Pornomicidi episodio 1

Squadra pornOmicidi: episodio 1

EPISODIO 1: Il cane coi calzini

 

  1. In principio era la torre

La Questura, di prima mattina, sembra quasi un castello. Le sbarre alle finestre. Il cancello chiuso, alto, ornato di punte. Il prato tutto attorno, coperto di brina. E poi la torre, enormi blocchi di pietra dov’è agganciato un simbolo della Repubblica, sproporzionato. La torre svetta e sembra quasi penetrare le nuvole caotiche e grigie. Le finestre sono ancora tutte chiuse, è troppo presto, solo una, là in alto, nella torretta, proietta la luce giallastra nella piccola bufera atmosferica. È l’ufficio di Paolo. Chino sulla scrivania lavora da parecchio. Sua madre l’ha svegliato alle sei. Àlzati!, gli ha gridato, che sono quasi le otto. E Paolo ci crede, ogni volta, è quasi caduto dal letto per lo spavento di arrivare tardi, in cinque minuti era vestito e – si fa per dire – lavato. Al tavolo lo aspettava una colazione esagerata, e Paolo aveva mangiato tutto quello che la madre gli aveva messo sul tavolo, proprio tutto, anche quell’avanzo di pizza, leggermente intaccato dalla muffa, che alla fine basta grattare un po’ e il gusto è buono. Poi era uscito. Doveva, come ogni giorno, arrivare in Questura prima degli altri. Il servizio comincia alle otto precise quindi verso le otto e mezza, nove, massimo nove e venti, i colleghi arriveranno e gli uffici dell’Anticrimine, dei Passaporti, della Digos e del Porto d’armi, si riempiranno pian piano. E tutti quei colleghi, dopo aver bevuto il caffè e slacciato la cintura dei pantaloni, dopo aver acceso i vecchi monitor a sedici colori e aver guardato con schifo le pratiche sulla scrivania, a quel punto si ricorderanno di Paolo. E saliranno con l’ascensore, un vecchio modello privo di collaudo, cigolante, arrugginito, fino all’ultimo piano della torre. Lo raggiungeranno alla scrivania, coperta dalla penombra, dove Paolo, di spalle, sudato, starà ancora lavorando senza sosta.

È pronto?

È arrivato?

Funziona? chiederanno tutti quanti.

E Paolo risponderà, come sempre, di sì. Che il cellulare adesso prende. Che il portatile è formattato. Che quella scheda particolare, il cavo introvabile, il chip che non entrava più nel telefono nuovo, che tutto quello che andava sistemato, ora è sistemato.

Perché Paolo non vuole deludere i suoi amici, i suoi colleghi, i suoi clienti, e quindi arriva presto, prima di tutti, e lavora tanto. Che poi, al Ministero, dove consultano solo la documentazione cartacea senza alcun rispetto per la realtà dei fatti, Paolo Morgia, classe 1987, Assistente della Polizia di Stato, svolge la mansione di “tecnico delle reti”. Settimana corta, parziale esenzione dai servizi esterni, in particolare si sconsiglia l’impiego nell’ordine pubblico. Il motivo è una lesione al ginocchio sinistro, riportata durante il servizio per la partita Napoli-Milan nell’andata del campionato italiano di calcio FIGC. Era il 2016. Non è specificato, nella scheda ministeriale, che Paolo si è separato dal suo gruppo di agenti perché intento a scartare una merendina. E successivamente è rimasto indietro, durante la carica, a causa della sua massa, diciamo, non esigua. E che il susseguente tentativo, direbbe un funzionario ministeriale, di guadagnare la fuga dalle tifoserie violente, nonostante la mole non propriamente atletica dell’Assistente, lo aveva spinto a compiere movimenti scoordinati e infelici, conclusisi con una distorsione del ginocchio. Avevano provato a utilizzare il suo referto per denunciare qualche tifoso della curva, ma all’idea di Paolo, in Tribunale, che doveva sostenere, davanti a un Giudice, la tesi di essere stato malmenato durante una colluttazione, il funzionario di turno aveva risposto con un secco: No! E così non se n’era fatto più niente.

Ma quello accadeva molto tempo fa, adesso il suo compito sono le reti informatiche della Questura che però non richiedono, per la loro manutenzione, più di qualche ora a settimana. Quindi Paolo arrotonda.

Il campanellìo dell’ascensore. Ecco il primo collega.

Vieni avanti, grida Paolo. Sono quaggiù.

Ma nessuno risponde.

