Orrore, smembramento, trasformazione

Ecatombe

Non penso che riuscirò a raggiungere le case. La ferita pulsa e mi sta svuotando piano piano. Il mio pensiero va a Laura, che a quest’ora si sarà già riaddormentata, ignara del mondo, e a Teresa che la regge in braccio cullandola. Sto strisciando in mezzo alle foglie cadute dai castagni da circa mezz’ora – o forse sono solo cinque minuti, difficile dirlo – ma il bosco sembra troppo grande. Non credevo che sarebbe finita così.

Quando stanotte ho sentito il primo grido, non ho neanche provato ad aprire gli occhi: ero certo fosse solo l’eco di un incubo. Nel sogno, continuavo a combattere armato solo di una piccola falce contro l’erba che cresceva a vista d’occhio e soffocava uno dopo l’altro i peri: gli alberi poi diventavano scuri e si accartocciavano su loro stessi come vittime di un olocausto, raggrinziti scheletri carbonizzati.
Al secondo urlo, quasi della stessa tonalità del primo e allo stesso tempo diverso in un modo che non sono riuscito a cogliere, mi sono drizzato a sedere sul letto. La luna illuminava la stanza: l’alba e il lavoro erano ancora lontani, ma la schiena a pezzi mi ricordava che sarebbero comunque ritornati nel giro di qualche ora. La notte non mi avrebbe difeso per sempre dai calli e dal dolore. Teresa dormiva come un sasso in posizione fetale. Si è svegliata solo quando mi ha sentito scendere dal letto e armeggiare con la serratura dell’armadio dei fucili. Nella culla, Laura aveva mosso un braccino come per salutarmi, a occhi chiusi, e poi aveva riportato il pollice alle labbra.
«Enzo, che fai?» mi ha chiesto, con la bocca impastata dal sonno. Una spallina della camicia da notte le era scivolata giù e la pelle sembrava di perla, mentre la mia si era accapponata.
«Ho sentito gridare dalla fattoria degli Zotici» ho risposto.
È così che noi, gente di città, chiamiamo gli Strema quando nessuno di loro può sentirci. C’è Papà Zotico, ovvero il signor Antonio, perennemente con la zappa in spalla, la sigaretta in bocca e lo sguardo torvo, Mamma Zotica, l’acida consorte con l’onnipresente fazzoletto in testa, e gli Zoticini, Giuseppe e Giovanni, di anni dodici e otto, bambini guardinghi cresciuti come gatti in mezzo ai rovi.
«Credi sia per via di quell’animale?»
«Non lo so, ma di sicuro c’è qualche casino. Vado a vedere.»
Ho inserito due colpi nella doppietta e mi sono allacciato in vita la cartucciera. Ero già alla porta, ma Teresa mi ha bloccato con una mitragliata di domande.
«Ma sei scemo? Che ne sai di cosa è successo? Non possiamo chiamare i carabinieri, invece?»
«Quassù arriverebbero come minimo tra due ore. Non ti preoccupare. Sta venendo anche Saverio: vedo accesa la luce sul portico. Ha sentito anche lui.»
«Stai attento.»
Avevo ragione: Saverio stava correndo verso la nostra casa, imbracciando quel fucile che mi ha umiliato con regolarità ogni anno durante la stagione delle beccacce.
«Hai sentito?»
«Certo.»
«Gli Zotici?» mi ha chiesto, sottovoce. Poi si è risposto da solo: «Per forza. Chissà che cazzo hanno combinato i lupi questa volta.»
