L’abito latteo è pesante e immobile come il panneggio di un bassorilievo greco: il mikado è un tessuto splendido ma adatto a donne fredde, quasi congelate; la sposa invece suda e un boccolo di capelli artificiali le si è disfatto davanti all’orecchio. Qualcuno strombazza – cerchi concentrici che tentano di increspare il mikado –, per il resto il traffico fluisce indifferente e pigro perché è domenica. Si sentono, nell’aria, il frinire delle cicale e l’odore del grano, quando si asciuga al sole.
Gli assistenti di Vito, con le scarpe tutte piene di pagliuzze, hanno dovuto fare scaletta con le mani per aiutarla ad arrampicarsi sul covone. Nonostante la spinta, in un primo momento, la donna è rimasta a metà, con le mani aggrappate al grano compatto e le gambe nel vuoto, appesantite da metri di stoffa. Anche il velo, invece che essere spumoso come la cresta delle onde, le si è avvinghiato attorno, rischiando di farla cadere ai piedi del fotografo e dei quattro deficienti dei suoi assistenti.
In questa manciata di secondi, sospesa e priva di sostegno, la donna si è domandata perché avesse tanto insistito per assumere Vito Photographer.
Vero che non c’è fiera di settore dove gli ingrandimenti delle sue spose non troneggino sugli altri. C’è qualcosa nei suoi scatti che supera il kitsch d’obbligo e conferisce al corredo fotografico la dignità di un reportage da fronte di guerra, ma avrebbe dovuto significare qualcosa che nessuna delle sue amiche avesse avuto il coraggio di servirsi di lui.
Le spose di Vito sono diverse. Non avanguardiste, nessuna sposa in sari o vestita da uomo. Le donne, appese con le catenelle alle travi dello stand, sono per lo più ragazze come se ne vedono sull’autobus o dietro il banco di una profumeria, che parlano agli angoli della strada con i libri sotto il gomito e se ne vanno, a braccetto, ridendo fra loro. Insomma, bellezze – o bruttezze – comuni. Vito non le corregge. Non ritocca palpebre, smorfie, o rughe. Ha una precisione quasi chirurgica nell’individuare i particolari. Certi nei, certi tatuaggi che si intravedono sotto strati di cerone, smagliature di calze impalpabili, tacchi infangati, avambracci troppo rotondi e stomaci che, dopo ore di portate, cominciano a spingere contro il corsetto. Rossetto sugli incisivi, ciglia appiccicate, pori saturi di make up, lucore; potrebbe sembrare che dietro l’obiettivo di Vito ci sia un’intenzione punitiva, un occhio intento a smascherare l’inganno di ore di preparazione e mesi di attesa. Le espressioni facciali, estemporanee e frammentarie, rimangono impresse come su una pellicola per negativi. Occhi al soffitto, distratti, stanchi, cupi, bocche disgustate, labbra tese dalla rabbia, piccoli baci furtivi. Tenerezza clandestina e slanci di passione.
Una foto, in particolare, aveva colpito la donna, alla fiera: una sposa teneva il mento del marito fra le dita e lo tirava verso la sua bocca. L’uomo aveva gli occhi chiusi e le labbra appena protese, lei lo sguardo acceso e fisso oltre sue spalle, su qualcuno che seguiva con mal celata attenzione. Si vedevano sul suo viso ardore, paura, spasmo: proprio perché l’oggetto del desiderio era fuori dell’inquadratura, il desiderio stesso ne era diventato il protagonista.
La foto era un manifesto di infedeltà già in atto oppure no, ma evidente e potentissima.
“Sono ancora sposati?” aveva chiesto la donna avvicinandosi al tavolo con i bigliettini da visita sparsi qua e là e il blocchetto dei preventivi, dove Vito sedeva dondolando le Hogan. Il fotografo, mordicchiando il tappo della penna, si era voltato a osservare l’ingrandimento e aveva alzato lo spalle. “Forse” aveva risposto.