Muoviti, insiste Paolo, che fra poco salgono tutti. Prima facciamo e meglio è.

Paolo sente i passi ma nessuno parla, quindi si altera. Alza gli occhiali micrometrici e allontana il cellulare su cui sta lavorando.

Eccheccazzo, dice, non mi pare troppo un po’ di educazione-e-buongiorno-signor-Questore, che piacere vederla!

Paolo si alza e sta per aggiungere qualcosa. Ma il Questore lo zittisce con la mano.

Tu sei Raffaele, giusto?

Paolo annuisce. Poi ci ripensa. Non proprio, dice, sono l’Assistente Morgia Paolo.

Il Questore si ferma, sta pensando.

È uguale, dice poi. Mi si è scassato sto minchia di cazzillo, e pare che tu ne capisci.

Il Questore lancia il cellulare sulla scrivania ma Paolo resta immobile. Il Questore lo guarda ma, niente, Paolo non si muove.

Raffaé, grida alla fine il Questore, me lo aggiusti o no sto sfaccimme di telefono?

 

  1. Il divvuddì

Dopo quel primo incontro, il Questore aveva iniziato a servirsi regolarmente delle capacità tecniche di Paolo. Del resto è cosa nota, sia nelle aziende che nei Ministeri: il grande manager non è quello che sa fare qualcosa, ma colui che riconosce le abilità altrui e le impiega nel modo migliore.

Paolì, disse il Questore, che aveva finalmente imparato il suo nome, ma quanto tempo serve per apparecchiare il telefono dell’amico mio?

Quello che il Questore definiva “amico mio” era in realtà Deborah, anni diciassette, la quale aveva fatto cadere il cellulare nella tazza del bagno di un bar, visibilmente ubriaca, mentre scattava una foto alle parti intime dell’Autorità Provinciale e Locale di Pubblica Sicurezza. Il tutto poco prima che la Squadra Mobile irrompesse nel locale, il Questore riuscisse a defilarsi da una finestra, e una pattuglia arrestasse la minorenne, a seguito di Ordinanza di Custodia Cautelare in Carcere, per essere stata “vittima” di alcuni contatti telefonici, che il Giudice qualificherà estorsivi, con ricchi e anziani imprenditori della zona.

Mi raccomando Paolì, aveva continuato, lo dobbiamo far funzionare. Aggià a cancellà alcune cose. E tengo fretta, lo sai, che lo devo riportare di sotto.

Paolo, sudato, impaurito, aveva annuito si era rimesso al lavoro. E mentre lui svitava e spingeva e verificava e collegava, il Questore camminava su e giù per la stanza. Toccava uno strumento delicato e costoso, lo faceva cadere a terra, se ne fotteva. Spostava scatole e cavi, premeva i tasti di qualunque cosa trovasse. Si accese una sigaretta e scostò, schifato, alcuni avanzi di cibo.

Puccettò, disse, ogni volta che vengo stai mangiando. Datti una regolata, perché ’o poliziotto non può essere chiattone.

Paolo arrossì e il Questore continuò la sua ispezione. Notò alcuni DVD, ne prese uno, dal basso della pila, facendola rovinare a terra, e cambiò espressione.

Ué guagliò, disse, ma chista è robba buona…

Paolo alzò lo sguardo e chiuse gli occhi.

Scusi signor Questore, so che magari non sono le cose più adatte da portare in ufficio soltanto che…

Ma il Questore non lo ascoltava. Si era chinato e raccoglieva i DVD.

Bello, diceva, bello, schifezza, schifezza, bello…

Restò accucciato a lungo, studiando i reperti uno a uno. Poi si rialzò.

Questi me li pigghio, disse a Paolo, ne hai tanti, poi te li riporto. Ma per caso, ne tieni ancora, di sta robba? Di sti divvuddì.

Ne ho qualcuno, disse Paolo scuotendo le spalle.

Qualcuno quanti?

Paolo alzò tre dita.

Tre so pochi assai, disse il Questore. Ne tieni trenta?

Paolo scosse la testa.

Trecento?

Paolo ancora scosse la testa.

Uè, addirittura, tremila?

Paolo strinse le labbra senza muoversi.

E che minchia c’è dopo tremila? disse il Questore.

Ne ho circa trecentocinquantamila, disse Paolo con un filo di voce.

Ma non li hai visti tutti, vero?

La domanda del Questore in realtà non aspettava una risposta, ma Paolo annuì vistosamente. Al che il Questore allargò un sorriso pieno di denti e si avvicinò all’Assistente.

