Ero arrivato nella Capitale da tre mesi quando incontrai quel vecchio mezzo cieco.
Tre mesi di lavoro incessante nel ristorante del signor Karur a tritare cipolle, grattugiare aglio, tagliare pesce. Tre mesi di mani che puzzavano, anche se ormai non riuscivo più a sentire il cattivo odore.
Mia madre mi aveva spedito a cercar lavoro nella Capitale, ché a casa non c’era più cibo. Stavo in cucina tutto il giorno, mangiavo gli avanzi, chiacchieravo con i due aiuto cuoco e dormivo su una stuoia nel retro del locale.
Prima di andare in città non avevo mai sentito nominare il Grande Inizio, ma quando vi arrivai mi parve che non si parlasse d’altro.
Il Grande Inizio ha luogo ogni quattrocento anni e per me era una grande fortuna potervi assistere dal vivo, mi disse il signor Karur, prima di sgridarmi perché gli stavo facendo bruciare il soffritto.
«E cosa succede quando si compie il Grande Inizio?», avevo domandato.
«Nessuno lo sa. Chi l’ha vissuto quattrocento anni fa ora non c’è più».
Mi sembrò un buon ragionamento.
Venni a sapere che il Grande Inizio aveva a che fare con l’enorme clessidra che campeggiava nella piazza della Capitale. Le poche volte che ero passato per quel tratto della città, ero rimasto con il naso all’insù a fissare i granelli di sabbia bianca scivolare con dolcezza. L’orologio posto in cima continuava a ticchettare, come se dentro brulicassero miriadi di insetti che tentavano in ogni modo di uscire.
L’ossessione di sapere quello cosa sarebbe accaduto una volta che tutti i granelli della clessidra sarebbero scesi non mi lasciava dormire la notte.
Poi una mattina trovai sotto la mia stuoia una lettera sgualcita. La nascosi sotto la maglia, timoroso che Karur o gli aiuto cuoco la scoprissero. Riuscii a leggerla solo a notte inoltrata. Con grafia incerta mi si invitava a passare alla Biblioteca Centrale per conoscere la verità sul Grande Inizio.
Attesi il mio giorno libero, la curiosità che si era fatta un logorio costante dello stomaco. Vi ci andai di sabato, il giorno prima del Grande Inizio, quando la clessidra sembrava vuota, una mongolfiera trasparente nel cielo.
Ricordo che quel giorno gli abitanti della Capitale mi parvero frenetici, isterici. Si muovevano per le strade come non avevo mai visto loro fare. C’era chi spazzava il marciapiede, chi ornava i davanzali delle finestre con vasi fioriti, chi appendeva ghirlande alla sommità dei lampioni.
Nell’aria c’era la carica elettrica dell’attesa, della paura.
Le strade erano stracolme di carri, mendicanti, turisti. Tutto il Paese era in città per celebrare il Grande Inizio e partecipare alle feste che lo avrebbero preceduto. Tutte quelle persone mi ricordavano le formiche quando, da piccolo, stuzzicavo con un bastoncino le loro tane. Uscivano e si muovevano in modo convulso, alla rinfusa, senza un senso apparente.
La Biblioteca Centrale era un mastodontico tempio di pietra rosata, straripante di volumi e scaffali di legno lucido. L’odore era un piacevole miscuglio di polvere e carta consunta. I tavoli erano affollati di studenti universitari chini su grossi tomi. Non sapevo chi fosse la persona che andavo cercando, finché un vecchio in un angolo si voltò nella mia direzione.
Era un uomo dalle folte sopracciglia e dai radi capelli bianchi sui lati della testa. L’occhio destro quasi chiuso, il sinistro appannato – scoprii successivamente che era pressoché cieco. Indossava un elegante completo nero, con camicia bianca e cravatta rossa e larga.
Il suo dito scheletrico scorreva con estrema lentezza su un volume, gli occhi attaccati alle pagine giallastre.
«Per quanto la mia mente sia ormai inaffidabile, ricordavo bene che questo era il giorno in cui saresti venuto», mi disse. La sua voce era un sussurro ruvido. Non aveva alzato gli occhi dal libro che stava consultando e io ne vedevo solo la testa con la pelle macchiata.
Balbettai qualcosa, ricordo che sentivo le gambe impietrite, ma una strana attrazione mi legava a quella figura mistica.
Gli domandai se mi stesse aspettando.