«Forse mi sbaglio, ma urlare di notte per delle pecore morte mi sembra un poco esagerato.»
I nostri casolari distano non più di trecento metri dalla proprietà degli Strema: una costruzione di mattoni, pietra e legno, molto più antica delle nostre, circondata da un centinaio di ulivi e da una vigna stentata. Ci siamo arrivati con le ali ai piedi.
Ho iniziato a tempestare di colpi la porta. Avrei potuto sfondarla con facilità ma era meglio farsi un’idea, prima. La possibilità che Antonio accogliesse gli intrusi a fucilate era tutt’altro che remota. Dopo un’eternità, Papà Zotico si è presentato all’uscio. Aveva lo sguardo perso, come se avesse aperto la porta di casa per ammirare la notte e i nostri corpi fossero trasparenti. Tremava e boccheggiava. Dall’interno venivano i singhiozzi di Rita, la moglie.
Lo abbiamo spinto da parte e siamo entrati. I lamenti ci hanno condotti a quella che doveva essere la camera da letto degli Zoticini, o almeno quello che ne era rimasto.
Rita era a terra e piangeva, raggomitolata su se stessa, con i vestiti lordi del sangue che aveva invaso la stanza. Era dappertutto: pareti, soffitto, mobili. Il pavimento di legno era ricoperto da un piccolo lago. I resti di Giovanni, il più piccolo, erano sparpagliati in giro. Di Giuseppe nessuna traccia, ma la finestra era aperta. Nonostante l’aria della notte, la stanza era oppressa da un odore ferrigno.
Saverio si è messo a piangere con una mano sulla bocca, invocando la Beata Vergine. Da un’altra stanza venivano i rumori di Antonio, che si armava dopo essersi ripreso dallo shock.
«È stato l’animale?» gli ho chiesto quando è ricomparso nel corridoio.
«I lupi non fanno nulla del genere». Sembrava che ogni parola gli costasse un anno di vita.
Ho annuito. «Non rapiscono neanche i bambini, se è per questo. Signora, chiami i carabinieri. Noi andiamo a cercare Giuseppe, non si preoccupi.»
«Tornatevene a casa.»
Ho lasciato stare Rita e mi sono girato verso Antonio: il viso dello Strema era imperscrutabile. Mi sono parato davanti a lui, più per capire cosa gli passasse per la testa che in un vero atteggiamento di sfida.
«Lei sta delirando. Se ci mettiamo tutti e tre abbiamo buone probabilità di ritrovare Giuseppe.»
«Ho detto che non sono affari vostri.»
Sapevo che Papà Zotico era burbero e scontroso – un vero orso – ma non credevo che potesse essere anche così stupido. Per fortuna Saverio si era ripreso dal suo momento di debolezza e mi si era messo a fianco.
«Lei può anche cercare suo figlio da solo, se le piace. Ma se c’è in giro una bestia – o qualcuno – capace di fare questo macello e che non si limita più alle pecore, dobbiamo toglierla di mezzo. Comprendo il suo dolore e so che non ci sopporta, ma anche noi abbiamo dei bambini. Faccia strada.»
Antonio non si è mosso. Continuava a guardarci con quegli occhi che, oltre all’ostilità, non lasciavano trasparire nient’altro. Alla fine è stata Rita a convincerlo.
«Ninni, falli venire con te. Ti prego.»

