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La tua venuta a Safordeil coincise con la nostra nascita. Un bambino emaciato, sozzo e solo sbatteva la spalla contro le imponenti mura. Confessasti a Leone che avevi percosso quelle mura per un’intera notte e il giorno seguente prima che una delle guardie si avvedesse della tua presenza. Leone chiese quale istinto suicida ti avesse spinto fuori dal tuo villaggio, ricoperto solo di cenci strappati e privo di una benché minima arma o razione di cibo, alla mercé di Inverno e delle sue tempeste. Offristi un’espressione risoluta e stanca che annunciava la tua predestinazione e sfrontatezza: «Non temo le tempeste perché sono sordo al loro richiamo.» Questo dicesti e nostro padre ti accolse come un figlio. È stata sorprendente la tua maturazione. Innaffiavi noi di idromele eppure eri tu a innalzarti. I peli spuntavano e si arricciavano su gambe, braccia e petto rivendicando virilità. La voce passò da squittio sommesso a muggito profondo. Superasti senza apparente difficoltà le prove di gendarmeria e saresti potuto diventare la più giovane guardia reale che avesse disarmato il suo istruttore a mani nude, ma decidesti di restare garzone di taverna. Per armatura un grembiule, per armi le tue nocche. Queste scelte e la tua trasformazione ti resero unico ai nostri occhi. Anche Rulo, dopo la morte di Enia, ti considerò maturo, sbagliando. Tutte noi sbagliammo. Quando una fiamma arde, alimentata dalle speranze di un intero popolo, difficilmente si presta attenzione a ciò che resta in ombra. Passavamo giornate a disegnare con ramoscelli sul terriccio, a ridosso della stalla; ci mancava la fanciullezza. Provammo a richiamarla alla stregua dei ricordi: le fattezze di Vion e Iosen bambini, di Leone con la barba folta e casta, di te, mingherlino e solo; i falchi resi pulcini, gli alberi semi. Inzaccherate di fango con l’odore di vita impresso dalle foglie della pineta tornavamo la sera a palazzo, sotto lo sguardo di disappunto delle fantesche.
Potendo incastonare il tempo in una bolla di sapone, avremmo scelto quei giorni.
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Kaneq si schiarisce la gola: «Tutto molto bello, ma cosa c’entra il mio diventare uomo con Inverno?»
«Per comprendere la disfatta della nostra casata dobbiamo tornare a parlare di noi, tutto è intrecciato come gli arazzi della biblioteca e i filamenti portano sempre a un’unica disfatta.»
Strabuzza gli occhi: «Safordeil è caduta? Allora cosa ci facciamo qui?»
«Non Safordeil, la nostra casata.»
«Mi arrendo. Continuate.» incrocia le braccia al petto «Che fine hanno fatto quei giorni felici?»
Sospiriamo e riprendiamo a parlare.
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Finirono. Ci crebbero i capelli. Lunghi, selvaggi, sfumati di biondo per le altre quattro sorelle, viola per noi due. Crebbero in una notte di 4 spanne con le punte a titillarci le natiche. Iosen liberò tutti i falchi e per l’euforia decise di uscire dalla tenuta per cercare i Druidi. Armeggiasti con l’argano per aprire il ponte levatoio. Sentimmo da così vicino il clangore delle pulegge che le vibrazioni del pesante impalcato in legno ci solleticò i piedi. Iosen galoppò lanciandoci baci e burlandosi delle sue doti di cavallerizzo.
Non fece più ritorno. Sperammo che la viltà avesse spezzato i suoi giuramenti mettendolo al sicuro ma, in cuor nostro, temevamo fosse caduto preda delle tempeste d’Inverno.
Vion ebbe i nostri stessi pensieri. Spaccò il liuto e seppellì i suoi versi assieme alle vesti del fratello. Fummo noi a scavare nuovamente nella terra soffice che accoglieva i cimeli del bardo, quando tu lo riportasti a noi. La sua faccia grattata via dagli strali del gelo era irriconoscibile ai più e il braccio guantato sollevato al cielo mille e più volte, sempre pronto ad essere tana per gli artigli dei suoi rapaci, era un moncherino inumano, quasi cristallizzato. Vion vide quel corpo ridotto a scempio e pianse in maniera sommessa; ti maledì per avergli ucciso la speranza, mentre il popolo mugugnava sulla tua tempra sempre robusta e sana.
