscì.

Seduti sulla panca davanti alla baita, Giulio e Lara guardavano Marta correre nel prato. Lara stringeva la mano del padre.
“Non lo sopporto più” disse Lara. “L’avrei lasciato già da un pezzo se non fosse per questa situazione di merda. È assurdo, devo sempre decidere io qualsiasi cosa perché è incapace di dire: adesso si fa così. Per lui si dovrebbe sempre star lì a riflettere su cosa è meglio, cosa è peggio.”
“È fatto così…”
“È un coglione! Avrei voluto spaccargli la testa quando blaterava quelle cazzate sugli zombie.”
“Nonno, giochiamo a nascondino?” li interruppe Marta.
“Va bene, ma senza allontanarci troppo” disse Giulio.
“Perché non possiamo venire con te?” chiese Lara, lamentosa. “Questo risolverebbe tutto.”
“Sono pericolosi. Non credere siano gli zombie intontiti dei vecchi film horror, sono furbi invece. Si sono organizzati e cercano in ogni modo di sopravvivere. Ora poi, che si sono messi in testa che mangiare cervello umano fresco può guarirli, sono come impazziti. Ieri una banda ha attaccato un presidio, i nostri sono tutti morti. Devi stare qui, e non da sola.”
“Nonno, vieni?”
“Agli ordini!”
Anche se erano solo le cinque, la luce cominciava a smorzarsi. La nuvola verde scuro del fogliame, sorretta dai tronchi neri degli alberi del bosco, incombeva sul prato, costringendolo a rifugiarsi accanto alla baita.
“Conto fino a dieci e poi vengo a cercarti, nonno” disse Marta.
Lara seguì con lo sguardo la figlia correre attorno alla baita alla ricerca del nonno. Le sembrò di vedere muoversi qualcosa nel bosco, guardò più attentamente.
“Adesso tocca a me nascondermi” disse Marta. Ridendo, si diresse verso il bosco, ma Lara la richiamò.
“Non andare da quella parte! Giocate vicino a casa.” Marta andò lo stesso verso il bosco, Lara la rincorse, bloccandola. “Ti ho detto di non andare nel bosco!” La bambina pestò i piedi.
“Sto giocando con il nonno…” si lamentò. Lara la trattenne per un braccio.
“Allora entriamo in casa e smettiamo di giocare.”
“Uffa…” si mise a frignare Marta. “Sei cattiva! Lasciami, mi fai male.” Lara, stringendole il polso, guardò verso il bosco cercando di capire cosa si muovesse. Quando vide Eugenio, si incamminò verso la baita, tirandosi dietro Marta.
“Adesso la mamma preparerà una bella torta.”
“Non voglio la torta. Voglio giocare con il nonno…” piagnucolò Marta.

Distesa sul letto, la donna respirava affannosamente e l’occhio sano si era velato quasi come l’altro. L’uomo le introdusse tra le labbra esangui un minuscolo cervello che la donna masticò e deglutì svogliata. Poi alzò la trapunta per medicare il grosso bubbone scuro sotto l’ascella, tamponando con uno straccio il pus sanguinolento. Il dolore sembrò rianimarla. Quando ebbe finito, la ricoprì con la trapunta e le toccò la fronte. Scottava. Guardò la stampa incorniciata sopra il letto. Gesù, in tunica bianca, sfiorava benevolmente la testa del lebbroso inginocchiato, che lo supplicava a mani giunte per un miracolo. Chi poteva credere a quelle favole?

“Avete abbastanza cibo finché non ritorno” disse Giulio a Eugenio.
“Sì, certo…”
“Fallo per tua figlia, se non vuoi farlo per qualcun altro.” Giulio cercò lo sguardo di Eugenio, che continuava a sfuggirgli. “Non posso rimanere, ma qui siete al sicuro, se non fate cazzate.”
Eugenio lo guardò senza rispondere.
“Beh, ci siamo capiti” terminò Giulio entrando in casa. Eugenio rimase fuori.
Dopo un po’, Giulio uscì a sistemare lo zaino nell’auto, seguito da Lara e Marta. Lara lo abbracciò forte, sembrava non volesse staccarsi.
“Ci vediamo fra tre settimane” disse Giulio, prendendo poi in braccio Marta.
“Nonno, rimani. Ti prego rimani…”
“No, piccola mia, il nonno deve andare, ma ci vediamo presto.”
“Ti prego, nonno…” Lara, muta, tradiva la stessa supplica. Giulio lasciò la nipote in braccio a Lara, dopo averle baciate entrambe ripetendo le ultime raccomandazioni. Strinse con energia la mano a Eugenio.
Lara e Marta guardarono l’auto allontanarsi salutando fino all’ultimo con la mano, poi entrarono in casa. Eugenio si attardò fuori. Una ventata improvvisa scosse le chiome degli alberi, mentre il buio fra i tronchi sembrava ancora più cupo e impenetrabile.

