Le comari dirette al mercato trovavano, nel comportamento recente della signora Watanabe, motivo comune di pettegolezzo. In processione circondavano lo stabile nel quartiere orientale – con lo scirocco a sferzare gli ombrelli, le acconciature, e le spesse gonne in lana – chi per un finto acciacco, chi per controllare l’ora, chi semplicemente, senza bisogno di scuse, si arrestano facendo capannello sotto al balcone inghirlandato.
«Oggi è proprio una bella giornata, non è vero Assunta?»
«Magnifica, magnifica! Con questo bel sole è un piacere passeggiare. Certo il vento è una scocciatura; mi ricorda il film di quella governante maleducata. Come si chiamava?»
«Ma smettila tu e i tuoi film. Mio nipote (è dottore, sapete!?) non fa che ripetermi quanto il sole faccia bene alle ossa.»
«E per il vento che dice?»
«Lucinda aggiornati, queste cose si sanno da internet. E sarà la quinta volta in due giorni che ci parli della laurea di tuo nipote.»
«Se il nipote… come hai detto si chiama, Lucinda cara?»
«Federico.»
«Se dobbiamo dar retta a tuo nipote Federico, il medico, allora dovrebbe prenderne un bel po’ di sole la signora Watanabe.»
«Suvvia Gisella, alla Watanabe serve che quel “Sol Levante” del marito torni a casa. Forse invece è il caso che si prenda un po’ di vento in faccia, così almeno si dà una svegliata!»
Le risatine delle comari, il mastice della loro amicizia; le frecciatine alla giapponese, le armi con cui offenderla.
Ciò che le comari – e anche la Watanabe – ignorano, è l’importanza delle sue origini.
Già nel lontano e quasi dimenticato periodo Yayoi puς l’abbozzo di un legno ricurvo e di un filo in tensione erano, a tutti gli effetti, i capostipiti dell’arco. Questo almeno è uno dei tanti pensieri su cui riflette la Camicia Bianca, appesa all’anta Shoji, mentre escogita un piano di fuga dall’appartamento. I pensieri della camicia sono sfaccettati molto più della sua consistenza 100% cotone. Avesse avuto una bocca sarebbe stato tutto più semplice; sarebbe bastato pronunciare la parola “divorzio” per atterrire la sua carceriera e disarmarla. Ma la Camicia Bianca pecca di testa e il suo movimento è subordinato alle gambe del suo indossatore. Grazie all’assenza della testa, neanche si piange addosso e conosce il verso segreto dei limiti. I quali, se presi dal verso giusto, passano da impedimenti a trampolini. La donna con cui condivide l’appartamento, ad esempio, questo segreto lo ignora. Si ostina ad annichilirsi nel suo malessere interiore sprecando le orecchie ricevute in dono alla nascita. La Watanabe si affida a una vista annebbiata dal dispiacere che le mostra una camera da letto ingombra da una distesa di fuochi fatui, sparsi tra pavimento, armadio e letto.
In realtà, è sul marito che la Watanabe ha costruito le fondamenta del suo giudizio e ora se ne sta con le spalle affossate in un angolo, a fissare la federa sgombra del cuscino, sul lato destro, disperandosi perché non ospita più il suo shujin. Tormenta con le dita la spina del ferro da stiro, per colpe non sue. Dei tanti involucri vuoti annidati nella stanza ne cerca uno che possa infonderle speranza. Il suehiro, con i suoi ideogrammi di felicità, la sventola idealmente, facendola rinvenire.
«Tutto si aggiusterà» esordisce d’improvviso la Watanabe dopo ore di mutismo. Dandosi un contegno, ricaccia indietro le lacrime, aggrappandosi a un obiettivo: avrebbe rammendato e cucito fino a spellarsi i polpastrelli, inamidato e stirato colletti relegando a bisogni secondari i morsi della fame e della sete. La casa sarebbe stata lustra e splendente come mai finora e, al ritorno del suo Orochi , l’avrebbe reso fiero di lei.
La Camicia Bianca osserva impotente, dalla sua postazione privilegiata, la Watanabe piallare grinze di maglie, di orli e di intimo, uniformare i loro connotati a una visione di bellezza, standardizzata all’ordine. Le fossette della polo, le rughe del tulle, la malizia sopita del boxer, soccombono sotto la piastra ardente del ferro da stiro, impugnato dalla fanatica in kimono.
Per la Watanabe le sofferenze della camicia sono udibili al pari del frinire di un grillo a capodanno. Nella cernita è il baby doll color aragosta ad attirare la sua attenzione; regalo del marito alla loro passione di decadi fa, e il mondo si riduce a una capocchia di spillo: ripercorre con il tatto i ricami in pizzo sfibrati e stinti come le sue primavere. Il ferro da stiro si ferma sul merletto floreale. La Watanabe imbambolata, il ferro pressa, la piastra annerisce, il fumo sale.
“Amputeresti nasi e cicatrizzeresti occhi e labbra senza gli ordini del tuo Imperatore?” grida dentro di sé la Camicia Bianca, reclamando giustizia. “Perché lui se n’è andato, il tuo voto è infranto, stupida samurai. Se devi distribuire sofferenza, rivolgila a te stessa e compi seppuku.” Oscilla e scalcia con inutili arti fantasma. “Guardati! È tortura, solo tortura!” L’unica cosa che ottiene dall’impeto di rabbia è scivolare giù dall’armadio e restare impigliata con un bottone all’asse da stiro.
