Caienna2

Tutti innocenti alla Caienna

 

Appena compiuti undici anni si aprirono per me le porte dell’Istituto delle suore della Carità. I miei non riuscivano a tenermi a casa e decisero che la mia educazione sarebbe stata un problema delle sorelle. Credevano di riuscire a raddrizzarmi.
Lo chiamavamo la Caienna quel posto, pieno di corridoi umidi, stanze ammuffite dai soffitti alti e mobili antichi mangiati dalle tarme. Dormivamo in quattro per camera; materassi duri come il cemento, lenzuola azzurrine e coperte di pile marrone.
La Caienna era divisa per aree in base all’età: c’erano quelli di quattordici anni, i grandi, che stavano all’ultimo piano. Loro potevano vedere il mare dalla finestra. Noi di sotto dovevamo accontentarci dei versacci dei gabbiani.
I mediani, dai dodici ai tredici anni, stavano nel mezzo mentre al primo noi, i pulcini, che avevamo dai dieci agli undici anni. Tra tutti eravamo circa una trentina.
Le interminabili giornate erano scandite da un programma comune molto rigido: sveglia alle sette, colazione schifosa con biscotti secchi e latte annacquato. Orazioni con le suore e, dalle otto alle dodici e trenta studio. Poi ci si spostava in mensa dove ci servivano il pranzo; pasta scolorita e verdure al vapore. La carne solo una volta alla settimana, del pesce neanche a parlarne. Al pomeriggio si giocava tutti insieme. Cena e alle nove a letto. Questa era l’esaltante vita alla Caienna.
Chi gestiva la baracca era Suor Milde, che dal latino vuol dire dolce, o gentile, non ricordo. Indossava occhiali con grosse lenti e si aggirava per i corridoi come un guardiano. Una vera aguzzina. L’avevamo soprannominata Morte Lenta perché quando ti pescava a fare qualche cosa contro le regole te la passavi veramente male. Come accadde una volta a Faustino Picco, un ragazzo dei mediani. Scopertolo a fumare, Morte Lenta l’aveva trascinato per l’orecchio destro lungo il corridoio fino in salone dove era rimasto in ginocchio sui ceci per quasi tre ore.
C’era anche la signora Ada, cuoca e inserviente della cucina. La chiamavamo Veleno. Una donnona con monociglio e baffi incipienti. Sempre pronta a fare la spia su chi non finiva tutto nel piatto.
Ma le suore non erano tutte malvagie. Ce n’erano anche di giovani e simpatiche, come Colombina. Non sapevamo il suo nome ma l’avevamo soprannominata così per via degli occhi azzurrissimi e del viso pallido. Anche il suo abito era bianco, era una novella. Sentivo sempre i ragazzi più grandi fare commenti su di lei.
Dopo tre settimane avevo conosciuto quasi tutti e capito con chi stare. Cercavo di tenermi alla larga da certe teste calde che mi avrebbero procurato solo rogne.
Una sera sgusciai fuori dalle lenzuola per andare a pisciare. Poggiai i piedi nudi sul pavimento freddo e senza fare rumore percorsi il corridoio fino al bagno. Quando ebbi finito mi incamminai verso la camera ma sentii uno strano vociare dal fondo dell’androne. Mi avvicinai e vidi Arturo Bellomo e Chicco detto “lo strano”, due tra i peggiori casinisti che la Caienna avesse mai conosciuto.
«Piccoletto, vieni qui» mi disse Chicco.
Mi avvicinai e vidi che si passavano una bottiglia: «è vietato bere, lo sapete?»
Mi guardarono e sorrisero.
«Se vi becca Morte Lenta sono guai.»
«Tieni.» Chicco mi allungò la birra. Guardai la boccia per qualche secondo e assaggiai. bevvi. Era la prima volta e il gusto amarognolo mi nauseò. Vedendo l’espressione di disgusto sul mio volto i due scoppiarono a ridere.
«Dai qua» disse Arturo strappandomela e prendendo una lunga sorsata. Come ebbe finito si pulì la bocca con il dorso della mano.
«Che dici, potremmo andare alla buca?» gli chiese Chicco.
«Sarà l’ora?»
«Secondo me sì.»
«Che cos’è la buca?» intervenni incuriosito.
I due si guardarono maliziosi. «Robe da grandi, torna a letto» mi disse Arturo.
«Io sono grande.»
Risero di nuovo.
«Che dici, lo portiamo?» domandò Chicco al compare.
«Non saprei.»
«Avanti!» Li supplicai. Ero così e non ci potevo fare niente, provavo più gusto quando una cosa quando era vietata.
«Va bene» disse infine Arturo. «Ma stai attento, se ti lasci scappare qualche cosa sono dolori per te.»
«Sarò mutò come una tomba.»
«Ci finirai, se parli.»
Uscimmo circospetti in corridoio. Avanzammo in punta di piedi, Chicco stava in testa, Arturo dietro e io li seguivo per ultimo. Raggiungemmo la tromba delle scale, salimmo all’ultimo piano e sbucammo sul terrazzo. Sentii le onde infrangersi sul bagnasciuga e la brezza marina mi carezzò i capelli. Acquattati come ladri attraversammo il perimetro del terrazzo popolato da lenzuola stese ad asciugare e raggiungemmo una porta in legno marcito. Chicco la aprì e scendemmo lungo una scala in cemento. Ci trovammo in un corridoio buio.
«Ma qui ci sono le camere delle suore» esclamai allarmato.
Arturo mi tappò la bocca con la mano. La cosa diventava pericolosa e cominciava ad eccitarmi.