Dal bosco aveva spiato la famiglia. Prima di partire, il vecchio aveva riposto il fucile in auto, di sicuro anche gli altri erano armati. Bisognava fare attenzione, potevano essere pericolosi, e lui era solo, lento e malato. Ma doveva tentare. Ricordò un documentario alla televisione, una leonessa che spiava un branco di gnu, puntando un cucciolo isolato. Il piccolo gnu correva disperato, la leonessa lo aveva atterrato con una zampata per poi azzannarlo. Nessuno era corso in sua difesa, gli altri gnu del branco erano scappati. Ma lui era un predatore fiacco e malandato che rischiava di diventare la preda. E allora tutto sarebbe stato inutile, sarebbe morto, e anche lei.

Eugenio e Lara stavano litigando quando Marta chiese se poteva uscire a giocare.
“Va bene” disse Lara, “ma non allontanarti troppo.”
Correre a braccia aperte sul prato come un aereo, schiacciare gli insetti per far uscire una schifosa pappa biancastra è divertente, ma alla fine ci si stufa. Si possono allora raccogliere dei fiori gialli per farne un mazzetto da regalare alla mamma, oppure strofinare tra le mani foglioline pelose per annusarne il profumo. La mamma non le aveva proibito di entrare nel bosco, solo di non andare lontano. Marta è ubbidiente. Se abbracci il tronco di un pino non riesci a toccarti la punta delle dita. È così morbido il muschio quando lo accarezzi, come il vestito di velluto che la mamma le aveva fatto indossare per Natale, ma qui, se spingi il dito, entri dentro la terra, e poi ti devi pulire il ditino sporco. Che strano questo fungo! Solo guardare, non bisogna toccare perché può essere velenoso. Marta è brava, mamma, non si allontana da casa, sta attenta. Cos’è questa puzza?

La colpì al collo con il bastone, più forte che poteva, mentre era accovacciata a osservare dei funghi alla radice di un albero. Non doveva gridare, era stato difficile riuscire ad avvicinarsi sottovento senza far rumore. Eppure si era girata, come se avesse intuito qualcosa, gli occhi sgranati per la sorpresa, le labbra che si schiudevano in una “o”. Ora era sdraiata per terra, la testa ciondolante come quella di uno scoiattolo morto. Le fracassò il cranio con un sasso per estrarre il cervello che ripose nella sacca, avvolto in uno straccio. Stava per allontanarsi, ma poi tornò indietro per ricomporre, come poteva, il corpo della bambina, tirando la gonnellina fino alle ginocchia, incrociando le piccole mani sul ventre, sistemando la testa e i capelli per nascondere lo squarcio del cranio. Corse più in fretta che poteva verso la vecchia baita, con ancora negli occhi il ricordo della piccola sagoma chiara allungata su un soffice letto di aghi di pino.

