Copertina di Octadigital al racconto di F. Spiedo

Di tutti i mondi possibili

Kanashi beveva lentamente del tè da una tazza bianca chiazzata di rosso, sorseggiava sotto lo sguardo trepidante di Yoru che voleva un’altra storia. La città di Mugen era piombata nel silenzio più totale, ricoperta dalla notte che s’era infilata tra gli alti palazzi. La casa delle sorelle era l’unica luce in un mare nero di tempesta.
– I pesci che mangiano le farfalle li hai più visti? – chiese Yoru poggiando le sue grosse mani umidicce da bambina sul piccolo tavolo. Tanto gli occhi di Yoru erano frenetici e irrequieti quanto quelli di Kanashi erano calmi, come galleggianti su nuvole bianche. La tazza di tè si staccò dalle labbra rosse e sottili, aperte a far intravedere dei denti perfetti e ben allineati. Tutto nella sua persona era calibrato e in armonia, le parti si completavano in una ricetta eseguita con maestria: una secolare tradizione prendeva vita attraverso il suo corpo. Kanashi annuì.
– I pesci li ho incontrati ma non mangiano le farfalle.
Sedute, l’una di fronte all’altra, dipingevano un’accurata immagine familiare: il piccolo lume illuminava il tavolino basso e la lunga veste di Kanashi, di un rosso acceso e vivo, così diversa dalla bianca tonaca della sorella bambina. Sul fuoco c’era ancora il bollitore e l’acqua si gonfiava in infinite bolle che, scoppiando, riempivano i brevi silenzi.
– Le inghiottiscono in un sol boccone, hai detto – il viso di Yoru s’era fatto scuro come la notte che aveva mangiato anche l’ultima luce. Dalla piccola finestra non si vedeva altro che il buio.
– Certo – rispose Kanashi, con le mani incrociate sull’addome guardava la bambina con un grande sorriso di comprensione. Certo che i pesci inghiottono le farfalle – continuò – ma non per mangiarle. Quando la corrente è troppo forte le bocche dei pesci si aprono e ingoiano tutto quello che scorre nel mar di Umi, comprese le farfalle, ma le farfalle non muoiono. Non tutto quello che s’ingoia poi muore – concluse spalancando la bocca e mangiando l’aria, sorridendo buttò indietro la testa e il collo bianco e marcato parve alla bambina pieno di farfalle.
– E cosa fanno le farfalle? – chiese Yoru con le mani davanti alla bocca per paura che una di quelle potesse entrarle in bocca.
– Le farfalle fanno il solletico alla pancia dei pesci e parlano tra loro finché la corrente non si placa e i pesci, nascosti e lontani dai grandi predatori, le sputano fuori. Nel pianeta Umi, se sei una farfalla, devi aver paura soltanto dei cacciatori: esseri alti cinque metri armati di grandi retini.
Kanashi imitò il verso dei cacciatori: un lungo soffio di morte e sofferenza. Yoru si fece ancora più piccola di quel che era, le gambe strette al torace e le braccia strette attorno alle gambe. Alti cacciatori le sfilavano nella mente, con le braccia lunghe e i visi pallidi: sferzavano l’aria con i grandi retini blu.
– Io odio i cacciatori– sbuffò la bambina – i cacciatori sono cattivi. Perché Kanashi permette ai cacciatori di uccidere le farfalle?
– I cacciatori del pianeta Umi non sono i più pericolosi – e gettò uno sguardo fuori la finestra, prima di lasciare il suo posto e andare verso il bollitore che oramai borbottava sconsolato. La notte avanzava veloce, a passi leggeri e invisibili.
Kanashi pareva molto più alta di quel che era: i capelli raccolti in una lunga treccia e i piedi piccoli, le gambe slanciate, tutta tesa verso il cielo. In piedi, accanto alla bambina, sembrava di un altro pianeta. Aveva i piedi stanchi e gli occhi pieni di chi ha camminato molto.
– Sul pianeta Mun tutte le notti, appena cala il sole, ogni porta deve essere chiusa a chiave per impedire ai lupi di mangiare i bambini. I bambini – continuò Kanashi – hanno la carne tenerissima e i lupi lunghe zanne affilate, artigli d’acciaio.