Guagliò, tu hai visto cientomila e passa pornazzi, e stai ancora qui in torretta? Ma tu meriti di più, guaglione mio. Molto di più.

E a quel punto accadde qualcosa che Paolo non si sarebbe aspettato mai: il Questore lo abbracciò.

E aveva un’erezione.

 

  1. Teoria delle catastrofi

La questione della giovane ragazza, quella con la passione per i cellulari e le estorsioni, finì bene. Ma non fu l’unico incidente di percorso che capitò al Questore in quel periodo. Una pattuglia lo trovò appartato, con l’auto ministeriale, assieme a due transessuali. Non scrissero nulla sulla relazione di servizio, anche perché, se proprio avessero dovuto, e non dovevano, ma se proprio proprio avessero dovuto, non avrebbero saputo come descrivere la scena che si erano trovati davanti. E dire che il capopattuglia aveva perfino frequentato il liceo classico, non era digiuno di lettere. Si era trovato così bene, al liceo, da fermarsi otto anni, ma non avrebbe comunque saputo come trasferire su carta ciò che aveva visto. Il Questore prese anche l’abitudine di portare, nei suoi alloggi istituzionali, ragazze vestite con quelli che, per i dettami ministeriali, sarebbero stati “abiti succinti”. Entrava nel corso della mattinata, dall’ingresso principale, e sfilava con orgoglio, mano nella mano con la giovane di turno, davanti alla fila di cittadini in attesa per qualche pratica, un passaporto, una licenza, un porto d’armi. Un vecchio cacciatore, che si era trovato spesso nella sala d’aspetto durante quegli ingressi mattutini, vendendolo entrare con una ragazza in minigonna, della quale nessuno sapeva individuare la provenienza geografica, sentenziò serafico: Il Questore sta facendo il giro del mondo in ottanta troie.

Poi, dopo qualche settimana, avvenne quell’altra cosa. Quella del bagnetto riparatore.

Il Questore abitava negli alloggi accanto all’ufficio. Il potere non dorme mai, diceva sempre. E un giorno il suo segretario, il Commissario in forza all’Ufficio di Gabinetto, portando i faldoni con gli atti da firmare, non lo trovò alla scrivania. Vieni, sentì gridare, vieni di qui. E seguendo la voce trovò il Questore nel bagno dell’alloggio, nudo, sdraiato nella vasca da bagno. Ma cosa fa, signor Questore? Faccio un bagno riparatore, fu la risposta. E fino lì, tutto bene. Pare poi che il Questore avesse obbligato questo segretario a massaggiargli la schiena, col sapone, e da qui in poi i racconti si fanno confusi, tant’è che il Commissario piange ancora quando lo racconta, e non arriva mai fino in fondo, ma bisogna capirlo, è un uomo di una certa età. Fatto sta che un giorno l’Agente all’ingresso della Prefettura, vedendo scendere il Prefetto, di cui era tra l’altro lontano parente, decise di informarsi. Eccellenza, disse, o devo chiamarti zio?, comunque volevo chiederti una cosa, ma non è che il Questore è diventato matto? E il Prefetto gli aveva posato una mano sulla spalla, scuotendo la testa. Caro nipote, aveva detto, anche se non era proprio suo nipote, ma alla fine siamo tutti un po’ nipoti dei Prefetti. Devi sapere, aveva continuato, che non si può dare del pazzo al Questore, così, di punto in bianco, sarebbe un fatto molto grave. Perché devi capire che altrimenti chiunque potrebbe decidere che il Sindaco, il Procuratore, perfino io, che siamo pazzi, e mandarci via. Non si può, caro nipote.

E il nipote aveva capito.

Il mese successivo, in una mattina di sole, il Questore scese nudo la gradinata principale e si buttò nella fontana della piazza. A dire il vero non era del tutto nudo. Indossava le pinne. Il Prefetto, interpellato dal nipote, scosse la testa. Prima di Natale il Questore si presentò, a una cerimonia ufficiale, con mezza barba rasata e l’alta metà tinta di biondo. Il Prefetto, al nipote, neppure rispose. Una sera di gennaio il Questore organizzò una sessione di tiro a segno, nel cortile della Caserma. Fece allineare alcune bottiglie di birra vuote e liberò le prostitute dalle celle di sicurezza. Diede loro la sua pistola d’ordinanza e le fece sparare alle bottiglie. Alle rimostranze del Funzionario di turno, il Questore tagliò corto, le povere ragazze dovevano imparare a difendersi, il mondo là fuori non è stato fortunato con tutti, e pure il Prefetto, qualche giorno dopo, elogiò col nipote il nobile gesto.