***

Non avrei mai immaginato che il crepitare delle foglie secche potesse ispirarmi tanto orrore. Mentre ci striscio in mezzo non riesco a non pensare a quante migliaia – milioni – ne ho ancora davanti prima di arrivare alle case. Non vedo quasi nulla, ma non credo sia per via della notte. Sento freddo.

«Ma cos’ha nella testa, un radar?»
Antonio si muoveva nel fitto sottobosco come seguendo una mappa mentale con ogni depressione del terreno o roccia della zona. Un treno in corsa che al suo passaggio devastava i rami degli arbusti più bassi.
«È nato e cresciuto nella stessa casa dove abita ora,» ho risposto a Saverio «girava qua intorno quando ancora io e te eravamo alle elementari.»
Saverio aveva il fiato pesante e ogni tanto esplodeva in un colpo di tosse per la fatica, ma anche io ho avuto il mio da fare per rimanere dietro Antonio. Prima di trasferirci in campagna, due volte a settimana uscivo di casa portando con me il borsone da calcetto e, dopo otto interminabili ore di noia e cartelle esattoriali, andavo a correre come un dodicenne sul campo da gioco. Ma lo Zotico sembrava avere il pepe al culo. Lo capivo, c’era in ballo la vita del figlio, ma un genitore disperato di solito dovrebbe essere grato di tutto l’aiuto che gli viene offerto. Invece “Ninni” sembrava tenere quel ritmo da corsa campestre con il preciso intento di seminarci.
In realtà non c’era la minima possibilità di poter perdere le tracce della bestia, anche se a nessuno era venuto in mente di portare una torcia: sembrava che in mezzo al bosco fosse passato un tir coperto di peli, rossicci come quelli che ogni tanto trovavamo impigliati nei cespugli. Se ci fosse stato ancora qualche dubbio, quella devastazione floreale metteva in chiaro che non avevamo a che fare con un lupo, ma con qualcosa di molto più grosso. Di Giuseppe ancora nessuna traccia.
«Ma chi cazzo me l’ha fatto fare?» ha esclamato Saverio, dopo aver rischiato di finire lungo disteso a causa di un infido sasso nascosto dal tappeto di foglie.
In realtà sapevamo tutti e due il motivo che ci spingeva in quella caccia all’ignoto. Nonostante la strage di pecore degli ultimi mesi, non potevamo lasciare perdere e trasferirci ancora. In città avevamo venduto tutto e le terre, i casolari e gli animali avevano prosciugato i nostri risparmi. La fuga dallo stress e il ritorno alla natura si pagano.
Dopo i primi episodi, avevamo chiamato i Rangers, ma questi si erano limitati a posizionare dei bocconi avvelenati nei dintorni e null’altro. Dovevamo vedercela da soli e, dopo il destino orribile toccato a Giovanni, la posta in gioco era ancora più alta.
A un certo punto, abbiamo trovato qualcosa. La traccia si era allargata in corrispondenza di una radura e Antonio si era fermato a osservare una carcassa sul terreno. Da lontano pregavo che non fosse il bambino, poi mi sono accorto che era una massa troppo grande, coperta di peli laddove la carne non faceva mostra di sé.
Si trattava di un cervo, un maschio bello grosso. Secondo il mio personale parere, la necessità di alimentarsi era l’ultima delle motivazioni che potevano aver portato a quello scempio. Antonio ammirava pensieroso il Pollock di intestini e sangue sparpagliati ovunque, ma l’espressione che gli leggevo sul volto mi faceva prudere di sospetto un lato del cervello. Un’altra preda smembrata e di Giuseppe ancora nessuna traccia. Un campanello di allarme aveva iniziato a suonare, ma mi sono sempre considerato una persona equilibrata. Mi sono detto che quello che stavo immaginando era un brutto scherzo della luna piena che ci spiava attraverso le fronde degli alberi.
«Madre di Dio!» ha esclamato Saverio quando ci ha raggiunti, e sono state le sue ultime parole su questa terra. Si è girato verso i cespugli per vomitare, ma nel buio è saettato qualcosa di enorme.
Ho visto gli artigli, la trachea esposta di Saverio, il mio vicino di scrivania di un tempo che cadeva a terra al rallentatore con un rantolo liquido e poi più nulla. Penso di essere rimasto immobile e con la mascella penzolante per qualche secondo. La visione dell’osso nudo mi è sembrato uno spettacolo osceno, fuori luogo come le scenette volgari che Saverio orchestrava nello spogliatoio, nell’ilarità generale della squadra.
Quando quel momento di ipnosi si è deciso ad abbandonare il corpo, ho sollevato il fucile. L’ho puntato alla testa, o quello che era, della cosa e ho premuto il grilletto. La spallata di Papà Zotico mi ha fatto mancare il bersaglio e cadere su una coscia. Ho visto le stelle molto più vicine. Quando la vista mi si è snebbiata, la creatura aveva ormai afferrato il corpo di Saverio e si era immersa di nuovo nella vegetazione, con Antonio alle calcagna.

***

Ho gli occhi aperti, sento le palpebre sollevate, ma la mia vista non funziona più. Forse è per la perdita di sangue o magari lo shock. Affondo le dita nel terriccio e vado avanti. Tremo come non avrei mai immaginato. Sono solo al buio e ho freddo, anche se l’alba è arrivata e ne sento il debole calore sulla pelle. Ho fallito.

