A Maria quei fiori facevano paura.
E pur non volendo scomodare la profondità di quel sentimento, di certo la rendevano nervosa.
In giornate come quella, per esempio, mentre se ne sta seduta composta nella macchina azzurra che scorre attraverso una distesa di peduncoli giganti, sente urgente il bisogno di chiudere gli occhi. Non sopporta la loro presunzione, quel modo di oscillare stretti tra loro, senza voler mai perdere di vista la luce.
Eppure a casa sua i fiori freschi non sono mancati mai, suo marito prima della pensione aveva l’abitudine di fare una passeggiata dopo pranzo, intorno alla piccola fabbrica di proprietà.
Quando poi un giorno ha smesso di accompagnare quei passi col fumo di una sigaretta, si è chinato a raccogliere un fiore e non ha smesso più.
“Ha fatto arrabbiare la signora Maria che le porta i fiori?” lo sfotteva il suo operaio più giovane e lui annuiva sornione.
Maria a dire il vero si arrabbiava ogni giorno: una frase di troppo, un bicchiere poggiato nel posto sbagliato. Succedeva soprattutto per cose sulle quali lui non avrebbe potuto in nessuno modo intervenire, come ad esempio la sua pelle grassa.
Maria marchiava con un segno rosso gli angoli delle lenzuola, così da mettere il lato di suo marito sempre dalla stessa parte perché a sentire lei, neanche il lavaggio a 60 gradi poteva togliere quell’unto che lasciava la sua pelle.
La macchina attraversa la distesa gialla, Maria apre i finestrino e abbassa le palpebre.
Le corre incontro un odore caldo di spighe di grano e le torna alla mente quel giorno: era in prima elementare, la lezione iniziata da poco quando d’un tratto vide entrare in classe sua madre, la gonna buona intorno ai fianchi larghi.
In quel momento capì che erano finiti i giorni a disposizione per essere una bambina.
La donna si avvicinò veloce alla cattedra e disse alla maestra che era lì per riprendersi Maria, non poteva più farla studiare, doveva andare a lavorare.
“Ma signora… è la più brava della classe…” la donna pronunciò quel mucchietto scarno di parole, pur sapendo che non avrebbero spostato di una virgola quel destino già segnato. Non aveva nemmeno finito di parlare, che la bambina era già svanita da dietro al suo banco.
“Non ti dà fastidio stare con gli occhi chiusi in macchina?”
“Solo fino a che non finisce tutto questo giallo, Beppe, lo sai che mi fa venire mal di testa…”
Aveva nove anni Maria, quando una mattina fradicia di nebbia, i suoi genitori l’accompagnarono alla stazione. Dentro la valigetta qualche cambio di vestiti rammendati e un libro, voleva continuare ad esercitarsi: una lettera dopo l’altra diventano una parola e tante parole una frase.
Ad aspettarla alla stazione di Torino ci sarebbe stata una signora che l’avrebbe portata a casa sua.
“Maria smettila” le aveva detto la sera prima la madre, armeggiando con dita lunghe intorno a capelli che non volevano diventare una treccia: “che ci vuole? devi pulire casa loro come fai con la nostra”.
“E poi” aggiunse, colpita da febbrile esaltazione, “sarà più facile perché le case dei ricchi si puliscono bene, non come da noi che le mattonelle rotte cacciano sempre polvere!”
“E se rompo qualcosa?” domandò angosciata Maria.
“Non devi rompere niente, sennò ci danno meno soldi” chiuse il discorso la madre.
Arrivati al castagneto si incamminano vicini, le buste in mano e la differenza buffa delle loro altezze. Maria si domanda se dopo cinquant’anni ci sia ancora qualcosa da raccontarsi, la risposta le sale in gola come un rigurgito acido.
Quando era a servizio a Torino, una volta al mese le toccava pulire a fondo la biblioteca. Era il lavoro che odiava di più: bisognava bagnare la pezza nell’acqua con un goccio di varechina, strizzarla forte e passarla sulle coste, mentre sulle pagine solo lo spolverino.
Iniziava a odiarli tutti quei libri, perché avrebbe voluto leggerli invece di perdere tempo a pulirli.
Una volta il Dottore entrò nella stanza mentre lei era abbarbicata sulla scala, si sedette sulla poltrona chiedendole se avesse voglia di leggere.
Lei rispose che le mancavano ancora due scaffali ma lui insistette che non faceva niente, che era pulito e per dimostrarlo passò un dito su un ripiano, la polvere che raccolse, la fece sparire sul velluto della giacca da camera, ridendo.
Maria anche rise, sfinita e poi scese dalla scala, si sedette accanto a lui e lessero per un’ora.
“Eravamo qui quando abbiamo visto quel cavallo bianco vero?” le domanda Beppe, la donna annuisce. “Era bello…” prosegue con la voce calante di chi sa rinunciare all’ascolto.
Gli occhi. Il buio. Il cigolio. Il peso sullo stomaco.
La puzza di caffè incrostato e l’unto dei fornelli. C’è un quadro oltre la sua spalla vecchia, se mi concentro solo su quello tutto finisce presto. Ci cado dentro, è giallo e puzza di terra bagnata.
Non sta succedendo.
Il dolore è nella testa, come il freddo. Lo diceva papà.
Ricordi. Domani. Domani scrivo una parola nuova e la leggo tre volte. Lavo le lenzuola.
Finito. La porta si chiude. Tanto non mi sono svegliata mai.
La prima volta che Maria vide suo marito pensò che fosse uno sbruffone col naso a patata, il classico romano chiassoso. La invitò a ballare alla festa di una vicina di casa e lei rispose: “Sì, ma solo se ti togli la cravatta.” Era gialla.
Lui lo fece, lei decise di fidarsi e non sbagliò.
Si prendono per mano e fanno qualche passo verso la macchina. Una foglia si dimena per aria come se non volesse raggiungere le altre che l’aspettavano a terra.
Maria prende fiato ed espira forte: “Ti devo raccontare una cosa…
Illustrazione di miryel
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Sono Francesca Addei, vivo a Berlino, non amo le autobiografie perché mi sento a disagio a scrivere in terza persona, ho delle storie da raccontare.