Finché un giorno, durante una riunione del Comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica, mentre il Prefetto illustrava le recenti criticità in ordine alla recrudescenza criminosa, il Questore si alzò. Quante strunzate, disse, e uscì dalla stanza.

La mattina successiva, dopo aver mangiato tutto quello che la madre gli aveva lasciato in vista, Paolo parcheggiava la bicicletta negli stalli di fronte alla Questura. Mentre si asciugava il sudore dal collo e dalla fronte, vide giungere un’ambulanza. La targa era militare. Scesero due uomini corpulenti e un medico. Paolo li ignorò e continuò a lavorare sul lucchetto della catena il quale, come ogni mattina, faticava ad aprirsi, e poi anche a chiudersi. Quando ebbe finito alzò la testa e vide il Questore, due omoni lo tenevano per le braccia e cercavano di caricarlo sull’ambulanza. Il Questore scalciava, il medico armeggiava con la siringa e diceva solo tenetelo, tenetelo, ma poi il Questore, vedendo Paolo, si calmò di colpo. Gli strizzò l’occhio. Al medico non sfuggì quel cambiamento e ne approfittò per avvicinarsi. Ma il Questore, serafico, sorrise anche al medico. Non serve, gli disse, mi faccia solo salutare il mio amico. Il dottore ci pensò un attimo, valutò la condotta dell’uomo, poi acconsentì e fece segno a Paolo di avvicinarsi.

Paolì, disse il Questore, questi dicono che sono impazzito.

Paolo guardò il medico, poi gli infermieri, non sapeva che dire.

Io sarò anche impazzito, continuò il Questore, ma tutti quegli altri, e gli strunz dentro ’o ministero, dimmi un po’ Paolì, quelli che scusa hanno?

Il medico allora si avvicinò e punse il Questore con la siringa. Gli infermieri lo afferrarono, spingendolo sull’ambulanza.

Tranquillo, riuscì a dire il Questore, io vado solo a riposarmi qualche tempo.

Poi abbassò la voce.

Ma ti ho fatto un bel regalo, aggiunse, una sorpresa.

Paolo aprì la bocca, per chiedere di cosa si trattasse, ma non fu abbastanza veloce. Gli infermieri chiusero i portelloni dell’ambulanza, l’autista accese le sirene e partì sgommando. Soltanto quando restò solo, senza che nessuno potesse sentirlo, trovò le parole.

Che regalo? chiese al nulla.

 

  1. Ma non si interrogano i criminali, di solito?

Paolo è seduto e gli tremano le mani. Suda. Davanti a lui, in piedi, l’Ispettore. Paolo non gli aveva mai parlato, prima, lo aveva al massimo incrociato, qualche volta a mensa, la sera in cortile, cose così. L’Ispettore lo guarda fisso, la giacca di pelle appoggiata sulla sedia, si notano le toppe sul lato interno, col nastro americano a rete metallica. La camicia è sporca, stropicciata, la pistola infilata nei pantaloni, senza fondina, il calcio in bella vista. Paolo non aveva mai parlato con l’Ispettore, ma adesso non ha scelta.

Nome cognome grado, dice l’Ispettore. E muoviti.

Paolo Morgia, Assistente.

Ora prendi quel foglio di carta, e ascoltami bene perché te lo dirò una volta sola. Sul foglio tu ci scrivi i tuoi dati, in modo leggibile, tutti. I nomi dei parenti, degli amici, delle persone con cui sei uscito nell’ultimo mese, tutte, le scuole che hai fatto, la palestra che frequenti, i tuoi profili social, tutti quanti, anche quelli finti come Samantha Succhiacazzi 2003 o Mandingo 42, chiaro? Tu su quel foglio ci metti la tua vita per intero, perché se dimentichi qualcosa…

Se dimentico qualcosa? chiede Paolo dopo una lunga pausa.

L’Ispettore lo ignora e si gira verso una ragazza, che sta battendo al computer.

Io telefono al magistrato, dice. Se questo si muove, spaccagli il culo.

