Qui la prima parte
L’acido del reflusso mi brucia in gola, ormai è diventata un’abitudine. Tiro su la lampo dei jeans, lei è ancora appoggiata con la schiena allo specchio del camerino, la gonna alzata e le mutandine abbassate. Cristo, se ho voglia di un caffè.
“Sei uno stronzo” mormora. Mi volto per guardarla ma i capelli biondi le coprono il viso.
“Dovresti sistemarti, Giulia. Potrebbe arrivare qualcuno”.
“Carlo, ti rendi conto in che casino ci siamo messi?”
Sbircio fuori, solo manichini. I loro occhi vuoti mi giudicano. “Nessuno ti ha costretta”.
“Mi hai chiesto di entrare per vedere se la camicia era della tua taglia. Se avessi saputo delle tue intenzioni, ti avrei mandato a quel paese”.
“A proposito, mi sta bene?” Spogliata così è bellissima, ma sposto lo sguardo. Non me la merito, ha ragione.
“Vaffanculo, non voglio vederti mai più”.
“Capito, tanto non me la potevo permettere. Ci rivediamo tra altri quattro anni?”
“Cosa dico a Francesco?” Sta per scoppiare a piangere, ma almeno si è tirata su gli slip di marca. Le passo una mano sui capelli per sistemarli, mi lascia fare e la stringe tra la guancia e il collo. Strane le donne, sempre detto. Ma almeno sembra calmarsi.
“Niente, tutto, una parte selezionata. È una tua scelta”.
“Facile per te, solo come un cane. Chissà perché”.
“Chissà perché. Francesco mi ha detto del codice a barre. Non sarò mica il primo con cui è successo”.
La sento irrigidirsi, e ora la mano è bloccata da una morsa.
“Ma cosa cazzo dici? È la prima volta! Tu non sei un cliente qualsiasi! Davvero credi basta essere eccitate e andiamo col primo che capita?”
“È piaciuto a te quanto a me”.
“E cosa significa? Mi hai messo nella merda e mi tratti come una puttana”.
“Scusami, hai ragione”. Faccio forza col braccio e mi riprendo la mano.
“Sei cambiato”.
“Il tempo cambia tutti”. E i litri di caffè non aiutano.
“Francesco era stato contento di incontrarti, sono passati quattro mesi e ancora aspetta una tua chiamata. Potresti almeno rispondere ai suoi messaggi. Non mi ha detto cosa fossi diventato”.
Uno che finalmente è riuscito ad averti. Sospiro e conto fino a dieci. Di solito funziona. “Te credi di essere Miss Coerenza?” Non aspetto la risposta, esco dal camerino e riemergo nella grande sala piena di vestiti da uomo che non indosserò mai.
“Sono sempre la stessa”. Mi segue, abbassandosi la gonna. Avrebbe dovuto specchiarsi, ora sembra un’altra persona.
“Mi pare sia successo qualcosa di diverso dal solito, oggi. Non ti pare?”
“Questo non c’entra…”
“Da quando ti vesti tutta in tiro? Hai pure le mutande firmate!” Afferro una maglia lilla. “Magari ora ti piace pure questo schifo”.
“Cosa c’entra? Parli di cazzate, siamo nei casini!” Mi blocca il braccio e rapidamente ripiega la maglia. Se la rovinassi non le basterebbero due mesi di stipendio per ripagarla.
“A me non pare”. Provo ad allontanarmi ma lei mi ferma appoggiandomi la mano sulla spalla. L’ho sognato tante volte un momento così e ora ho solo voglia di farmi un bicchierino senza zucchero.
“Carlo, mi sei venuto dentro. Dovremmo andare in farmacia, non so se serve la ricetta…”
È sempre la stessa. La sua ingenuità mi fa impazzire.
“Ti piace la tua camicetta?” Mi inizia a tremare la mano e il respiro diventa irregolare. Cazzo, momento sbagliato.
“La smetti di dire stronzate?” Alza la voce, è brutto segno. Preferisce rischiare il posto che starmi ad ascoltare.
“Ti fa schifo. Ti conosco. Il rosso acceso ti dona, ma avresti ucciso pur di non portare quelle frange. Sono proprio gentili a non farvi indossare una divisa, chissà come mai”.
“Un giorno mi è presa così e l’ho comprata, un esperimento non riuscito”.
“Certo, gli esperimenti mal riusciti si indossano sul posto di lavoro, come no. La finisci di prendermi per il culo? I tuoi armadi sono pieni di questo schifo così come il mio stomaco è pieno di caffè”.
“Da quando lo bevi?”