Non: chi lo sa o non ne ho idea. La donna aveva subito capito che lui sapeva tutto di quella sposa, chi guardava, se ci era andata a letto, se avesse intenzione di continuare a farlo dopo il matrimonio. Era entrato nella sua storia collocandosi al centro come un faro e al contempo ne era rimasto sostanzialmente estraneo.
Forse, aveva detto: non è affar mio, non è affar tuo. Tutto lo spazio, solitamente occupato dal giudizio, rimaneva vuoto e riempibile. Per questo le donne uscivano così sensuali dalle sue foto, attraenti nelle loro bruttezze, desiderabili proprio per ciò che nascondevano. Vito le guardava, loro erano contente di essere viste per come erano in realtà.
Anche lei sarebbe stata fiera di essere guardata e la sera stessa si era spogliata davanti allo specchio, immaginandosi nell’obiettivo del fotografo, coi piccoli seni, le cosce tornite, i triangoli d’aria fra le braccia e la vita. Aveva rimuginato su come la sospensione del giudizio aprisse la porta a qualcosa che non era estetico quanto ontologico, ma a quel punto si era sentita sciocca. Le era sembrato ridicolo usare espressioni che faticava tutti i giorni a far entrare in testa ai somari dei suoi allievi, non era in cattedra ma nel suo bagno e nuda, per giunta. Nuda, bella e brutta.
Nuda viva. Vera.
Il resto non ha troppa voglia di ricordarlo, soprattutto ora, sospesa sul covone. La parola che cerca di rimuovere ha un brutto suono, ha un cattivo odore, al tatto è abrasiva, mai aveva concesso a parole simili di entrare nei suoi pensieri e avere a che fare col suo corpo.
Aveva cercato su Instagram e mandato a memoria quanti più scatti possibili: paesaggi urbani, reticolati di fili elettrici, camini industriali, operaie di panifici con le guance infarinate e niente le aveva restituito quel senso di verità e deriva che avvertiva quando Vito fotografava il soggetto più trito e commerciale della sua professione: il matrimonio.
Vito, pur col suo sguardo tagliente, amava la sua sposa per un giorno, di quell’amore che è attenzione assoluta: da quando comincia a infilarsi le calze nella casa della madre, a quando le fissano l’acconciatura con mille forcine, cammina nella navata della chiesa al braccio di suo padre, piega il viso sul calice del sangue di Cristo, si copre la testa dalla grandine di riso, posa davanti alla chiesa e tutti sono dietro di lei.
Per anni, in quella foto di gruppo, la sposa verrà guardata come tassello, asse di simmetria, perno del giorno di festa ma, dopo il piazzale della chiesa e prima del banchetto, è solo del suo fotografo.
È lì che Vito la profana restituendola a se stessa. È una sorta di liberazione. Le fa togliere le scarpe, coricarsi sul velo, salire scalze sul cofano della macchina, alzare la gonna. Qualche sposa si scioglie i capelli e cammina fuori dal ciglio della strada, si china pericolosamente a raccogliere i giunchi del fossato; qualche altra si avvolge nelle lenzuola stese al sole, entra con lo strascico nel recinto dei lemuri, scala una magnolia nascondendosi fra le foglie. Sale su un cavallo, prende la direzione che vuole tenendosi alla criniera.
Cosa avrebbe fatto fare, Vito, a lei?
La donna si aggrappa alle corde del covone, le gambe nuotano nell’aria. Vuole che lui veda tutta la sua energia ma ha la vaga sensazione di essere ridicola. È goffa, intralciata da un abito che ha a che vedere con la vita di tutti i giorni quanto una maschera di carnevale, di quelle che coprono solo il davanti appese al collo come cravatte.
Adesso è nelle mani di Vito che le sta facendo scivolare dalle spalle il mantello da damina per mostrare la bidimensionalità della sua vita.