La ragazza sorride e Paolo deglutisce. Se la giornata era iniziata in modo strano, aveva preso ormai una bruttissima piega. Quella mattina, quando la sirena dell’ambulanza era scomparsa, Paolo aveva scosso le spalle ed era entrato in Questura. Aveva raggiunto l’ufficio nella torretta col solito ascensore scricchiolante, si era fermato qualche istante a soppesare cosa avrebbe significato, per lui, il cambio di Questore, e aveva deciso che non sarebbe cambiato nulla. Si era anche guardato intorno, magari il suo famoso regalo era lì, da qualche parte. Ma non aveva trovato nulla e si era tranquillizzato. Aveva mangiato una merendina e si era messo a lavorare. Sistemava cellulari e dischi fissi già da un pezzo, quando arrivò il primo collega.

Che ti serve? chiese Paolo senza alzare lo sguardo.

Testa di cazzo, fu la risposta. Cosa ci fai qui? Ti aspettano di sotto, da un’ora.

Paolo alzò gli occhi e notò il Sovrintendente dell’Ufficio Servizi, in divisa, con la schiena dritta e lo sguardo incazzato.

Muoviti, continuò quello. La tua merdaccia, sparsa qua in giro, la recuperi domani. Pistola e tesserino li hai?

Paolo balbettò un Sì scomposto. Dovevano essere in qualche cassetto. Ma lui non usava le armi, non era il suo compito.

Pistola? chiese Paolo. A cosa mi serve la pistola?

Certo, disse il Sovrintendente ridendo, a che gli serve una pistola? Domanda legittima. Ma brutto coglione, se tu fossi un panettiere andresti in giro col forno. Se tu fossi un muratore ti metteresti nel culo una betoniera. Invece sei un poliziotto, quasi, e perciò usi la pistola. Prendila. E anche tesserino, manette, placca. E patente ministeriale. Prendi tutto e scendi al primo piano. Immediatamente. Che sei già in ritardo e dovevi presentarti alla Mobile alle otto. Non li guardi i servizi la sera? Che cazzo li facciamo a fare, coglione!

E quando il Sovrintendente se ne fu andato, non prima di avergli rinfacciato ancora un paio di volte le sue scarse qualità intellettuali ed estetiche, Paolo si avviò verso l’ascensore a sua volta. Aveva tempo. La baracca cigolante doveva scendere fino al piano terra, aprirsi, chiudersi, poi risalire fino in cima, prima che fosse di nuovo utilizzabile. Aveva tempo per riflettere. Mobile? Impossibile. La Squadra Mobile è un ufficio serio, dove fanno la polizia vera, non prendono chiunque. Omicidi, rapine, mafia. Io che c’entro con quella roba lì. Non mi prenderebbero neppure se lo chiedessi e io, no, non l’ho chiesto, questo è sicuro. L’ascensore arrivò e Paolo entrò. È un errore, per forza, si sono sbagliati. L’ascensore rumoreggiava e scendeva. Un errore dei computer, ecco, quelli all’ufficio servizi vanno ancora a legna, avranno confuso due righe, ora scendo e sistemo tutto. L’ascensore ondeggiava sempre più. Che fra poco i colleghi finiscono la colazione e salgono per la loro roba, non posso farli aspettare, chiarisco tutto e torno di sopra in un attimo. L’ascensore è arrivato. La porta si apre. Cazzo, pensa Paolo, è stato il Questore.

E così era finito alla Mobile, si era presentato, gli avevano grugnito contro e lo avevano portato in una stanza lontana dalle altre. All’interno due persone. L’Ispettore, nella sua camicia sporca, e una ragazza coi capelli neri, scalati, gli occhi blu, e due pistole sul tavolo.

Questo aspetta fuori, aveva detto l’Ispettore. Poi gli aveva chiuso la porta in faccia e Paolo, dal corridoio, aveva sentito le chiamate, una dopo l’altra, gli insulti, la cornetta sbattere sul tavolo ogni volta. Era un miracolo che non si fosse rotta. Poco dopo l’Ispettore era uscito.

Portatemi un cazzo di telefono, aveva gridato, che il mio è rotto.

Avevano trovato un apparecchio nuovo in segreteria e aveva continuato le telefonate. Le frasi più ricorrenti erano: io non me lo piglio, che me ne faccio, non sono un ufficio di collocamento, non sono una maestra delle elementari, non sono la tenutaria di un bordello, mandatelo a quei coglioni della Digos, ha la faccia da scemo, pesa duecento chili, io quello non lo voglio.

Dopo due ore di litigi e insulti l’Ispettore aveva aperto la porta e, senza dire niente, gli aveva fatto segno di entrare. Poi aveva formulato quella strana richiesta, il foglio con tutte quelle informazioni sulla sua vita privata.