– Non potrei mai vivere sul pianeta Mun. – Yoru fece di no con la testa. Queste storie, di mondi lontani che non aveva mai visto, erano l’unica soluzione alla solitudine che si portava dentro. Di tutti i mondi possibili, perché le era capitato proprio questo?
– E neppure sul pianeta Yama potresti – la pungolò Kanashi: lei che di mondi ne aveva attraversati molti conosceva quel terrore nero che aleggiava negli occhi della bambina. Il terrore si vince con la curiosità.
– Cosa c’è sul pianeta Yama?
– Gigantesche capre che trainano delle carrozze sgangherate su per le montagne. Gli abitanti vivono dispersi sulle vette altissime, c’è sempre vento e fa molto freddo: le capre giganti hanno un pelo morbidissimo che viene usato spesso per proteggersi, le temperature sono così basse che il naso si congela e ti cade dalla faccia.
– Tu però ce l’hai ancora il naso, Kanashi bugiarda – finalmente rise, una breve risata che rimbalzò nella stanza.
– Non mento, non mento mai – sorrise Kanashi e con voce accorata continuò – Le capre con la lunga barba mi hanno trascinato in giro per le piccole città di montagna, ma non ho mai messo il naso fuori dalla carrozza. La carrozza è imbottita di lana spessa e soffice cosicché il naso non ti cada.
– Le carrozze sono come quelle del pianeta Ten? – ricordi di vecchie storie s’affollavano nella mente di Yoru: pianeti lontanissimi e sconosciuti, dai nomi simbolici e abitati da esseri fantastici. Le gambe le tremavano, scosse dalla inconcludente voglia di mettersi a correre e seguire le storie della sorella maggiore.
– Meno ricche e meno pulite ma sono simili, esatto. Puzzano di capra e non di cavallo ed elefante. E soprattutto non volano e non vengono ancorate al mare quando bisogna fermarsi. Le carrozze del pianeta Yama hanno le ruote, enormi ruote di legno, mentre quelle del pianeta Ten si poggiano in groppa agli elefanti.
– Come sta Hiyamachi? – era il suo essere preferito: forse erano i suoi buffi piedi oppure il fatto che ad ogni ritorno dal suo mondo Kanashi portasse una vaschetta di cioccolata. Regalo di Hiyamachi per la piccola Yoru, ripeteva tutte le volte Kanashi imitando la voce di quell’essere a metà tra un uomo e una foca.
– Oh, sta benone. È sempre in gran forma. Lavora ancora sul pianeta Hoshi, tra i pagliacci con le teste giganti: è sempre lì con i suoi grandi piedi da foca a controllare i biglietti all’ingresso. Uno spettacolo nello spettacolo. – anche Kanashi voleva bene all’eterno Hiyamachi.
– Non è più tornato al suo pianeta? – chiese con interesse la bambina.
– Sul suo pianeta – cominciò Kanashi pesando le parole – non è un momento felice. La situazione è…delicata.
– La regina è forse in pericolo?
– La regina delle Lumache è…
– Cosa? – la voce tremante che prevede sofferenza e dolore.
Kanashi le prese una mano e la considerò una piccola donna, a cui tutto può essere detto.
– La regina è morta, schiacciata. Kasai è in subbuglio: gli uomini di fuoco stanno distruggendo tutti i boschi. Gli animali combattono ma la morte della regina ha compromesso gli equilibri. Hiyamachi non tornerà più a casa.
Uno spicchio di luna era apparso nel cielo: flebile e pallido come una speranza. Yoru aveva gli occhi lucidi. Kanashi distolse lo sguardo e fissò la parete bianca: i racconti di Hiyamachi e gli ultimi ricordi del pianeta Kasai, rigoglioso e pullulante di vita, s’ammassavano nella sua mente. La stanchezza iniziava a contagiarla.
– Si è fatto tardi, è ora di andare a letto.
– Solo un’ultima storia, solo una. – un lungo silenzio siglò l’accordo tra Kanashi e Yoru. La bambina si sforzava di tenere gli occhi aperti, pieni di lacrime, ma l’ostinazione non avrebbe retto a lungo: Kanashi le si sedette di fianco, oggiando la testa alla sua. Con voce calma recuperò un’altra storia. Qualcosa che le facesse tornare il sorriso.