“Dov’è Marta?”
A Lara sembrò di essersi appena svegliata, emersa dal sogno in cui lei ed Eugenio litigavano, che l’aveva tenuta lontana dalla realtà. “Dov’è Marta?” gridò più a se stessa che a Eugenio. Si precipitò fuori casa. “Martaaa! Martaaa! Martaaa!” urlò guardandosi attorno. Eugenio, che l’aveva seguita, l’avvertì di non fare troppo rumore per non attirare gli zombie. Lara lo mandò affanculo.
Cercarono attorno alla baita, poi all’interno. Lara decise di inoltrarsi nel bosco. Ordinò a Eugenio di tenersi a una decina di metri per esplorare il bosco assieme.
Eugenio vide Marta per primo. Chiamò Lara, che si buttò a terra sulla bambina, a baciarle con accanimento il volto freddo. La strinse a sé, posando la sua guancia calda sulla guancia livida. “Piccola mia… amore… tesoro mio… tesoro… stella della mamma…” ripeteva come una litania, tra il pianto e i lamenti che le risalivano dal fondo del petto, scavato dal dolore. “Cosa ti hanno fatto?” diceva accarezzandole i lunghi capelli.
Eugenio rimase in piedi. Quando le pose una mano sulla spalla, Lara l’allontanò.
“I tuoi amici zombie…” disse Lara. ‟Guarda!” urlò. ‟Vedi cosa le hanno fatto?”
“È anche mia figlia…” mormorò Eugenio. “Sei ingiusta…”
“Ecco come l’hai difesa, tua figlia” disse Lara, sollevando il corpo della bambina e avviandosi verso la baita, seguita da Eugenio.
Lavò il sangue dallo squarcio in testa e cambiò il vestito sporco di terra con l’abitino più bello che si erano portati da casa, di velluto rosso. Poi la distese composta sul lettino, sistemando al suo fianco Beatrice e l’orsetto. Eugenio, escluso dal rituale di Lara, guardava madre e figlia da una sedia.
Quando ebbe finito, Lara caricò il fucile e mise in tasca delle munizioni.
“Ho visto due baite disabitate…” disse Eugenio.
“Dove?”
“Vicino al sentiero 101, appena oltre il ruscello.” Senza dire una parola, Lara si preparò a uscire. Eugenio prese l’altro fucile.
“No. Mi arrangio” disse Lara.
“Sei pazza! Non riuscirai a trovare il posto. Vengo anch’io.”
Lara gli puntò il fucile addosso.
“Vado da sola.”
Eugenio la guardò incredulo.
“Sparami, se è questo che vuoi” ebbe il coraggio di dire.
“Ho altro da fare” gli rispose Lara uscendo.
Ritornò dove era stata uccisa Marta come in pellegrinaggio. Si inginocchiò, posando il fucile a fianco, e pianse in silenzio finché non ebbe prosciugato tutte le lacrime che le erano rimaste. Poi si incamminò sul sentiero.
Lara arrivò a dei ruderi nascosti tra gli alberi, accanto una costruzione trascurata, ma ancora integra. Si avvicinò, attorno non c’era nessuno. Entrò nella vecchia baita, mettendosi una mano sul naso per il tanfo di carne imputridita che la impregnava. Sentì un lamento provenire da una stanza. Con il fucile spianato entrò in una camera con un letto matrimoniale dove il fetore era ancora più penetrante. Sotto la trapunta ben sistemata, era distesa una donna zombie che rantolava. In un angolo, bombolette e flaconi vuoti di medicinali. Sopra il letto una stampa con Gesù che faceva uno dei suoi miracoli. Ritornò nella prima stanza, sul tavolo vide un bicchiere, un piatto scheggiato di ceramica bianca con un cucchiaio di metallo, e pezzi di cervello.
Pezzi di cervello.
Corse nella stanza da letto e sparò in faccia alla zombie, poi nel petto, attraverso la trapunta. Il sangue scuro esalò un puzzo rivoltante che la fece scappare all’esterno per respirare a pieni polmoni l’aria pura della montagna.
C’era un altro zombie, lo sapeva, quello che aveva ammazzato sua figlia. Avrebbe potuto aspettare il suo ritorno, ma non rimase molto a riflettere, voleva allontanarsi dalla cosa sul tavolo. Cercò delle tracce attorno alla vecchia baita, trovando un sentiero che si inoltrava nel bosco. Si convinse che era la direzione giusta quando vide alcune trappole. In una, lo scoiattolo imprigionato cominciò a dibattersi quando si avvicinò. La coda grigia sbatteva a destra e sinistra, come per minacciarla. Pensò di liberarlo, ma era difficile farlo senza farsi mordere, così passò oltre.
Il sentiero si faceva più difficile da seguire, sembrava meno battuto. Fu allora che molto vicino risuonò un colpo di fucile. Si mise a correre cercando di mantenere la direzione da cui ricordava era arrivato lo sparo. Quando sbucò nel prato di fronte alla sua baita era senza fiato. Dalla finestra della camera da letto della figlia, Lara vide Eugenio lottare con uno zombie. Corse allora più avanti, a distanza di tiro, fermandosi a prendere la mira. Era difficile, le due figure erano avvinghiate. Per un attimo Eugenio venne chiaramente inquadrato nel mirino. Il dito si mosse, come se agisse di volontà propria, e tirò il grilletto. Centrò Eugenio.
“Cazzo!” sbottò Lara. “Vaffanculo anche tu.”
Sparò subito dopo altri due colpi verso lo zombie, che ormai si era messo al riparo. Si mise a correre sul prato. “Ora ti ammazzo” urlò.
Entrò in casa, dando una rapida occhiata attorno, e salì le scale a due a due, facendo crepitare il legno secco.
“Esci fuori, pezzo di merda” gridò.
Spalancò la porta della camera da letto della figlia. Eugenio era sul pavimento, il suo sangue imbrattava la trapunta a fatine con ali di libellula dove era distesa Marta, che sembrava dormire tranquilla. Scostò adagio le ante dell’armadio con la canna del fucile, nessuno spuntava dai vestitini di Marta ordinati sugli appendiabiti. Si girò di scatto perché le sembrò di aver sentito un fruscio dietro le spalle. Nessuno. Guardò sotto il letto. Nessuno. Tenendo il fucile spianato, uscì per andare nell’altra stanza.
“Ho ammazzato la tua puttana marcia” urlò nel corridoio, arricciando il naso per l’odore di carne morta. “Vengo a prenderti.” La porta era socchiusa, il puzzo si fece più forte, si aggrappò al fucile pronta a sparare.
Scaraventò via la porta con un calcio e sparò, colpendo il vestito del marito, appeso a una gruccia che penzolava dal lampadario. Dalle ante aperte dell’armadio, spuntava la canna di un fucile. Il lampo del colpo e il tuono della detonazione, come un inaspettato temporale che oscuri il cielo primaverile, la sorpresero e la fecero stramazzare sul pavimento. Sparò, per reazione, poi l’arma le sfuggì di mano.

