Di Erika Romano

Caccia all’orrore rosso!

La neve è talmente fitta che riesco solo a tratti a capire la direzione in cui sto andando e se ho un ostacolo davanti a me. Tremo, la pelle di lupo che mi copre, non basta per questo freddo. Incasso la testa alle spalle e stringo la mano libera dalla lancia sul corpo, è un espediente per sentirmi protetto. Sfioro con la spalla un tronco nodoso di un albero mai visto, mi sposto più a sinistra per allontanare quel tocco ghiacciato. Grido il nome della mia tribù, la voce è roca ed esce un lamento quasi incomprensibile. Nemmeno questa volta arriva una risposta. Maledizione.
Da quanto sono entrato nella foresta? Giorni? Non ho mai visto la luna sparire per poi tornare, mi sembra di camminare da sempre, lottando con questo freddo imprevisto e senza nessun riparo. Alzo gli occhi al cielo nonostante le intemperie: nulla è cambiato. Cerco la luce più forte che mi fa orientare o i disegni conosciuti: l’arco, il cervo o il topo. Non li trovo, queste stelle non sono quelle sotto le quali giocavo da bambino o dormivo da adulto.

“Cosa è successo?” mi avvicino a lei per sorreggerla prima che cada. Mi tremano le mani.
“Dolore. Forte. Aiutami.” La sua veste, all’altezza del ventre gonfio del nostro futuro bambino, è sporca di sangue.
“Chi è stato?” Quasi mi cade incontro. Lascio andare la lancia e la prendo, prima che finisca per terra. Il pallore del volto contrasta col rosso, che ora cola anche dalle gambe.
“Nessun essere visibile. È colpa mia, solo colpa mia…”
“Da dove vieni?” Comincio a camminare in direzione dell’accampamento.
“Non chiedermelo ora. Cercavo cibo. Colpa mia. No, non puoi riportarmi da loro. Sai cosa succederebbe.”
“C’è una grotta qui vicino, andiamo.”

La bufera di neve non si placa, continuo ad avanzare. Fermarsi ora vorrebbe dire non rialzarsi mai più. Il vento grida nella sua lingua segreta tutta la rabbia, rispondo nella mia. O almeno ci provo, la voce di nuovo non esce. Chissà se parlerò mai più con qualcuno? Non dovrebbe fare così freddo, è in anticipo di almeno tre o quattro lune nuove. Il buio della notte è rischiarato da una luce incerta, di cui non capisco l’origine. Per un istante, il tempo di un fulmine, tutto si illumina. A cinquanta passi da me, sulla sinistra, una figura umana con braccia lunghe fino a terra e una bocca spalancata larga quanto un tronco mi fissa. Ha gambe scheletriche, con le ginocchia piegate nel verso sbagliato. Poi di nuovo buio. È vero o l’ho solo immaginato? Aspetto il tuono, ma non arriva. Chissà se il lampo c’è stato davvero o sto impazzendo. Vorrei buttarmi per terra e gridare la mia disperazione, lei mi sta aspettando! Ha bisogno di legna per il fuoco o il gelo la coglierà impreparata. Forse è già successo cento lune fa e io, nel frattempo, sono stato qui ad affrontare i fantasmi di un inverno precoce. Il cuore mi batte forte, il sapore della paura arriva sul palato. Nonostante la stanchezza e i dolori alle gambe, inizio a correre.
Dopo dieci, cento o un milione di passi – mi sembra inutile contare – un nuovo bagliore improvviso. Stavolta c’è qualcosa di più vicino, lo osservo bene: sembrano due cinghiali che hanno appena spiccato un salto, l’uno contro l’altro per combattersi una femmina. Ne distinguo le otto paia di zampe, una mano sopra il terreno. Alla fine dei loro colli non ci sono le teste, sono uniti come fossero un’unica creatura senza occhi, naso o bocca. Grido, il terrore riesce nell’impresa di darmi di nuovo la voce. Quando la notte torna, ho già caricato il braccio. Sono un bravo cacciatore, l’istinto vince persino la paura. Lo allungo di scatto e lascio partire la lancia. Nessun rumore, nemmeno quello dell’urlo della lama nella carne della creatura. Non è possibile. Avanzo a tentoni, come un cieco, aspettandomi di toccarla, incurante mi possa fare del male. Niente. Accelero, inciampo sull’asta della lancia e perdo l’equilibrio. La neve mi brucia il viso e i palmi delle mani. Recupero l’arma e la poggio sul terreno per rialzarmi. Sopra di me, le stelle sono ancora diverse, ora compongono una croce. Riporto lo sguardo all’altezza dell’orizzonte e stavolta ciò che vedo è sicuramente reale. Potrebbe essere la salvezza, mia e di lei: in lontananza c’è una capanna. All’interno c’è una luce che si fa più chiara, sparisce per poi tornare, di certo un fuoco con cui scaldarsi. Chiedo alle gambe un ultimo vigoroso sforzo e poggiandomi sulla lancia avanzo verso quel riparo insperato.