– Esiste un pianeta – disse bisbigliando – nel quale accadono le cose più fantastiche che abbia mai visto: ogni volta che due abitanti si incontrano, l’uno cede all’altro qualcosa e viceversa, cosicché una volta salutati non siano più chi erano prima. Puoi lasciare la tua casa per andare a comprare delle uova e tornare completamente diverso da prima, il corpo si trasforma.
– Ma è doloroso? – interruppe Yoru, la voce appena spaventata. Sembrava terribile quel che accadeva agli abitanti: la bambina sentiva le ossa allungarsi, la pelle ritirarsi e il colore dei capelli cambiare lentamente. L’immaginazione s’era fatta reale, a metà tra sonno e veglia.
– Alle volte può esserlo, cambiare non è mai semplice. Però non c’è alternativa, ad ogni passo e ad ogni parola qualcosa cambia: i corpi si scontrano e vanno in mille pezzi. Quando poi si ricompongono ci sarà sempre qualcosa di nuovo che inizialmente non c’era.
– E cosa succede quando due corpi si mischiano? – chiese la bambina sbadigliando.
Kanashi procedeva lentamente tenendola tra le braccia: era leggera nonostante il sonno e le gambe pigre. L’avrebbe portata a letto, come tutte le sere. Come avrebbe fatto tutta la vita, da quel giorno maledetto.
– Cambiano, ogni parte si trasforma e dopo qualche scontro, passato qualche anno, sarà difficile per chi si sia perso di vista riconoscersi. Fondersi, mischiarsi, è l’unico modo che hanno gli abitanti per non morire: chi resta chiuso nella propria casa, chi non permette al proprio corpo di cambiare, muore. Lentamente ingrigisce e perde colore.
– Ci sono le farfalle? Ci sono anche i cavalli e gli elefanti? – Yoru faceva domande senza ascoltare realmente la risposta.
– Ci sono i cavalli e anche le farfalle, persino i cacciatori. Ci sono grandi carrozze – Kanashi entrò nella piccola stanza della bambina – che attraversano le strade, enormi computer che controllano gli abitanti e rendono la vita più semplice. Grossi uccelli attraversano il cielo e permettono di percorrere il pianeta così come grandi pesci solcano i mari: enormi palloni, come quelli di Ten, vengono ancorati sulle spiagge o nelle montagne.
– E di notte ci sono i lupi che mangiano i bambini?
– No, di notte le verdi piante russano e tutto tace. Si vedono soltanto piccoli puntini luminosi nel cielo e una grande palla bianca: ci sono degli uccelli dagli occhi tondi che fanno la guardia. È un bel posto dove vivere, ti piacerebbe.
– E se mi scontro con Kanashi, avrò gambe nuove? – aveva chiesto d’un tratto la bambina.
– Piccola mia, se soltanto potessi – Kanashi aveva perso lungo la strada tutta la sua serenità, era la notte che le entrava dentro.
Spostò il suo sguarda da esploratrice, insultò il destino e le sue gambe forti e i suoi piedi stanchi. Yoru la guardava con occhi innocenti, non c’era rabbia e non c’era accusa in quelle parole. La sua domanda era una domanda pura. Sembravano dirle – non preoccuparti Kanashi, non è colpa tua. E invece alla sorella parve ancora una volta di aver insultato il destino con quelle sue stupide storie. Trascorse così il tempo sufficiente affinché Yoru s’affacciasse al mondo del sonno.
– Come si chiama? – chiese Yoru, con gli occhi chiusi e la bocca aperta che rappresentava l’ultimo baluardo di coscienza. Il grande letto bianco l’aspettava. Sembrava aver già dimenticato il suo triste destino, perché nonostante la sua età bambina sapeva che dimenticare è il miglior modo per sopravvivere.
– Ha un nome bizzarro e antichissimo – le sussurrò Kanashi sistemandole la testa sul cuscino – i suoi abitanti la chiamano Terra.

Foto di copertina di Octadigital

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Francesco Spiedo nasce a Napoli e qui scrive. Ingegnere e Istruttore di Arti Marziali, ha pubblicato alcuni racconti e scritto un romanzo e mezzo. Si dice che in teatro vadano di moda le sue commedie ma la sua vita resta una tragedia greca.

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