«Io sono troppo vecchio per aspettare. Persino la morte ha tardato così tanto che ormai non ci spero più. Invece», chiuse il volume con estrema lentezza, «tu sì che stai aspettando qualcosa. Non è così?»
Mi feci più vicino al tavolo, timoroso. Dissi che avevo ricevuto una lettera e mi chiedevo se potesse dirmi qualcosa di più sul Grande Inizio.
Finalmente alzò la testa e mi piantò quegli occhi ciechi addosso. Raggelai, perché c’era qualcosa di alieno e allo stesso tempo familiare in quello sguardo.
«Era tanto che non vedevo il tuo volto», scoprì i denti malconci in un sorriso amaro, «ma mi è impossibile dimenticarlo».
Pensai allora che fosse un vecchio amico di famiglia, ma nessuno dei parenti di mia madre me lo ricordava.
Gli chiesi se potesse raccontarmi qualcosa su ciò che sarebbe successo l’indomani e la sua risposta mi lasciò perplesso. Per quanto sul momento non mi parvero altro che frasi sconnesse e farneticanti, nei mesi successivi le sue parole mi perseguitarono.
Mi raccontò di quando anche lui, in un’epoca lontana e diversa, aveva ricevuto una lettera che gli intimava di recarsi alla Biblioteca per sapere la verità sul Grande Inizio.
E, dopo lunghi sospiri, aggiunse: «Fai attenzione ai topi: portano il tifo e se fai un movimento brusco ti mordono, ma se si accorgono che sei sveglio, si allontanano per conto loro».
Ricordo ancora la battaglia insita nel suo sguardo: stanco, penetrante, orgoglioso. Come le pagine del volume che teneva tra le dita, pareva che un semplice movimento potesse polverizzarlo.
«Tu mi chiedi del Grande Inizio, ma queste cose non si spiegano, bisogna vederle», la voce ridotta a un sussurro, «bisogna essere capaci di vederle».
Mi ordinò di avvicinarmi. Mi mise la mano sinistra sulla testa e tenendomi ben stretto mi soffiò con dolcezza sugli occhi. Quel gesto all’apparenza insensato mi inquietò. Mi divincolai da quella stretta e mi allontanai, confuso e spaventato.
Quando uscii dalla Biblioteca Centrale, la frenesia della città era aumentata.
Mi imbattei in una fiumana di gente che cantilenava disperata. Li guidava uno straccione che con tono profetico annunciava la fine del mondo per il giorno seguente, allo scoccare del Grande Inizio.
«Godete di questa vita finché potete», gridava con voce rauca.
Nel tardo pomeriggio, al locale c’era una gran ressa e il signor Karur mi spedì a pulire il pesce.
«Dicono che domani finisce il mondo», mi disse uno degli aiuto cuoco, con fare scherzoso.
«E che allo scendere dell’ultimo granello caleranno le tenebre e sarà l’Apocalisse», gli diede manforte l’altro.
Io continuavo a tagliare di buona lena, impermeabile alle loro prese in giro e alle urla del signor Karur che ci incalzava a essere più rapidi.
Nei miei tre mesi lì non avevo mai lavorato tanto come quella sera. A notte inoltrata finii di ripulire i fornelli ed ero esausto.
Il signor Karur ci aveva salutato ore prima, per unirsi ai festeggiamenti nella piazza principale.
Per quanto mi reggessi in piedi a fatica, non potevo rinunciare a seguire i due aiuto cuoco. Per le strade c’erano uomini e donne ubriachi che barcollavano e gridavano, persone rannicchiate a terra che russavano, cappelli, scarpe e bottiglie sulla strada.
Dagli appartamenti giungevano urla e risate, accompagnate da musica.
Il fischio dei fuochi d’artificio squarciò il velo della notte e la piazza rumoreggiò. Strabordava di persone ed emanava un puzzo di birra e sudore. Le suole delle scarpe si appiccicavano ai ciottoli e venivo colpito da continue gomitate da parte dei presenti.
I due aiuto cuoco mi fecero assaggiare un liquido caldo da una fiaschetta, che mi bruciò la gola e lo stomaco. Trattenni un conato di vomito mentre loro se la ridevano e bevevano a grandi sorsate.
Alcuni ubriachi afferrarono delle ragazze. Quelle si divincolarono per un po’, ma infine cedettero, troppo stanche per opporsi. «Godiamo della vita finché possiamo», gridavano gli uomini, le fronti imperlate di sudore.