A cosa servono i miei dati, chiede Paolo.

La ragazza non gli risponde, neanche lo guarda.

Mi chiedevo, perché ci sarebbe la privacy…

La ragazza lo guarda.

Ascoltami bene, dice. Tu sei quel coglione che sta in torretta, vero?

Paolo annuisce.

Bene. Tu e tutta la gentaglia come te non sapete un cazzo di cosa sia la polizia. Ti hanno assegnato qui, non so perché, nessuno lo sa, ma non importa. Perché adesso le cose cambiano. Quindi vedi di… cazzo.

L’Ispettore è nella stanza. Sta ruotando l’indice della mano destra in aria.

Muoversi muoversi muoversi, grida. Cadavere sull’asfalto. Sabrina, guidi tu.

La ragazza si alza, prende le due pistole e le infila nella cintura. Poi guarda Paolo.

Questo? chiede all’Ispettore.

Viene con noi. Ci sorveglia la macchina.

E la ragazza, alta ma minuta, col taglio scalato e gli occhi blu, afferra il braccio di Paolo e lo trascina, senza sforzo, nonostante la mole, fuori dalla stanza.

 

  1. Sai fare qualcosa?

Sabrina guida, muovendo il volante a scatti, per evitare i guidatori che, sentendo la sirena, si spostano sempre nella direzione sbagliata.

Coglioni, sibila.

Che cosa sai fare? chiede l’Ispettore a Paolo.

Quello, sui sedili posteriori, a ogni scatto dell’auto sbatte da una parte all’altra.

In che senso? risponde mentre abbraccia un poggiatesta.

Sai guidare la macchina?

Sì, diciamo, ho la patente, ecco.

Non sai guidare, sentenzia l’Ispettore. Hai mai pedinato qualcuno?

No.

Intercettazioni?

Mai fatte, mi dispiace.

I tabulati telefonici li hai mai spulciati?

No, scusi.

E smettila di chiedermi scusa, piuttosto dimmi qualcosa che sai fare.

Aggiusto i telefonini.

L’Ispettore guarda Sabrina, che sta aumentando la velocità, e trattiene a stento una risata.

Scusi Ispettore, chiede Paolo, ma tutte quelle informazioni che mi avete chiesto prima, ecco, a cosa servono esattamente?

Sabrina, dice l’Ispettore, in fondo alla via spegniamo la sirena. Ehi tu, coso, devi capire che qui non facciamo passaporti, non andiamo in centro città per farci vedere da quelli che pagano le tasse, e non aggiustiamo nemmeno i cellulari. Se scopro qualcosa della tua vita che non va, io ti sbatto fuori.

Ecco, risponde Paolo, a proposito. Se fosse possibile infatti io…

Sabrina blocca le ruote dell’auto, sterza di colpo e riesce a evitare un camion che non ha rispettato la precedenza.

Dicevi? chiede l’Ispettore.

Io tornerei volentieri al mio vecchio ufficio, se possibile.

Non è possibile! Adesso, quando arriviamo, tu resti vicino alla macchina e non rompi le palle.

Sabrina affonda i piedi su freno e frizione. Ferma l’auto di traverso, in mezzo alla strada chiusa. Davanti a loro molte Volanti, coi lampeggianti accesi, e poco più in là il nastro, che delimita una larga zona.

L’Ispettore apre la portiera e scende. Ritto, immobile, si guarda attorno, come a capire dove sia il fulcro della faccenda. Vede, poco distante, un poliziotto della Scientifica che sta indossando la tuta bianca, i copri calzari, i guanti. Sbatte la portiera con forza e si mette a correre contro di lui. Ma il rumore attira l’attenzione dell’uomo che chiude la tuta di fretta, e corre anche lui, con la mascherina in mano, verso il nastro Polizia. L’Ispettore lo ha quasi raggiunto ma un poliziotto in divisa alza il nastro, quello della Scientifica si infila sotto. Sono salvo, dice.

L’Ispettore si blocca. Gli punta un dito in faccia.

L’altro sorride soddisfatto e, con lentezza esasperata, si infila la mascherina.

Tu qui non puoi entrare, dice poi, quindi via, su, svelto. Lèvati!

Ti pescherò fuori da lì, dice L’Ispettore senza abbassare il dito, sai che questa cosa accadrà, e che quella faccia da cazzo che ti ritrovi non servirà a niente.

Il poliziotto della Scientifica si volta, canticchiando, e raggiunge il cadavere.