Imboccammo il corridoio e raggiungemmo il bagno. Nella parete in fondo, appena sotto il lavandino, c’era una fessura. Arturo spostò con delicatezza una piastrella e comparve un fascio di luce. Avvicinò l’occhio e ci rimase per una trentina di secondi.
«Tocca a me» gli disse Chicco spostandolo con forza e prendendo il suo posto. «Mio dio!» lo sentii farfugliare.
«Ragazzi, fatemi dare un’occhiata» dissi cercando di avvicinarmi.
«Aspetta il tuo turno» mi rispose Arturo allontanandomi col braccio.
«Ragazzi» ripetei poco dopo.
«Avanti» accondiscese infine Chicco.
Mi chinai e dal buco vidi Colombina. Indossava una vestaglia da notte rosa trasparente che le cadeva aderente sul corpo fin sulle cosce, mettendo in risalto i seni alti e sodi. Stava piegando con cura la tonaca bianca sul letto.
«Hai capito la sorella!» commentai, «dev’essere leggerissimo quello straccetto.»
«Avanti basta, tocca a me.» Chicco mi spostò e prese posto, «fossero tutte così le pinguine.»
Restammo per circa mezz’ora, fino a quando Colombina non spense la luce.
Tornato a letto non riuscii a dormire. Ero scosso e continuavo a pensare a lei. Immaginavo una fuga insieme, per mare, mentre Suor Milde ci dava la caccia. Avremmo raggiunto un’isola dove ci saremmo baciati. Più ci pensavo più sentivo prurito in varie parti del corpo. Mi assopii solo verso l’alba.
Il pomeriggio del giorno seguente venni chiamato nell’ufficio di suor Milde. Mi fece fare quasi un’ora di anticamera. Avevo una paura matta, non volevo fare la fine di Faustino Picco. Giravano voci che fosse impazzito a causa delle torture subite.
Quando sentii il mio nome, scattai in piedi e entrai. Morte Lenta era seduta alla scrivania. Sopra di lei un grande crocefisso in legno e al suo fianco Colombina. La guardai ma lei abbassò gli occhi. Aveva un’espressione imbarazzata e contrita.
«Siediti giovanotto» mi invitò Milde.
Obbedii.
«Sappiamo tutto» cominciò, «i tuoi compagni hanno parlato.»
Tornai con lo sguardo a Colombina cercando aiuto e complicità ma non trovai niente, anzi dopo poco mi piantò due occhi inferociti. Mi sentii abbandonato.
«Quello che avete fatto è a dir poco scandaloso» riprese Milde, «Qui non tolleriamo depravazioni di nessun tipo.»
Abbassai lo sguardo.
«Mi stai ascoltando?» chiese severa la suora.
Annuii senza aprire bocca.
«Bene, per le prossime tre settimane nei pomeriggi in cui i tuoi compagni potranno giocare nel cortile, resterai in camera. A riflettere sulle tue nefandezze.»
«Gli altri?» chiesi timidamente.
«Non è affar tuo. Anzi d’ora in avanti ti consiglio di stare alla larga da cattive compagnie.»
Le tre settimane di punizione furono un interminabile periodo di noia e mestizia, ma passarono.
Scontata la pena andai a cercare Chicco e Arturo, volevo sapere. Li trovai in una parte nascosta del cortile, Arturo aveva agganciato Chicco con il braccio e gli stringeva il collo in una morsa costringendolo a piegarsi. Alcuni intorno a loro formavano un piccolo capannello e li osservavano divertiti.
«Che succede?» chiesi a un ragazzo.
«Un regolamento di conti.»
I due andarono avanti ad azzuffarsi per dieci minuti buoni, poi Arturo ebbe la meglio e buttò a terra Chicco.
«Arriva Morte Lenta!» sentii gridare.
Tutti si dileguarono. Anche Chicco saltò in piedi e sparì. Io corsi dietro a Arturo. «Ehi» gli dissi quando lo raggiunsi.
«Sei fuori anche tu da oggi?» mi chiese rallentando il passo.
«Appena uscito.»
«Tre settimane di cella?»
«Esatto.»
«La mia stessa punizione» disse mentre ci allontanavamo dalla zona dello scontro.
«Ma cos’è successo?»
«Quel bastardo, ci ha venduti.»
«Fottuta spia!»
«Come se non bastasse, Colombina è sparita.»
«Sparita?»
«Ho sentito due suore che ne parlavano in corridoio, ha dato le dimissioni.»
«Vuoi dire che ha fatto fagotto e se n’è andata?»
«Parlavano di crisi, o cose del genere.»
Raggiungemmo l’ingresso.
«Stai all’occhio» mi disse Arturo, poi si congedò con una pacca sulla spalla.
Provai uno strano dispiacere. Non so a cosa fosse dovuto, non le avevo mai nemmeno parlato e mi rincresceva che se ne fosse andata.
I mesi restanti passarono senza particolari problemi. Ogni tanto mi tornava in mente Colombina e quella notte, ma quando succedeva mi sforzavo di pensare ad altro. Anche se non volevo ammetterlo, quella ragazza aveva fatto succedere qualche cosa dentro di me.
Non la vidi più. Solo dopo un paio di anni smisi di pensarci.

Illustrazione originale di Erika Romano

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Matteo Parmigiani, nato a Crema nel 1986 e cresciuto tra la campagna e la riva del fiume Adda. Si laurea nel 2011 in Scienze Politiche all’Università degli studi di Milano, città dove vive e lavora. Suoi racconti sono apparsi su diverse riviste letterarie.

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