Alcuni dei suoi falchi tornarono e guidarono alla tenuta di Safordeil, Exogh il Druido. Un solo druido macilento e guasto fin nelle ossa, non la congrega trionfante annunciata nelle leggende. Se Enia fosse stata ancora in vita, sarebbe sembrata una bambina paragonata a Exogh. Era un nano con la tisi. Benché mastro alchemico, Inverno gli aveva elargito amputazioni e amnesie; sconfitto dalla vecchiaia, coltivò le tradizioni come fossero figli e trovò nelle piante il seme della sua discendenza. Lo scoprimmo dai suoi pensieri ovviamente, il solo parlare costava a Exogh enorme fatica.
Leone pretese una giornata solenne. Vennero rispolverati per l’occasione i costumi delle tradizioni e le campane suonarono a festa. Ai braccianti fu intimato di lasciare vanghe e aratri e tenere in mano i cappelli da sventolare al passaggio delle gemelle. Nostro padre tenne un discorso accalorato benedicendo il rito della Semina. Lo tenne proprio sulla terra arata che sarebbe dovuta servire al prossimo raccolto. La fece calpestare dai sudditi. Lesse dai testi sacri il peregrinare di interi popoli per assistere al miracolo della reminiscenza, la nascita delle Carnali.
«…E quei tempi torneranno, gente di Safordeil, perché Inverno può essere sconfitto, la Montagna può essere fermata!»
Gli applausi e le urla d’incitamento, per quanto fragorose, si persero nel vuoto del campo arato marezzato a solchi.
Rimanemmo deluse dal rito. Exogh tagliò sei ciocche dalle nostre teste e, zoppicando, passò davanti a ognuna di noi con le dita nel sacchetto, recitando: «Molti capelli, un universo.» lasciandoci cadere nelle mani un seme nero legato con crine viola.
«Perché li chiami universi?» chiedemmo al druido.
«Perché diventeranno tutto ciò che voi siete.»
Senza acqua o concimi spuntarono sei piantine all’alba. Al vespro si potevano già distinguere i boccioli delle piante: aquilegia, agrimonia, artemisia. Il pigmento dei petali preso in prestito dai nostri capelli. Tre fiori per sei gemelle. Il sodalizio del Legame era compiuto.
Le due Carnali dai capelli paglierini furono battezzate Agri e Monia. Il significato mistico del loro universo è la gratitudine.
Le altre due, dalla capigliatura color polline, si chiamarono Arte e Misia. Il significato mistico del loro universo è la temperanza.
Exogh doveva proclamare i nostri nomi: “Aqui e Legia” e dare un senso ai nostri universi ma guardò tra la folla. Ricordi? Il suo volto divenne cereo, lo sguardo vitreo. Certe di perderlo provammo a leggere dentro la sua paura, ma spirò sul pulpito in posa solenne come fosse stato reclamato da un Dio che aveva appena rivisto e furono gli astanti a dare un significato al nostro universo: maleficio.
Incuranti del veleno messo in circolo dalle dicerie, uscimmo dalla tenuta dopo 16 anni d’isolamento. I racconti di sgorganti ruscelli, alture boscose in armonia con case sugli alberi e sentieri di giada erano bieche menzogne. Le colline, private del verde, erano bozzoli di falene. L’aridità era l’unico colore, l’umidità e il gelo gli unici sapori a poggiarsi sulle nostre labbra.
“Figlie mie, il rituale protettivo bastava solo per le mura del palazzo, non sarebbe stato in grado di preservare l’intero villaggio.” mentalizzò Leone.
«Avresti dovuto proteggere l’intera vallata.» dicemmo.
“Io non ho mai avuto il vostro potere. Adesso però sarà tutto diverso…”
Bloccammo la sua voce mentale e restammo ad ascoltare il lamento della valle.
La maledizione tanto evocata dagli stolti si compì.
Agri e Monia, durante un tentativo di rivitalizzazione del terreno, perirono in una rivolta degli affamati ai frantoi. Perdemmo le loro mentalizzazioni allo stagliarsi della Montagna vivente verso l’orizzonte. Fuori dalla tenuta, Inverno ci aveva scovati facilmente.