Mi sono rimesso in piedi in qualche modo e ho iniziato a caracollare nella direzione presa dai due. La gamba destra urlava, ma facevano più rumore i pensieri che mi affollavano la mente, illogici e contrari al mio buon senso di ragazzo di città. Era chiaro che lo Zotico mi aveva deliberatamente fatto sbagliare il colpo. Altrettanto palese era che non avremmo trovato il corpo di Giuseppe. Mi restava da scoprire se Antonio fosse al corrente della situazione dal principio. Di certo, questo avrebbe giustificato il suo comportamento quando eravamo ancora al casolare: voleva mantenere la questione in famiglia, da bravo tradizionalista.
Ho superato uno stentato torrente, dopo aver rischiato di finirci dentro due volte, e ho attaccato la salita di un pendio fangoso quando già Antonio ne aveva superato la cima. È stato su quella collinetta che ho iniziato a scorgere i pezzi di Saverio. Prima un piede. Poi il resto della stessa gamba, con un vistoso brano strappato in corrispondenza del quadricipite. La bestia se li era lasciati dietro come le molliche di Pollicino. Mi stavo chiedendo come avrei fatto a raccontarlo a sua moglie Claudia, quando mi accorsi che stavamo girando in tondo. Una volta arrivato in cima, la posizione sopraelevata mi ha fatto capire che per tutto quel tempo non avevamo fatto altro: a non più di cinque chilometri di distanza, il bosco si apriva e il gruppo delle nostre case si distingueva nel chiarore lunare.
Antonio era fermo sul fondo della scarpata. Voltava la testa da una parte e dall’altra, urlando con durezza il nome del figlio, come se lo stesse cercando per punirlo. Il mostro aveva fatto perdere le sue tracce. Ho raggiunto lo Zotico ai piedi del rilievo con l’intenzione di spaccargli quella testa pelata con il calcio del fucile, ma lui deve avermi sentito arrivare. Si è voltato e mi ha puntato contro la sua doppietta.
Mi sono maledetto per essermi fatto tanti scrupoli a sparargli. Lui non sembrava averne. «Abbassa il fucile, Antonio. Non ci risolviamo niente con quello.»
«Te l’avevo detto di non venire. L’avevo detto anche all’amico tuo. E ora guarda che casino.» Ha iniziato a piangere, tirando rumorosamente con il naso tra una frase e l’altra.
«Da quanto tempo lo sai?» gli ho chiesto.
«Maledizione!»
In un momento di stanchezza ha abbassato l’arma, ma è stato svelto a rialzare la canna quando ho fatto segno di volermi avvicinare. Con una mano si è tolto qualche lacrima dal cuoio che aveva per faccia. «Avevo notato che era cambiato. Usciva di notte. Saliva sul tetto. Era diventato molto più forte: ha rotto i manici di non so quante zappe.»
Intorno a noi avevano iniziato a sentirsi dei fruscii. C’era qualcosa in movimento nel bosco, ma era molto più piccolo rispetto alla bestia che avevamo inseguito.
«Pensavo fosse solo un po’…» Antonio cercava la parola giusta, ma alla fine si è dovuto arrendere. «Non lo so. Poi ho trovato la pecora dietro casa… il sangue… le budella… la testa era sotto il suo letto… Io e Rita siamo stati anche dal prete, giù in paese, ma non ci ha creduto. L’abbiamo chiuso nel capanno, ma non è servito. E ora Giovannino…»
Antonio ha buttato il fucile a terra e si è abbandonato in ginocchio, come in attesa della punizione. E quella è arrivata. Dai cespugli è uscito il ragazzino, Giuseppe, nudo, sporco di terra e con foglie secche attaccate al torace. Umano. Aveva sangue sulle braccia e sul volto.
«Papà?»
Antonio è scattato in piedi e si è precipitato a circondarlo con le sue braccia forti, singhiozzando come un agnello.
«Papà, io non lo sapevo» ha detto Giuseppe. Abbracciava il padre e singhiozzavano insieme all’unisono, come un duetto affiatato. Papà Zotico ai bassi e lo Zoticino tenore.
«Ho avuto paura» ha continuato il ragazzo.
Non ho potuto fare a meno di notare quanto fosse peloso, troppo per un adolescente, ma ormai la cosa non mi stupiva. Poi il pianto di Giuseppe si è spento e ho visto che anche i denti erano strani. Appuntiti, sporchi. Mi è sembrato ci fosse qualcosa di viscido incastrato in mezzo. Quando li ha affondati nel collo di Antonio era troppo tardi, ma ho alzato lo stesso il fucile. Avrei voluto fare fuoco, ma Giuseppe era già scomparso.