“Dovremo starcene per conto nostro. La grotta è buia, alle narici mi arriva l’odore acre della legna spenta da poco e della cenere.
“Senza di loro non sopravviveremo.” Ha la pelle grigia e occhiaie scure sotto gli occhi. Ma sulle labbra e le guance è tornato il colore. Finalmente.
“Se fosse per loro ti lascerebbero qui a morire di fame. Gli Dei si sono presi nostro figlio, non voglio succeda lo stesso a te.” I resti della lepre sono in un angolo, mi prometto di spostarli fuori, non vorrei attirassero altri animali, più pericolosi.
“Io farei lo stesso al posto loro, abbiamo abbandonato altri in passato. I deboli sono un peso per i sani.” Tossisce, le labbra le tremano appena. Il corpo è meno caldo di ieri. Devo trovare qualcosa per coprirla.
Annuisco. “E ciò che si trova deve essere sempre condiviso, lo so. Sono stato fedele alle leggi, ma ora tutto è cambiato.”
“Le leggi ci hanno salvato la vita tante volte.”
“Ma ora rischiano di togliertela. Mi è sempre più difficile cacciare di nascosto per portarti qualcosa, sta arrivando la stagione fredda e abbiamo poche provviste. Sembra che tutti gli animali siano scappati. Abbandoniamoli, almeno sarò libero di fare quello che voglio e stare con te!”
“Torna da loro, il cielo diventa buio. Domani mi ritroverai qui.”
“Se gli Dei si avvicineranno, gli dirai che non è ancora il momento?” Stringo le sue mani.
“Te lo prometto.” Mi fissa, e come ogni volta che accade, io mi sento invincibile.

Credo di essere impazzito del tutto. Probabilmente sono svenuto e qualche belva sta per mangiarmi, perché non ho spiegazioni per ciò che vedo. La capanna si avvicina molto più lentamente di quanto pensassi: è di dimensioni enormi, nessuno sarebbe in grado di completare una costruzione così imponente. Supera l’albero più alto che abbia mai visto ed è lunga almeno 30 persone sdraiate. Le luci attirano i miei occhi, solo ora capisco: non sono un effetto del fuoco. Hanno colori diversi e continuano ad accendersi e spegnersi, sia fuori che dentro la costruzione. Casa di maghi o chissà, di Dei. Magari ho stanato il luogo in cui soggiornano quando non ci torturano o chiedono sacrifici. Se avessi alternative scapperei a gambe levate, preferisco il disonore della vigliaccheria alla sorte che mi aspetta in quel luogo misterioso, ma è l’unica possibilità di aver salva la pelle. Tutto dipenderà da chi troverò ad attendermi e dalle sue intenzioni. Sono in balia degli eventi, ringrazio di avere ancora con me la mia lancia.
Il vento ora sembra darmi tregua e permette di aumentare il passo. Presto sarà svelata la mia sorte. A poca distanza dalla grande capanna – non conosco parole adatte a definirla – l’ennesima stranezza: animali sconosciuti sono legati a un pezzo di legno scavato in modo tale che possa entrarci un uomo. A prima vista sembrerebbero cervi, ma hanno dimensioni più imponenti e sulle loro corna, ampie anch’esse, è cresciuto del muschio. Aspettano tranquilli, obbligati dalla corda in fila per due. Solo avanzando vedo che ce n’è uno davanti agli altri, da solo. Quelle povere bestie sono vittime di una maledizione oscura: il naso di quest’ultima è di un rosso acceso, come se fosse ferito, e si distingue bene anche al buio. I vecchi della tribù ne parlano nelle lunghe notti d’inverno intorno al fuoco: magia nera, magia oscura. Magia che prende energie dai morti e da Dei che non osano nemmeno nominare. Probabilmente sono spacciato e così pure colei che mi attende nella grotta, ma non lascerò questo mondo senza combattere.

“Ti prego, non andare nella direzione del sole che tramonta.” Le parole sono più sicure, i movimenti agili, sta guarendo.
“Lì loro non vanno, è più facile trovare qualcosa per nutrirti. Intanto prendi queste foglie, ti daranno forza.” Sono seduto vicino al fuoco acceso, a quest’ora possiamo permettercelo.
“C’è un motivo se la evitano. Dicono che nessuno ne è mai uscito. Meglio rischiare di essere scoperti, fidati.” Respira ancora troppo lentamente, il calore le arrossisce il viso.
“Li deridevamo insieme per le loro superstizioni, da quando sei diventata così credulona?” Con gesti lenti la osservo mangiare le foglie, masticandole per un tempo molto lungo. Osserva le fiamme, ma forse non ha le risposte che cerca perché alza gli occhi e mi fissa.
“Ero ai bordi della foresta proibita quando il bambino è voluto nascere troppo presto.”
“Poteva avvenire ovunque.”
“Non dovevo trovarmi lì, sono stata punita. Non ti ho mai detto quello che è successo. L’ho sentito dentro di me danzare e parlare in una lingua sconosciuta, poi il ventre ha bruciato troppo e sono svenuta.”
“O magari era semplicemente un sogno. Sono stati momenti difficili, poche donne sopravvivono.”
“Se ti inoltrerai in quella foresta e incontrerai gli Dei che si nascondono tra gli alberi, non potrai dirgli che la tua ora è lontana perché parleranno un’altra lingua.”
“Vorrà dire che li infilzerò con questa.” Alzo verso l’alto la lancia, per farle sentire tutta la mia sicurezza.