Fantasticare decenni a oliare un meccanismo perfetto e poi, al varo, la prima leggera pressione per metterlo in moto lo sfalda come se fosse stato costruito da un cieco ubriaco. Così si sentiva Leone. Così soffriva nostro padre: «Sei, sei: è stato predetto! Sei Carnali fermeranno Inverno, la Montagna Strisciante!» schiumava dalla bocca incolpandoci per la morte di Agri e Monia. Fu l’unica volta che ci parlò a voce. Smarrito il suo ideale di trionfo, reclutò uomini in arme lungo le pigioni e le baracche e cavalcò verso la disfatta. Perso il suo appoggio, con l’isteria dilagante per l’avvento d’Inverno, cedemmo ai più biechi istinti. Quando il Luppolo Magico fu dato alle fiamme, svestimmo i panni delle pastorelle e indossammo il cinereo pelo del lupo, pronte a sbranare il nostro gregge. Mentalizzammo la violenza per sedare la rivolta. Tu, Kaneq, usasti uno sgabello a mo’ di scudo per difenderci. Sembravi così ridicolo armato unicamente di un “poggiaculi”, almeno così apostrofarono la tua arma prima di riceverla in faccia. Lo sgabello si scheggiò in più punti e assieme a esso si spezzavano ossa, volavano denti, si amplificavano grida. Una mattanza. Provarono a colpirti con forconi e quante più pietre trovassero lungo le vie di fuga, ma la tua pelle sembrava assorbirle e ogni gesto violento ti provocava sorrisi. Neanche questo rammenti? Tenevi a bada decine di paesani con il tuo impeto? No. Un coraggio indomito e un vigore imperituro si mossero a diga allo straripare della ribellione. Fu grazie alla tua rabbia, quella che vedemmo la prima volta nella grande sala, la rabbia cieca che alimenta la sofferenza dell’essere diversi che hai sbaragliato chi voleva linciarci.
Protette dal tuo corpo, traendo forza dalla tua frenesia l’alimentammo con la collera che ci montava dentro, mentre vedevamo il fuoco e il fumo avviluppare tutto il nostro mondo, io e Legia mentalizzammo la tristezza, l’odio, l’impotenza di anni passati ad aspettare la disfatta. Rulo fu il primo a crollare colto da spasmi. Strizzammo l’idiozia che serbava nel cranio e la facemmo schizzare fuori dalle orecchie. Altri, nell’arco di una decina di piedi, fecero la stessa fine. Solo tu, sopravvivesti. Incuranti dell’ecatombe e sotto lo sguardo attonito delle nostre sorelle, immergemmo le dita in quella poltiglia di sangue e, mentre i superstiti fuggivano dalla nostre menti assassine, noi due scrivemmo sulla cenere:
Φ Ϛ Ξ
Assieme parassite
“Enia si sbagliava. Erano queste le rune giuste. Ognuna di noi si sente speciale. Adduciamo a riprova di tale portento un bagaglio di esperienze per giustificare le vite che si sono sacrificate affinché la leggenda potesse compiersi. Ma di quale leggenda parliamo? Non c’è libro o saggio a testimoniarla nella sua interezza. Il volo di una rondine radente al suolo in cerca di insetti era un’esperienza comune nelle colline di Safordeil. Quello era il vero prodigio, ma abbiamo preferito proteggere una storia vecchia di secoli.” mentalizzammo Aqui e io. E il nostro pensiero arrivò assordante alle nostre sorelle più dei saccheggi nella tenuta di Mudrael, da parte della stessa comunità che l’aveva considerata sacra fino alla reggenza di Leone.
Spinte da un individualismo inatteso ci scoprimmo spregiudicate e tentammo di sondare l’insondabile. Sondammo te, Kaneq. Cancellammo l’incanto della nostra crescita e lo sostituimmo con altre tre parole:
ξ Ψ
Ritroviamo la Fonte
Aza e Lea terrorizzate da quella scritta nata al di fuori del quartetto mentalizzarono: “Quale Fonte?”
“C’è una Fonte per Inverno. Dobbiamo ritrovarla per porre fine alla carestia.”
