Una notte bianca

Una notte bianca

Racconto di Simona Visciglia

(Un omaggio a Fëdor Dostoevkij e a Luchino Visconti)

Immaginate un ponte e, sotto, l’acqua dei canali che fa fatica a tracciare un orizzonte, i riflessi che si animano di finestre e ombre di gabbiani, come in un mondo sottosopra.
Con lo sguardo potreste abbracciare solo macchie di colore e inventare strade dove non ce ne sono.
Oppure potreste vedere una giovane donna, avvolta in un lungo cappotto scuro, appoggiata al parapetto, con l’aria di chi ha cattivi pensieri.
Che è quello che vede lui, un uomo sulla sessantina, mentre cammina a passo lento, forse tornando a casa, un quotidiano sotto il braccio e una sigaretta consumata tra le dita.
Il giorno era stato grigio, per poi lasciare il posto a un bianco lattiginoso e infine a un tramonto sbiadito, come in ricordo di un sole assente.
L’uomo rallenta, poi si ferma, attratto dalla figura solitaria che sembra una foto in bianco e nero, di quelle che piacciono tanto ai turisti. Resta un tempo indefinito a osservarla, questa giovane donna che forse piange – lo intuisce da un lieve sussulto delle spalle, intermittente, appena percettibile.
Potrebbe andare via, tornare alle sue cose, accendersi l’ennesima sigaretta. Potrebbe.
Ma è già dentro la sua storia e non sa nemmeno lui perché.
«Mi perdoni, signorina, se sono inopportuno…», le dice avvicinandosi, «ma mi è sembrato che stesse piangendo e… una ragazza non dovrebbe mai piangere da sola, soprattutto qui, in questa città meravigliosa». Cerca di essere leggero, di non apparire troppo invadente e precipitoso – in fondo è un estraneo e lei così giovane.
La donna si scuote, sentendo quella voce, come quando ci si sveglia da un lungo sonno all’improvviso. Lo guarda, voltandosi appena verso di lui, una ciocca di capelli le cade sugli occhi. Sugli occhi lucidi e grandi nei quali lui si perde subito.
Resta senza parole, l’uomo, ed è lei che allora continua: «Venezia è splendida, soprattutto in questa stagione, anche se mette un po’ malinconia, non trova?»
«Se è solo un po’malinconica, meglio così» le risponde, accennando un cauto sorriso.
Lei guarda di nuovo lontano, tirando su col naso: «Sa che è un bel tipo lei?» si schiarisce la voce, sciogliendo il nodo che aveva in gola, «Se ne va in giro per la città attaccando bottone con tutte le signorine sole e malinconiche?»
Lui non capisce se lei stia scherzando, se quel tono improvvisamente limpido della voce sia velato di ironia o forse di fastidio e vorrebbe scusarsi, di nuovo, vorrebbe andare via, ma sente che non può.
Le nuvole intanto viaggiano veloci e le inghiotte la sera, che arriva, che si adagia sui contorni delle cose, sui mattoni scrostati, sui loro visi.
«Sarò sincero, vedendola qui, così… per un attimo ho temuto il peggio. Che ne dice se facciamo due passi, le do la mia parola che sono una bravissima persona, forse solo eccessivamente ansiosa!» lo dice con un sorriso tale che lei non può non credergli: lo sente vicino, come se lo conoscesse da sempre.
Si stringe nel cappotto di lana, l’umidità non lascia scampo, quasi la si può vedere in una miriade di goccioline minuscole che imitano la pioggia e che pioggia non sono.
Si incamminano, piano, l’uno di fianco all’altra.
«Ne offre una anche a me? Avevo smesso, ma ora…»
Lui prende dalla tasca del giaccone il pacchetto mezzo vuoto, le fa scudo con le mani accendendole la sigaretta: «Mi chiamo Marcello e lei?»
«Maria. E le sono grata, Marcello»
«Ma si immagini, per una sigaretta?», senza dirselo sanno che non è per quello che lei gli è riconoscente.
La città scivola sotto di loro che fluidamente proseguono, tra calli e viottoli così stretti da escludere tutto il mondo altrove. In nessun altro luogo il silenzio è pieno come in questa città.