La Watanabe solleva di scatto la piastra del ferro: «Ajapa-! Stavo per combinare un pasticcio.» Poggia l’arma e libera la camicia «E tu, da dove spunti?»
Alla Camicia Bianca erano stati tramandati, dai trascorsi alla sartoria, i racconti sulle sue radici e il colore delle mani che avevano colto l’essenza dei suoi antenati, nei campi di cotone; e nel sentirsi afferrare da mani tanto piccole e delicate comprende che la schiavitù non dipende dai colori, ma dai tempi. Sono passati anni dalla sartoria e appena due notti da quando la Camicia Bianca aveva protetto otōsan Orochi dai morsi di una donna rivale, riportando una ferita cremisi. Si era vantata con il futon della sua spregiudicatezza. Lei, Yoroi prodotta in serie, rimasta fedele alle tradizioni sarebbe stata cancellata assieme all’impronta di coraggio e alla sua personalità da un colpo di prelavaggio.
La Watanabe, invece, dai segni sull’indumento legge un’altra storia. La ferita c’è, e conferma le sue paure. Il rossetto che sbafa il colletto la squarcia come una katana; immagina, nascosta dal trucco, la bocca voluttuosa che lo indossava alla fantomatica cena di lavoro del marito.
E poi, immagina il resto.
Tenta di sopraffare l’umiliazione che invece sfocia in lacrime.
La Camicia Bianca, preparata ad affrontare il fuoco del metallo, resta attonita. Le lacrime la macchiano con una tempesta di ricordi. Sanno di sale e rimpianti. Vorrebbe accarezzarla ma la forza di otōsan Orochi ha abbandonato anche lei.
La Watanabe in quell’insulsa camicia più di un’alleata vede la scusa su cui sfogare la sua frustrazione. Gli occhi di giada si tingono d’odio, le nocche, esangui nella stretta, stritolano in una mano la camicia, nell’altra impugnano il ferro da stiro.
«Davvero ieri si è messa a parlare da sola?»
«Oh, fosse solo quello, Annuccia bella, è stata capace…»
Lucinda e le altre si azzittiscono allo sconquasso del portone che sbatte e si richiude. Dall’androne irrompe la giapponese. Le coglie impreparate, caricando verso di loro in infradito e yukata. È una furia. Il vento le scarmiglia i capelli; il kimono variopinto e delicato, raffigurante giunchi, stride con il tormento stampato su quel volto di porcellana che divora metri e si avvicina. Non è una corsa, è una carica. La Watanabe si arresta a un metro dal capannello delle pettegole, scagliando in cielo la camicia con tutta la rabbia accumulata. Lascia siano lo scirocco e gli insulti a ghermirla: «Non farti più vedere!» grida rivolta alla camicia macchiata e a chi l’ha sempre abitata.
Lucinda porta una mano al petto.
Anna singulta.
Gisella scappa, scordandosi degli acciacchi all’anca.
Nunzia e Assunta si sentono colpevoli senza saperne il motivo.
La Watanabe le squadra con lenti e ampi movimenti del collo, respirando dalla bocca. È stanca di quelle arpie che la tormentano da settimane, stanca delle loro lacrime di coccodrillo, delle soluzioni irrealizzabili e dei silenzi al suo passaggio. Potrebbe sbottare o tornare dentro ma la sua arma è carica e le cede la parola.
Il ferro da stiro, nella folle corsa, ha collezionato graffi, ammaccature e parte dell’intonaco. Negli attimi in cui ha perso il contatto con l’elettricità, ispirato dalla padrona, è riuscito ad alimentarsi da una nuova energia compatibile: la collera. La sua anima distillata ribolle ed è pronto a dire la sua. La piastra rovente fronteggia le comari superstiti, restituisce loro i volti distorti dal metallo, dalle froge sbuffa un vapore degno di un Nihon no ryū che le purifica.
Galvanizzata dal soffio del drago artificiale, la Watanabe si rivolge a chiunque sia in grado di sentirla: «Nulla mi lega più al suo cognome. Anziché morire per dei voti a cui solo io ho creduto, rinnego la fede che indosso e abbraccio…» un lampo le illumina lo sguardo, il naso le si arriccia a sfida «Sono affari miei, chi abbraccio.»
Mentre la Ronin si dirige dal fabbro per cambiare le serrature di casa, lasciando le esterrefatte comari a medicarsi le ferite, la camicia si meraviglia della facilità con cui è passata dal rimpiangere le gambe a vederle come ostacolo, nel suo volo a vela spiegata. Finalmente potrà ricongiungersi con la sua anima gemella slim: 75% cotone, 25% elastene; e poi, una volta rifocillata e amata, sarà alquanto difficile convincere gli altri tessuti che possono tornare a essere i fiocchi di cotone, sospinti dal vento ma, alla fine, ci riuscirà. Lascerà la sartoria, forte di una sua personale brigata di colletti zan-ryū Nippon hei, con la quale assedierà il vecchio appartamento, per liberare le calze dalle prigioni che la Watanabe – e anche le comari – si ostinano a chiamare cassetti.
Copertina di Gianmarco De Chiara
Un pensiero su “Ronin con il ferro da stiro”