Tentarono di dissuaderci. Entrammo in quattro nel palazzo dei nostri natali in cerca di abiti e viveri e ne uscimmo in due. Lasciammo Arte e Misia a riordinare macerie. Non le tacciamo di codardia, loro non avevano colto il significato dietro le rune e abbandonare il circolo protettivo delle mura pareva una pazzia.
Due di noi assassinate, altre due ad accarezzare macerie. Ma non fuggimmo sole da Safordeil. Con cinque ombre varcammo le grandi mura, con la luna calante a sbeffeggiarci con il suo pallido sorriso e a rischiarare le tempeste all’orizzonte. Le nostre coscienze legate da uno scopo comune: arrestare Inverno.
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«Chi altri è venuto?» Kaneq ci interrompe nuovamente.
«Vion e Isealda.»
Pallido in volto bisbiglia: «Ho memoria solo di voi due. Com’è possibile?»
«Siamo sulla pelle d’Inverno, respiriamo i suoi frastuoni. Leone è morto e con lui le nostre sorelle, Enia, Iosen e Rulo. Vion forse lo sarà presto e la colpa è nostra, se solo…»
«Bastaaa! State zitte.»
«Consentici di terminare il racconto.»
Scuote la testa. Inarca la bocca: «Dov’è Isealda?»
«L’abbiamo dovuta lasciare…»
«No, NO!» si alza di scatto, «Abomini cosa le avete fatto?» La tormenta prorompe nel suo maggior ruggito; i venti, slegati dalle loro briglie, squarciano la tenda. La coltre di neve ci invade e reclama il nostro calore. Kaneq continua a gridare ma è Inverno, attraverso la tormenta, la sola cosa udibile.
“Kaneq, calmati.” mentalizziamo. “Isealda è viva. Vion si è ferito durante la marcia e lei è rimasta ad accudirlo. Fosti proprio tu a trovar loro riparo fra le radici sradicate degli alberi morti, a est del sentiero.” instilliamo in lui il ricordo di quanto detto. “Torneremo a prenderli.”
Il furore nell’animo di Kaneq si spegne. La tormenta supera i resti del nostro campo e prosegue nella sua esistenza.
Ci stiamo assiderando.
«Per Mudrael!» Kaneq raccatta delle coperte vicino al fornelletto e ce le mette addosso. Ci strofina energicamente. Lui ha il calore di centinaia di primavere. «Non fate scherzi, voi siete le uniche a poterlo fermare.»
Prima di svenire scorgiamo con quanta facilità ci solleva.
Apriamo gli occhi avvolte dal buio. Sdraiate su morbide stuoie, nel ventre di roccia, abbiamo i visi rivolti all’insù e al posto del cielo notturno ci accolglie una schiera di nubi di pietra. Una grotta?
«Si è fermato.» l’eco allibita della voce di Kaneq rimbalza sulle pareti, ci riporta alla missione a dispetto di ogni ferita o assideramento. «Non sento più vibrare la montagna. Inverno si è fermato.»
L’oro dell’alba rischiara gli anfratti della grotta. Kaneq è seduto nei pressi di una conca naturale, riempita dall’acqua che stilla dalle pareti.
Carponi, ci specchiamo nella sua superficie. I nostri volti gemelli sono lividi, i capelli annodati fra loro.
Lui sorride, il suo, di volto, non conosce stanchezza: «Oh! Vion dovrà includere anche me nelle future ballate! Gli farò omettere la parte in cui ho trovato fortuitamente l’ingresso della grotta, ma» si addita «il qui presente ha contribuito affinché la leggenda divenisse realtà. Ha portato le Carnali nel suo ventre dove si sono battute e l’hanno sconfitto!»
«Kaneq, noi eravamo svenute.»
«Eravate prese dalla lotta mentale.»
«No.»
«Ma la Montagna si è fermata. Voi l’avete fermata.»
Isealda, aiutaci: «Noi abbiamo seguito una traccia, dato retta a un’intuizione.»
Kaneq esulta: «Che vi ha portato a sconfiggere Inverno.»
Mudrael, guidaci. Verghiamo le rune nell’acqua:
ξ Ψ
«Quindi questa è la fonte? Adesso cosa farete?»