È chiaro il mio destino: sono arrivato qui per mettere fine a questo orrore. Nascosto dietro un albero vedo uscire dalla capanna creature che somigliano solo lontanamente agli uomini: basse e con orecchie tanto grandi e appuntite che copricapi appariscenti non riescono a coprire. Tutto quello che indossano è rosso e verde, ma di un verde acceso che non si trova in natura. Hanno in mano degli oggetti poliedrici di colori innaturali. Pietre magiche che, come ci hanno insegnato i nostri vecchi, sono usate per evocare creature mostruose. Le caricano sull’utensile di legno a cui sono legati gli animali. Sembrano solo degli schiavi, guardie con un udito affinato. Devo essere silenzioso o mi scopriranno. Dall’interno arriva un suono acuto, che nessuna voce o strumento potrebbe replicare, sotto qualcuno canta parole sconosciute. È un allarme e mi hanno già scoperto? Eppure, quei mostri della natura continuano a entrare e uscire dalla struttura come prima, simili a formiche intente nel loro lavoro. Prendo coraggio e arrivo a ridosso del muro, costeggiandolo per allontanarmi dai mostriciattoli dalle orecchie appuntite, cerco un varco per ripararmi.
Arrivo in fondo, i suoni continuano assieme ai canti. Potrebbero essere preghiere e se non le conosco vuol dire che sono proibite, dedicate agli Dei da non nominare mai. Pazzi assassini. Mi affaccio per vedere cosa c’è oltre il muro e per un istante il demone della pazzia si fa largo dentro di me, riesco a cacciarlo a stento. Uno degli alberi più grandi è stato deturpato, dai rami pendono mele marce e ridipinte. Di tanto in tanto fiammelle magiche si accendono e spengono senza bruciare il legno. In cima, a dimostrare gli intenti di chi l’ha ridotto così, un’arma appuntita, a monito di chiunque sia di passaggio.
Sono talmente abituato al freddo che ormai non lo sento più. Avrei potuto provare a prendere quel fuoco magico con qualche ciocco, ce ne sono ovunque qui attorno, e provare a bruciare la capanna, ma quest’ultima non è fatta di legno, è di un materiale sconosciuto. A parte l’albero oltraggiato e umiliato, sono solo. Mi sforzo per evitare la sua vista, perché magicamente attira il mio sguardo su di lui, e proseguo la mia perquisizione. Faccio pochi passi, più avanti vedo uscire un filo di fumo. Un varco, finalmente. Arriva un profumo di cibo cotto, i morsi della fame mi attanagliano più di prima, potrebbe essere un incantesimo. Con circospezione mi avvicino quel tanto che basta da spiare ciò che avviene all’interno. E vedo l’orrore.
In una grande sala corrono ovunque quelle caricature di esseri umani già viste appena arrivato, sempre con le orecchie dritte e attente a qualsiasi rumore. Il chiasso dei suoni e dei canti non sembra provocare in loro alcun fastidio. Al centro della sala, seduto a dare ordini, il mago rosso.
Ha barba e capelli bianchi e dai suoi occhi malvagi rimane l’ombra di quello che una volta doveva essere un volto umano: sarà stato riportato in vita da qualche Dio oscuro perché non ho mai visto qualcuno così vecchio. È gonfio in maniera innaturale, non so nemmeno se possa reggersi in piedi. Ha una voce bassa, da cui esce una risata cattiva. Tutto attorno a lui ci sono mostri di ogni tipo. Bambini rimpiccioliti e pietrificati dagli sguardi vitrei; utensili che emettono fuochi senza mai bruciarsi o suoni fastidiosissimi. Insetti orribili, grossi più di una mano, con zampe circolari che corrono veloci avanti e indietro, comandati dal mago rosso grazie a una lunga bacchetta magica. Poco più in là, altri insetti, più piccoli ma altrettanto veloci, costretti a muoversi sempre in un percorso prestabilito per l’eternità. Non riesco a capire tutto quello che accade nella stanza: sicuramente è un rito osceno, pieno di insulti alla vita. Non posso tollerare di più. Carico il braccio, lo faccio scattare e apro la mano, la lancia è libera di volare. Vedremo se i suoi incanti sono più potenti della lama. La punta gli trafigge la gola, da cui esce sangue come un essere umano qualsiasi. I suoi occhi perdono la fiamma vitale e diventano simili a quelli dei piccini trasformati in pietra. Chissà se tra loro c’è anche quello che mi è stato rubato. Scavalco la finestra ed entro, il calore mi scalda. Gli omini piccoli non tentano nemmeno di attaccarmi, scappano piangendo appena mi avvicino. Una volta morto il mostro, tutta la magia maledetta sembra dileguarsi, gli insetti si fermano e anche quella musica aliena si interrompe. Finalmente posso rifocillarmi, godendo la mia meritata vittoria sulle forze del male.

Illustrazione originale di Erika Romano

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