“Da quando la Soma mi ha fatto questo”. Alzo la manica e mostro il codice a barre. Non posso nascondere il tremore. Mi guarda interrogativa. “C’è una macchinetta in questo schifo di posto?”
I suoi occhi azzurri si fermano su di me, preoccupati. Annuisce e si volta, cammina verso una porta chiusa che apre con una chiave. “È solo per i dipendenti, ma nessuno farà storie se facciamo un’eccezione”.
Lo stanzino è più stretto del camerino. Me la ritrovo appiccicata ed è una bella sensazione. Piego il bacino indietro perché non senta la mia nuova erezione. Non è il momento.
“Ne prendi molto?” mi chiede, mentre infila un paio di monete nel distributore. Offre lei, è proprio un giorno da ricordare.
“Fino a distruggermi lo stomaco. Possibile non lo capisci? C’è chi ci è finito in ospedale perché avevano esagerato la dipendenza nei codici”. Afferro il bicchierino appena il liquido caldo finisce di cadere. Ne bevo subito una sorsata ustionandomi lingua e palato, ma ritrovo la tranquillità.
Mi guarda di nuovo, per qualche minuto senza parlare. Nei suoi occhi vedo scorrere stupore, affetto, rabbia.
“Se loro sono dei bastardi, non significa lo siano tutti. E soprattutto non ti giustifica a esserlo con me”.
Mi asciugo dal viso le lacrime dovute al bruciore. Vorrei avere un aspetto credibile. “Possibile che tu non riesca a capirlo? Da quanto tempo indossi questa merda firmata? Dico anche a casa”.
“Ti vedo molto interessato al mio look, molto meno a come risolvere questa situazione”. Stringe le braccia. Nonostante tutto è stata gentile con me.
“È grande questo posto. Quante persone ci lavorano?”
“Un centinaio, ma non le conosco tutte..”
“Quante donne sono rimaste incinta negli ultimi anni?” Sorseggio quello che resta del caffè, lo sento arrivare nel mio stomaco e da lì scorrermi nelle vene. È uno dei peggiori mai assaggiati, ma per il momento mi basta.
“Oddio, Carlo mi sto stancando di parlare di massimi sistemi. Si fanno pochi figli da almeno trent’anni”
Le sorrido, lei aggrotta le sopracciglia. Mi dispiace, ma non ce la faccio più a tenermelo per me, devo parlarne con qualcuno.
“Daniela, sicuramente. È stata fortunata, si è fatta tutta la maternità, poi non le hanno rinnovato il contratto”.
“Come mai?”
“Tagli al personale, ufficialmente. Ma con noi colleghe si era confidata: non era compatibile geneticamente col codice a barre e temeva la mandassero via. Ma vorrei capire cosa c’entrano i cazzi di Daniela con…”.
“Altre?” Getto il bicchierino di plastica vuoto nel cestino.
Si irrigidisce e sospira. “Livia ci prova da tanto, ma niente. Anche a Sandra non spiacerebbe”.
Rimaniamo in silenzio, ad ascoltare le conversazioni dei manichini dalla sala grande, sembrano saperne molto più di noi.
La sua voce trema, si sta sforzando di dire qualcosa.
“Non è possibile…”
Alzo le spalle. Mi dispiace per lei ma con lo sguardo stupito e le labbra dischiuse è davvero bellissima. Poi l’espressione cambia. “Federica! Sono andata al compleanno di suo figlio, 4 anni, bellissimo. E lei ha il codice a barre”.
I suoi occhioni azzurri implorano speranza, quante volte i miei la cercavano nei suoi. E dovrò essere crudele quanto lo era lei.
“La legge sui codici c’è da tre anni, Giulia. Hanno vinto su tutto”.
Stringe i pugni, respira a stento. Prova a spostarsi ma c’è poco spazio e ci ritroviamo ancora più vicini. Sento il suo respiro sul mento. “Certo che ne racconti di storie”. Rimane in silenzio, cerca nel mio sguardo la verità. La sua voce è poco più di un sussurro. “Ma sono pazzi? Oddio, così non si fanno più bambini!”.
Poggio la mia guancia sulla sua, in modo da contenermi. Mi viene sempre più voglia di baciarla. “Credo vogliano controllare una variabile fino a ora imprevedibile. Se vuoi puoi partorire ma devi andarglielo a chiedere per favore e saranno loro a dettare i tempi”.
Non so se lo fa apposta, ma il suo corpo è sempre più aderente al mio. La spoglierei e ricomincerei da capo. “E io allora me ne vado da questo posto schifoso. Me lo devono togliere no? È la legge”.