“Kaneq, chi ti ha insegnato a leggere le rune?” mentalizziamo.
La gioia del momento si eclissa dalla sua faccia.
“Sei cresciuto con noi, al riparo, nella tenuta. Il mondo esterno ti era precluso eppure, nel condurci per i sentieri impervi della Montagna – dove nessun uomo ha mai messo piede – mai un’esitazione o un dubbio sono balenati nella tua condotta. Non temi gelo, neve o qualsivoglia intemperie.”
«Perché non parlate? Perché mi dite questo?»
“Ti abbiamo raccontato la nostra storia ma abbiamo celato aspetti della tua. Avevi bisogno di vederli tu stesso, affinché potessi crederci.”
E gli restituiamo il passato. A partire dal suo nome così antico che poteva essere tramandato solo da un essere secolare quanto l’era in cui ci troviamo. Scoprire che sin dal nostro primo alterco – quando piombò nella grande sala – noi non riuscivamo e non siamo mai riuscite a sondarlo lo terrorizza. Gli mostriamo la sua esistenza senza malattie o ferite di sorta. Con quanta facilità ha difeso le nostre vite perché nessun uomo potrà mai contrastare la sua forza. E ancora disturbiamo l’anima di Exogh nel ricordo della sua morte quando ha riconosciuto tra la folla oltre quel guscio di ragazzo, l’essenza di chi lo ha mutilato e depredato. “La leggenda è stata tramandata male. Inverno non avanzava, Inverno cercava.”
Fuggi verso l’uscita della grotta. Ti liberi dalla mentalizzazione con tale violenza da lasciarci senza fiato ma il nostro compito non è finito. Ci sorreggiamo l’un l’altra correndoti dietro. Ti troviamo ai margini di quel confine impervio, frastagliato e bianco con l’intenzione di buttarti nel vuoto. Forse dici qualcosa, di sicuro urli il tuo dolore alla tua Montagna. Lei ti ricambia offuscando il cielo di nembi.
Riprendi fiato. Il respiro ti esce dalla bocca come tormenta: «Rammentate la filastrocca che ci cantavano da piccoli?»
«Noi ricordiamo tutto, Kaneq.»
«Io no. Ricordo solo una frase: Bandito Inverno, nulla sarà eterno. Ho sempre desiderato essere il cavaliere che avrebbe ammazzato la Montagna di pietra.»
«Non bisogna necessariamente uccidere per placare.» Gli poggiammo le mani sulle spalle. «Smettila di essere sordo al richiamo della tempesta. Siamo certe che anche ora stia urlando il tuo nome.» «Un solo volto, innumerevoli aspetti. Tu non sei il cavaliere, sei il perché.»
Sgusci via dal nostro contatto e ci guardi implorante «Chi sono?»
«Sei la neve che acceca e distrae; sei il legame che ricuce lo strappo tra uomo ed entità; sei la fonte in cui Inverno potrà specchiarsi per darsi finalmente un volto.
Esplori le cavità delle guance e delle narici come se ti fossero estranee. Chiudi gli occhi «Da quanto mi cerco?»
«Voi siete stati i primi a dimenticare chi eravate o cosa steste cercando.»
Spalanchi lo sguardo «E la mia Isealda? Il fido Vion? Voglio tornare da loro.»
«Chi si amputa un braccio muore, chi lacera un’anima soffre di eterni tormenti. Se la abbandonerai rinnegherai te stesso e loro morranno, e con loro l’intera Safordeil, giacché la Montagna continuerà a cercarti.»
I piedi disegnano orme sulla neve. Tremi. Lacrime ti solcano le guance e, di rimando, dalle guglie rocciose scroscia la pioggia.
«Ma non sarai solo. Ci saremo noi ad allietare il tuo presente con le gioie del passato di ogni uomo e donna che ha vissuto con noi, a Safordeil. E forse, una volta che l’avrai accettato sarai tu a narrarci l’albore di tutte le genti che ebbero popolato il regno.» “Assieme mai divisi.”
Lo prendiamo sottobraccio con la promessa ancora fresca nella mente, in attesa che il suo cuore si sobbarchi il disgelo e si compia la leggenda.
Copertina di William Bersani
2 pensieri su “Assieme mai divisi #2”