C’era solo lo Zotico che strisciava verso il fucile, tenendosi una mano premuta sul collo. Il sangue gli colava tra le dita, indifferente ai suoi tentativi di sopravvivere.
«Aiut…» ha rantolato. Era rivolto a me, ma non mi sarei avvicinato di un passo a quel bastardo per tutto l’oro del mondo.
«Stai zitto!» ho sibilato. Scrutavo la vegetazione intorno con l’occhio fisso sul mirino, ma c’erano solo foglie e rami. Ero stato troppo ottimista e l’alba mi era sembrata più vicina di quanto non fosse in realtà. Solo poche ore prima desideravo che questa notte non finisse mai. Ora pregavo per un po’ di chiarore che mi facesse capire su cosa puntavo il fucile.
Un movimento alla mia destra. Ho ruotato sui tacchi e ho fatto fuoco in quella direzione. Ho mantenuto abbastanza sangue freddo da non premere entrambi i grilletti contemporaneamente e non trovarmi così senza cartuccia pronta. Niente. Il colpo era andato a vuoto.
«No… no … no…» gorgogliava Antonio.
«Zitto!»
Il bosco intorno sembrava vibrare come se fosse un impaziente organismo famelico. Trattenevo il fiato per non fare il minimo rumore e restare in ascolto, ma poi iniziavo a sentire il cuore martellare sui timpani e ho lasciato perdere. Mi sono chiesto se mi convenisse ricaricare, ma nel frattempo sarebbe potuto succedere di tutto. Ho preferito tenere quell’unico colpo.
Poi un ruggito alle mie spalle, terrificante. Mentre mi voltavo sono quasi caduto, ma ho mantenuto l’equilibrio con la forza della disperazione. Davanti a me c’era Giuseppe, solo che non era affatto Giuseppe. Credo che la mia mente non sia riuscita ad accettare ciò che vedevo. Di certo mi ricordo quei denti sporchi, enormi come se non esistesse nient’altro, lapidi storte incastonate in quelle gengive nere.
Le mani si sono mosse indipendentemente dalla mia volontà. Ho sollevato ancora una volta il fucile e sarei anche riuscito a sparare – il bersaglio era enorme e a non più di qualche metro di distanza – se non fosse stato per l’ultimo stupido gesto dello Zotico.
Ho sentito lo sparo e subito decine di aghi che mi trapassavano i vestiti, la pelle, e mi riempivano il fianco, lì dove si è accumulato un po’ di grasso dopo anni di ufficio. Sono caduto a terra e l’ultima cosa che ho visto è stata la bestia che incombeva su di me e mi fissava. Questa volta sono riuscito a registrare anche gli occhi. Facevano la spola tra me e Antonio e, nonostante avessero poco di umano, riuscivo a leggervi un odio sconfinato nei confronti di entrambi. Forse era rivolto al mondo intero.
C’era qualcos’altro, in fondo a quei pozzi neri, che in un primo momento non sono riuscito ad afferrare. Ma quando ha rinunciato a sventrarmi e mi ha invece lasciato moribondo in questo bosco, dirigendosi verso le case – verso le nostre famiglie e quello che rimaneva della sua – allora ho capito. Voleva che io sapessi. L’ecatombe non era terminata.
Ho aperto il giubbotto e ho sollevato i brandelli di camicia impiastricciati. La ferita era davvero brutta. Ho stretto i denti fino a pensare che me li sarei rotti, ma non sono riuscito a rimettermi in piedi. Dovevo sbrigarmi o la bestia sarebbe arrivata alle case. Ho guardato Antonio, ma lui aveva già rinunciato. Aveva perso la sua lotta contro l’emorragia e ora giaceva immobile con la faccia di cuoio verso il cielo. Ho iniziato a strisciare.

Copertina e racconto di Flavio Torba

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Flavio Torba non esiste, ma ciò non gli impedisce di raccontare l’orrore. A voler cercare bene, però, si potrebbe trovare un ingegnere con velleità letterarie che opera nelle desolate Terre Meridionali. Ma questa è un’altra storia. Ha pubblicato racconti su Verde Rivista, La Nuova Carne, Il Buio e Reader For Blind. Ha un romanzo in cantiere e altri abomini in testa.

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