La abbraccio e lei si lascia stringere. Allontano un po’ la testa, quanto basta per guardarla in volto. “Te lo tolgono, certo. Assieme a tutti i vincoli imposti nel contratto: l’eccitazione con i clienti, le ore in meno di sonno. Ma lo faranno anche per quelli che ufficialmente non esistono? Puoi esserne sicura?”
Gli occhi spalancati guardano nel vuoto, la bocca aperta. Chissà se ho avuto quella stessa espressione il giorno dell’uno più uno. “E quindi…”
“Quindi se te ne vai e non hai figli, non saprai mai se dipende da loro. Quindi, immagino io, tra un paio d’anni le grandi aziende proporranno la riduzione dei nostri stipendi e dovremo scegliere se assecondarli o rischiare. Faccio finta di non pensarci, ma se fossi sicuro di vivere così tutta la vita, salirei all’ultimo piano di questo centro commerciale e mi butterei di sotto”.
Non ho voglia di essere guardato adesso e riavvicino la testa alla sua. Restiamo così, uno a proteggere l’altra in silenzio. La sento sussultare, forse sta piangendo. Le carezzo la schiena. Il suo calore scioglierebbe il richiamo del caffè, ne sono sicuro.
“Scusate, c’è qualcuno?”. Voce maschile di persona non giovane. Cliente rompicoglioni, senza di te forse saremmo rimasti appiccicati così.
Si allontana, per quanto concede lo stanzino, e si asciuga gli occhi. Fortunatamente il trucco non si è guastato, sarà resistente alle lacrime: di questi tempi è l’ideale. Vedo la sua espressione trasformarsi. Gli occhi si illuminano e le labbra si allargano in un sorriso aperto, spensierato. Forse sono stati ancora più stronzi con lei. “Resta qui”. Si sistema i capelli ed esce, lasciando la porta socchiusa, tanto quanto basta per poterla spiare in azione. Parla a bassa voce, sfiora le spalle e le braccia all’uomo, gli fa un complimento. Se lo facesse con me riuscirebbe a vendermi pure delle ballerine da uomo, a lui indica una giacca blu e lo accompagna allo stesso camerino in cui è entrata con me. Questa volta resta fuori. Ancora sorrisi e contatti, quindi lo sconosciuto si allontana per andare alla cassa.
Ritorna da me: “Puoi uscire, mica sei un ladro!”
Vado nella sala grande anche io, i manichini ci lanciano occhiatacce, dovrei svignarmela prima che si arrabbino davvero.
“Sei diventata brava. Quanto gli hai fatto cacciare?”
Lei alza le spalle, ancora di buon umore. “Dipenderà da me?” si carezza il braccio all’altezza del codice a barre.
“Sei contenta che ti sono venuto a trovare?” La seguo mentre sistema dei pantaloni su uno scaffale.
“Perché non hai chiamato Laura, quando sei tornato?”.
“E chi ti dice non lo abbia fatto?”. Fisso le sue caviglie per evitare lo sguardo.
“Non saresti venuto qui, altrimenti”.
“Lo sai qual è il vero motivo per cui è finita con lei. Me ne sono andato apposta da Roma”.
“Non c’è stato mai niente tra me e te, la sua reazione ancora non la capisco”.
“Niente?”
“Non abbiamo fatto niente, dai. Quello intendevo”.
“Sì, ma è diverso e lo sai anche tu”. C’è qualcosa nello stomaco che brucia più del caffè, è ora di tirarla fuori. “Perché hai scelto lui?”
Lei continua a sorridere ma si morde le labbra. “Carlo, me lo devi promettere. La cosa dell’ultimo piano non la devi pensare più, ti prego”.
Fisso il pavimento “Va bene, era solo un momento. A proposito di Francesco…”
“Francesco dovresti chiamarlo, ha bisogno di parlare.
“Ti vuole lasciare”.
“Lo so, non sono stupida. Scopiamo tanto e basta, da quando mi hanno innestato i codici”. E ti pare poco? Ad averti io tutte le sere nel mio letto…
“Che fai la notte quando dorme?”
“Sistemo la casa, leggo, guardo la tv. Come tutti noi d’altronde”. La sua espressione serena la trovo ora insopportabile. Si tortura le dita con le unghie ma non riesce a smettere.
“Io guardo fuori dalla finestra, tra le quattro e le cinque e conto tutte le luci accese. Sei, sette, otto. Quelli sono come me, loro possono capirmi. Solo loro”.
Ci abbracciamo di nuovo e sono contento, così non vedo più quel suo nuovo maledetto sorriso.
Copertina di Gianmarco De Chiara