Le loro voci, come il lieve sciabordio delle acque, vanno e vengono.
Si raccontano, come se ognuno conoscesse già dell’altro tutta la vita prima di questo incontro, come fossero intimi e si fossero solo persi di vista per qualche tempo.
«Fermiamoci qui», Marcello indica la porta di un’osteria, «Non ha fame anche lei?»
Entrano, il posto è accogliente, le luci soffuse, gli avventori pochissimi.
Seduti l’uno di fronte all’altra, finalmente possono guardarsi negli occhi. Ed essere sinceri: «Prima aveva ragione, lì sul ponte. Piangevo, sì. E quasi speravo che qualcuno venisse a dirmi Un giorno tu ti sveglierai e vedrai una bella giornata. Ci sarà il sole e tutto sarà nuovo, cambiato, limpido. Ne avevo bisogno. Ed è arrivato lei, come se la stessi aspettando».
«O come se io stessi aspettando lei, Maria… Ma perché non mi racconta cosa è successo, vuole?»
Maria affonda lo sguardo nel bicchiere di vino, poi si guarda intorno come per cercare il coraggio e inizia a confidare il suo strazio a Marcello.
Gli racconta di una storia vissuta senza avere l’opportunità di capirla fino in fondo. Di un ragazzo, un amico, che non era soltanto un amico.
«Ci sentivamo spesso, lui viveva altrove. Sapeva tutto di me e io di lui. Ci chiamavamo o stavamo a scriverci messaggi a ogni ora del giorno, a volte anche di notte, quando non riuscivamo a dormire. Sa quando si viaggia in sintonia? Poi abbiamo iniziato… ehm… sì, insomma, ad andare a letto insieme. E la situazione si è complicata. Sentivamo che le cose erano cambiate, ma non siamo riusciti a capire come» parla tutto d’un fiato, sa che se si ferma non riuscirà più a continuare «E mentre cercavamo di capire cosa stesse succedendo tra di noi… lui se n’è andato. All’improvviso. E io non sono riuscita a salutarlo, non c’ero. Non ero con lui quando è morto. E non sapremo… non saprò mai cosa eravamo diventati» sente di nuovo il nodo in gola, poi aggiunge: «È successo tre settimane fa. E io continuo a cercare risposte».
Marcello ha ascoltato con affetto il racconto di Maria. Vorrebbe prenderle la mano e dirle che le vuole bene. Le dice invece che il dolore a un certo punto si addolcirà, che verranno giorni in cui sarà pungente e giorni in cui sarà più sopportabile. Le dice che ha tutta la vita davanti, che arriveranno altri amori, altre persone alle quali dire le cose non dette. Le spiega che non è sempre necessario capire cosa abbiamo dentro, perché tutto si sistema, prima o poi, e trova il suo posto nella nostra vita, anche le lacrime.
Vorrebbe dirle che è bellissima, di una bellezza pura.
«Venga, usciamo. Camminiamo ancora un po’. A volte basta poco, cara Maria. Posso dirle che mi è cara, vero?»
«È una strana notte e può dirmi quello che vuole. Perché, ora lo so, bisogna dirsele le cose, quando si sentono, sennò rimangono attaccate addosso e scavano, fino al midollo. Mi fanno male le ossa, lo sa?», le viene da sorridere con nostalgia, «Il mio amico diceva che a viver qui si finisce con le ossa fradicie. Non amava particolarmente questa città, ci vedevamo quasi sempre da lui. E ora cerco ricordi di noi ovunque, soprattutto qui, ma stanno svanendo. Scivola tutto in quest’acqua torbida. Sente com’è scivoloso, qui?»
«Si tenga al mio braccio, Maria».
Le piace il contatto con lui. Incastra la mano dentro il tepore di un estraneo, che è già familiare. Il caldo che mancava, in questa lunghissima notte di ottobre.
Non si fermano più. Le stradine si moltiplicano sotto il loro incedere tranquillo. Tutto tace, in lontananza rumori di barche che solcano il canale e di quelle ormeggiate, che dondolano sfiorando i muriccioli vischiosi.
La città di notte muore, ma dolcemente. L’aria corrompe gli intonaci dei ponti, rosicchia gli scalini, disegna crepe nei muri, avvolge Marcello e Maria che squarciano con le loro parole il freddo pungente.