L’uomo uscì dal bosco di vestiti e si avvicinò alla donna ferita che si dimenava per afferrare il fucile. Lo allontanò con un calcio, allora la donna gli artigliò la caviglia stringendogliela con tutte le forze che le rimanevano. Sopra la bocca che schiumava sangue, lo fissavano occhi nocciola roventi d’odio. Le sparò al petto, sentì allentarsi la stretta alla caviglia.
Boccheggiante per la stanchezza, si sedette sul pavimento. Dopo aver ripreso fiato, senza motivo, si trovò in mano la foto della famiglia sorridente che teneva in tasca. Accarezzò con la punta delle dita i volti dei figli e della moglie, mormorandone i nomi, che neppure lui riconobbe dai suoni storpiati che uscivano dalle labbra deformi. Distese il braccio, la foto gli scivolò di mano.
Con la foto si allontanarono anche emozioni e sentimenti. Non provava più terrore, speranza, angoscia, amore. Rimaneva solo il corpo martoriato e l’impulso alla sopravvivenza, che riprese a bruciare, irrazionale e imprevedibile.
Vivere.
Lentamente, si alzò appoggiandosi al fucile e fracassò, senza rabbia e senza odio, il cranio della donna, per divorarne il cervello.

Copertina: Modello in cera di testa femminile raffigurante la vita e la morte, Europa, forse 18° secolo.
Science Museum, Londra (Creative Common).

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Racconto di Maurizio Donazzon.
Sono nato a Treviso, nel 1961, e dal 2009 tengo corsi di Scrittura creativa presso l’Arci di Treviso, dove lavoro. Ho tenuto un Laboratorio sull’intervista da cui è tratto il volume Storie di vita migrante, Terra Ferma Edizioni, 2015, con dieci interviste di migranti.
Alcuni miei racconti sono stati pubblicati in antologie di concorsi letterari, altri sono presenti nelle riviste on-line WebSite Horror, Cinque Capitoli, Il Paradiso degli Orchi, Verde.

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