Mi addormentai, con il busto appoggiato al tronco di un albero, mentre in cielo albeggiava. Di fianco a me una donna dell’età di mia madre russava, un filo di bava le colava da un angolo della bocca.
Mi svegliai per un solletico al naso. Mi ci volle del tempo a uscire dal mondo delle ombre e dei sogni e quando lo feci mi ritrovai con un topo che mi leccava la faccia. Avrei voluto urlare per la paura, ma le parole del vecchio alla Biblioteca riaffiorarono nella mia mente. Respirai con calma e scostai appena la testa. L’animaletto mi fissò un istante, gli occhi vuoti e lucidi e se ne andò squittendo.
La piazza era punteggiata di gente che dormiva per terra. L’odore rancido di birra e sudore era insopportabile.
Mi tirai su, lo sguardo annebbiato e un dolore alla testa. Il cielo era grigio ma luminoso e mi parve che i ticchettii delle lancette si fossero fatti più insistenti.
Azzardai due passi tra tutti quei corpi e poi accadde.
Il Grande Inizio.
L’orologio della piazza cominciò a emettere una serie di rintocchi. Io ero immobile, l’unico ad assistere a quella scena.
La clessidra, ormai vuota nella parte superiore, cominciò a ruotare. Quando i primi granelli di sabbia iniziarono a scendere, i rintocchi cessarono.
Nell’aria rimase solo il rumore monotono dei ticchettii.
Mi resi conto di aver trattenuto il fiato e tornai a respirare. Intorno a me qualcuno iniziò a svegliarsi. Si guardava attorno con aria confusa, gli occhi sbarrati e inquieti.
Tornai al locale, che era rimasto aperto, e mi lasciai cadere sulla mia stuoia per dormire.
Fui svegliato nel tardo pomeriggio dagli aiuto cuoco e dalla voce del signor Karur.
«Il sindaco parlerà tra poco», annunciò, «fareste bene a venire anche voi».
La piazza centrale ribolliva come la sera precedente, ma i presenti si erano dati un contegno. L’unica prova tangibile di quella frenesia collettiva era il puzzo che si era annidato tra le vie di fuga dell’acciottolato.
Il sindaco boccheggiava, concentrato a portare avanti il discorso senza scomporsi.
«Cari concittadini, siamo testimoni di un momento storico fondamentale per la nostra città. Oggi comincia il lungo cammino che tra quattrocento anni ci porterà al Grande Inizio».
Applausi e urla di giubilo lo interruppero.
«Noi tutti abbiamo la responsabilità nei confronti dei nostri discendenti e dobbiamo pertanto iniziare i preparativi per questo viaggio impervio», alzò entrambe le braccia, «Viva il Grande Inizio».
«Viva il Grande Inizio», ruggì la folla a una sola voce.
Il vecchio, dalle folte sopracciglia e dai radi capelli bianchi, finisce di parlare. Avvicina la mano scheletrica alla testa di un ragazzino che lo ha ascoltato rapito, sebbene il suo sguardo tradisca del timore.
Il suo occhio sinistro, l’unico ancora in grado di vedere qualcosa nella semioscurità del mondo, si sofferma su quel viso che gli specchi gli hanno restituito ogni giorno negli anni della sua prima adolescenza.
Sorride, ripensando al suo passato, al suo presente.
Si domanda se anche lui avesse quell’espressione confusa e rapita, spaventata e concentrata, poco meno di quattrocento anni fa, quando aveva appreso dal suo se stesso più vecchio i segreti del Grande Inizio.
«Tu mi chiedi del Grande Inizio, ma queste cose non si spiegano, bisogna vederle», la voce si riduce a un sussurro, «Bisogna essere capaci di vederle».
Gli ordina di avvicinarsi e mette le dita scheletriche sui capelli bruni del ragazzo. Soffia su quegli occhi ancora sani, gli unici che di lì a poche ore testimonieranno un nuovo compiersi del Grande Inizio.
Copertina originale di Ilaria Salvatori
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Luca Mancin. Laureatomi in Filosofia, ho completato un master di ricerca in Studi Europei a Maastricht. Ho pubblicato il romanzo Il Giorno del Mondo in un giro (Scatole Parlanti, 2020) e i miei racconti sono apparsi su “Eisordi”, “CrunchEd”, “Spore”, “L’Ottavo”, e “Fiat Lux”. Sono inoltre editore della rivista “Eisordi” e collaboro con lo European Centre for Populism Studies di Bruxelles.
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