Le loro parole scaldano, quasi brillano, nelle tenebre dei sotoporteghi.
«Se continuiamo, andremo incontro all’alba» sussurra lei, la voce un po’ roca.
«E non era quello che voleva, Maria?», gli piace pronunciare il suo nome, come una parola antica, come in un rito, come quello di una donna amata.
«Arrivare al domani, di nuovo. Non cercava questo? E ha visto? Non manca poi tanto. Ma forse è stanca? Vuole che la riaccompagni a casa, vuole che ci salutiamo?»
«Restiamo ancora un po’. Voglio essere sicura che il buio scompaia. Continui a raccontarmi la storia di quel viaggio a San Pietroburgo, mi piace come racconta le cose. Me le fa vedere, coi suoi occhi. Le scrocco un’altra sigaretta, che ne dice se ce la dividiamo?»
«Volentieri e per forza, guardi, è l’ultima».
Dalle labbra di lei a quelle di lui: questa intimità esplode come un temporale estivo.
Certe volte le anime si cercano, certe volte si trovano.
«Le racconterò della prima volta che ci sono stato. Ero giovanissimo, forse avevo la sua età, Maria. E…»
Le parole di lui, le risposte di lei, le divagazioni, le riflessioni di entrambi si sovrappongono, si intrecciano, vanno incontro a un’alba quasi rosa. Piano piano la notte si scioglie. Si apre qualche finestra. Un gatto si stiracchia sui gradini di una chiesetta bianca. I traghetti del mattino, con il loro carico di lavoratori sonnambuli, solcano il canale. L’acqua torna ad avere un riflesso verde-smeraldo. E infine ci sono loro due che sono rimasti vivi contro il buio che ora si trasforma in luce.
Dovranno separarsi. Forse si ritroveranno, per farsi ancora compagnia, per dirsi.
«Abito da queste parti… quanta strada abbiamo fatto senza accorgercene! Dobbiamo rientrare, non crede, Marcello? Ma io e lei… ci rivediamo, eh?»
Adesso Marcello i suoi anni li sente tutti, perché sa come andranno le cose, ma a lei non lo dice. A lei dice soltanto che si rivedranno, lì su quel ponte dove si sono incontrati.
Si abbracciano, salutandosi. Lui prova una tenerezza struggente, tenendola stretta a sé, lei sente di volergli bene.
«Quello che prima ti sembrava impossibile diventerà semplice, normale. Non ci credi?» le bisbiglia all’orecchio.
Se ne vanno, camminando in direzioni opposte.
Lei con l’odore di tabacco e patchouli, rubato dalla giacca di lui, in quell’abbraccio caldo.
Lui con il cuore stracolmo di commozione, di promesse, di giovinezza.
Prima di tornare a casa, l’uomo si ferma su un ponte, dove la luce inizia a essere impietosa, quasi da fare male.
Apre quel giornale che tutta la notte si è portato dietro e ne estrae una lettera.
La tiene tra le mani, la rilegge, sussurrando le parole che cadono giù, nell’acqua e nei riflessi quasi dorati.
La notte ha scritto altre cose su quella che avrebbe dovuto essere la sua ultima lettera, il suo addio.
Lascia cadere il foglio spiegazzato, i fiotti leggeri se lo portano via.
Diventerà semplice. Io sono sicuro. E presto. Anche domani.
Ed è già domani.

Questo racconto è un omaggio alla novella Le notti bianche di Dostoevskij e al film omonimo di Luchino Visconti.

Foto originale di Lulù Withheld

*****

Simona Visciglia. Calabrese di nascita, toscana di adozione, ci ha messo un po’ a capire che voleva scrivere e anche adesso non è ancora convinta di poterlo fare. Perennemente indecisa, distratta, un lavoro part time e un marito a tempo pieno, ama spostarsi in treno perché non ha la patente e ne va fiera. La sua vita da pendolare le permette di rubare storie in giro, di fantasticare guardando fuori dai finestrini e di prendere appunti su un taccuino pieno zeppo di geroglifici che non sempre poi riesce a decifrare. Sogna di poter comprare un giorno una casa a Venezia e di accettare il tempo che passa.

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