Paolo, accanto all’auto, rivolge uno sguardo interrogativo a Sabrina.

Storia lunga ragazzo, se resti qualcuno te la racconterà. Io vado, tu non toccare nulla.

Sabrina raggiunge l’Ispettore, parlottano, lui indica alcune finestre, lei annuisce e si allontana. Poi l’Ispettore vaga qua e là, parlando con gente in divisa e gente in borghese. Ogni tanto getta qualche occhiata verso il tipo della Scientifica, ma quello resta sempre al sicuro, dentro alla scena del crimine. Paolo intanto si alza sulle punte, riesce a vedere solo una porzione del cadavere. Una donna, nuda, stessa a terra accanto a un cassonetto. Vede solo il tronco, niente gambe, coperte dalla spazzatura. Guarda meglio la donna. Quei seni non possono puntare così, verso l’alto. La gravità non mente. Tette rifatte. Sul pube un grande cespuglio di peli neri, esagerato, e il colore non va d’accordo coi capelli, rossi e ricci, forse una parrucca. Poi scosta lo sguardo. Non sono pensieri da fare, su un cadavere. Se ne vergogna. Si appoggia al cofano dell’auto di servizio. Paolo immagina di estrarre una sigaretta dal pacchetto, con un gesto teatrale. Di accendere lo Zippo facendolo strusciare sui pantaloni e poi di fumare una paglia lì, accanto alla scena del crimine, con lo sguardo ombroso e i pensieri rivolti al caso di omicidio. Ma Paolo non ha mai fumato in vita sua. Quindi incrocia le braccia e aspetta.

Ma poco dopo vede passare, dall’altra parte della strada, un cane. È un pastore tedesco, con la lingua di fuori e le orecchie drizzate, che ruotano di vita propria, la coda puntata all’indietro. Bel cane, pensa Paolo. Ma non sta guardando né la coda, né le orecchie, e nemmeno la lingua. Il cane indossa due calzettoni di spugna, bianchi, sulle zampe anteriori. E Paolo, in un istante, vede tutti i pezzi che vanno insieme. Il cane. La schiena. Il seno rifatto. Le unghie del cane che graffiano la schiena della donna. I calzini sulle zampe. Il set del film pornografico. Il cane che sale sulla schiena. Niente graffi. Il divano e le luci. La donna che ansima. I calzini.

Il cane corre via e Paolo rimane un secondo immobile. Gli occhi spalancati. Tutte le immagini, milioni, che gli passano davanti. Uomini. Donne. Animali. Sudore. Movimenti. Una bocca aperta. Uno schizzo di sperma. Tre uomini ammucchiati. E il cane coi calzini. Poi, senza sapere il perché, corre anche lui.

 

  1. I cani non portano i calzini

Il viale a due carreggiate. In mezzo, la fila di plàtani. Due controviali. Il cane corre, nonostante i calzini, le macchine frenano e schivano. Colpi di clacson. Dietro, ansimante, Paolo. Il cane scarta a destra, poi sinistra, Paolo non è altrettanto agile, il ginocchio non regge, cade a terra. Si rialza. La bestia s’infila in una via più piccola, poi taglia di lato, passa fra le gambe delle signore, in attesa, davanti a un negozio di frutta. Paolo è in affanno, in ritardo, ma con un’idea. Taglia per la piazzetta e la scelta premia. Riesce a vedere il cane mentre si butta di lato, in fondo, in una via senza uscita.

Paolo ha finito le energie, rallenta, prende fiato, si guarda attorno. Non c’è nessuno. Sono bastati tre minuti di corsa e il caos della città è sparito. Avanza in direzione del vicolo. Si sporge di colpo e torna dietro l’angolo. Niente. Ci riprova. Niente.

Decide di avanzare e si tocca la tasca. Il telefono è rimasto in ufficio. Pistola, manette, tesserino. Non ha niente. Deglutisce e si volta. Meglio tornare dagli altri. È allora che sente un guaito. E subito dopo una voce, in tedesco, che grida. Paolo deglutisce ancora, avanza, un passo alla volta. C’è una finestra, aperta, quasi al livello del terreno. Vede un seminterrato. Un divano rosa caramella, luci sui treppiedi, sembra uno studio fotografico. Un altro guaito. Il cane è lì. Paolo nota una porta, si avvicina. Tocca la maniglia, la abbassa, è aperta. Spinge ed entra.

Mentre scende le scale ripide vede attrezzatura ovunque. Telecamere, un porta-abiti tubolare al quale sono appesi baby-doll di ogni tipo, e poi una scatola ricolma di vibratori, dal nero pece al verde fluo. Sente ancora la voce in tedesco che grida Scheiße, Scheiße. Paolo deglutisce e volta l’angolo. Davanti a sé uno studio in tutta regola. Divani, pannelli argentati, cineprese, tendoni bianchi. Al centro un uomo in vestaglia. Pulisce a terra col mocio mentre cerca di tenere lontano il cane, che invece lecca il pavimento, proprio dove c’è una grossa macchia di sangue. L’uomo vede Paolo. Scheiße, dice, e afferra un coltello poco distante. Paolo si mette a correre. Risale le scale con fatica, sono scoscese, in cemento, il ginocchio è dolorante, la sua pancia va su e giù, su e giù. Paolo arriva in cima e spinge la porta che però gli rimbalza addosso. In fondo alla scala l’uomo, il coltello in mano, aggredisce agile i gradini. Paolo riapre la porta ed è in strada, corre, affannato, raccoglie ogni forza che gli è rimasta ma gli sembra di restare immobile. Si volta e l’uomo è a pochi passi. Poi il ginocchio cede, Paolo a terra, l’uomo sopra di lui.

E sangue. La tempia dell’uomo fracassata, il coltello nella mano dell’Ispettore. Sabrina che colpisce ancora la tempia, col calcio della Beretta, colpisce e colpisce, ride intanto, colpisce anche se non serve più. Finché il tedesco crolla a terra.

Quello che accadde in seguito, Paolo lo ricorda a tratti. Era troppo spaventato. Si scoprì che il coltello del tedesco era l’arma del delitto, ancora sporco del sangue di Sarah Panda. Così si chiamava la vittima, una pornostar, amante degli animali, che aveva scoperto di essere stata derubata per anni. Il regista dei suoi film, nonché suo agente, il tedesco per l’appunto, le aveva sottratto un capitale. Così lei lo aveva affrontato, appena prima del ciak di “Il richiavo della foresta”, seguito del fortunatissimo “Zanna bianca e culo nero”. Ma la situazione era degenerata. L’unica cosa che Paolo ricorda bene di quella giornata sono le parole che gli disse l’Ispettore.

Dopo aver ammanettato il regista, aver telefonato al Dirigente e al Pubblico Ministero, mentre aspettavano la Scientifica, l’Ispettore aveva preso Paolo per il collo e lo aveva spinto addosso alla parete.

Cosa non ti è chiaro nella frase “resta in macchina”?

Paolo non aveva risposto.

Lasciamo stare. Come cazzo sei arrivato a questo pezzo di merda?

Il cane.

Quale cane?

Il cane coi calzini.

E l’Ispettore a quel punto aveva alzato gli occhi, si vedeva chiaramente la sua voglia di picchiare Paolo. Ma il solito pastore tedesco, coi soliti calzettoni bianchi di spugna infilati sulle zampe anteriori, aveva attraversando la strada schivando due auto.

Quel cane suppongo, aveva detto l’Ispettore. L’hai visto e l’hai collegato all’omicidio. Perché?

E così Paolo aveva raccontato dei film, i DVD, i siti internet, e per far capire di essere un esperto aveva mostrato tre dita della mano.

Tre milioni? aveva chiesto l’Ispettore. Tu hai visto tre milioni di film pornografici?

Paolo aveva quindi spiegato la questione dei graffi sulla schiena delle attrici, per via delle unghie dei cani – per quello mettono i calzini – e del seno rifatto del cadavere, dei pannelli argentati e dei faretti, visti dal lucernario. E dopo che Paolo aveva raccontato tutto, dei porno, di come si girano, di come vengono prodotti, e anche delle difficoltà, oggettive, del settore, di come ci siano troppi pregiudizi riguardo a un’ambiente che non è come lo si dipinge, l’Ispettore gli aveva sorriso e aveva detto una cosa sola, che però a Paolo aveva fatto stranamente piacere.

Vedi che allora qualcosa lo sai fare…

FINE

 

Nella prossima puntata: Paolo cerca in ogni modo di tornare al suo vecchio ufficio. Ma nel frattempo torna il braccio destro dell’Ispettore, e questo renderà la vita di Paolo molto difficile. La Squadra poi sarà messa a dura prova dal sequestro di un famoso allenatore.

 

 

 

 

 

 

 

Illustrazione by katemangostar / Freepik

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