Un ultimo colpo di reni, ginocchio imprigionato nella stoffa, crack di punti che si allentano e la donna è in piedi sul covone, rossa, spettinata e coperta di pagliuzze. Ai suoi piedi, il marito imbarazzato che sposta qualcosa con la punta della scarpa e Vito con le mani sui fianchi e la sigaretta all’angolo delle labbra. La macchina è in mano all’assistente, non è stato fatto ancora alcuno scatto.
La donna fissa il fotografo dall’alto: ha le gambe magre, i capelli lunghi, i lineamenti delicati e quasi femminei; la sta guardando senza alcuna fretta. Il suo sguardo è privo di premura ma anche di intenzioni definite, non allunga la mano verso la Reflex, non dice agli altri “Diamoci da fare che fa un caldo boia”. Dice soltanto: “Brava, fanciulla”, a lei che lo fissa da un piedistallo di grano e non sentiva la parola fanciulla dal liceo, da quando declinavano in coro puella puellae traducendolo con questa parola fiabesca.
Fanciulla.
Sono la tua fanciulla. Salvami.
Gli occhi le si riempiono di lacrime che brillano fra le extension delle ciglia e potrebbero scavare solchi fra gli strati di blush, ma prima che le labbra comincino a tremarle Vito, veloce, afferra la macchina e comincia lo shooting. Le cicale coprono i rumori del diaframma, il polso dell’uomo dà il ritmo alla carrellata delle pose.
La donna guarda l’autostrada, alza il braccio verso le auto, muove dei passi incerti che vorrebbero essere una danza. Perde e riperde l’equilibrio, è costretta a sbracciarsi.
“Attenta!” grida esasperato il marito. “Non ti sembra il caso di scendere, ora?”
Lei e Vito lo guardano e il fotografo sorride: è chiaro che oggi non è lui a comandare. “Brava” dice ancora.
La manifesta mancanza di imperiosità del marito manda in bestia la donna. La fa arrabbiare quella resa senza vergogna di fronte alla faccia divertita di Vito. Possibile che lui non se ne renda conto? Come fa a non notare quanto il fotografo, saldamente piantato sulle gambe divaricate, con la fronte sudata e le labbra appena schiuse e umide, sia più sensuale e desiderabile di lui? Come ha fatto, il marito, a capitolare in quella stupida lite sul servizio fotografico? Senza un briciolo di desiderio di imporsi e di batterla sul campo. Le sembra sintomatico che non abbia mai cercato di picchiarla.
“Allora?” chiede rivolgendosi solo a Vito. Spera che lui le chieda qualcosa di trasgressivo – togliersi la gonna di mikado, appallottolarla e lanciarla sull’autostrada, tornare al banchetto coperta solo dal velo. Ma il fotografo le porge semplicemente le mani.
“Scendi, fanciulla” dice. Intreccia le dita, le fa un gradino dove lei possa appoggiare la scarpa. La discesa ha la giusta eleganza e mentre gli assistenti corrono a ripulirle dalle pagliuzze l’orlo del vestito, sforzandosi di non guardare la faccia del marito, lei dice: “Non abbiamo ancora finito.”
Vito si volta, è di stucco. “Ne ho fatti abbastanza, possiamo raggiungere gli altri al ristorante” risponde.
“Non sono soddisfatta” protesta la donna sull’orlo delle lacrime. Non vede Vito scuotere la testa perché gli ha girato le spalle e ora cammina verso il traliccio dell’alta tensione. Sente le scuse di circostanza del marito, con la stessa voce piatta che usa quando parla con sua madre, le domande degli assistenti, la rispostaccia di Vito.
“Non esiste” ha detto con tono stizzito mentre ha già preso a correrle dietro.
Il cuore le fa un balzo nel petto. Si sfila le scarpe, si fa su la gonna e comincia a scalare il traliccio. Il sole si sta abbassando ma il traliccio è ancora caldo e le sfere sui fili si stanno colorando di arancione. I passi dietro di lei si fanno veloci, tutti parlano concitati.
La sposa sale senza che nessuno cerchi di afferrarla per la vita. Un po’ le dispiace – il fotografo che la salva, i suoi assistenti che si affannano premurosi, il marito che cerca di ricondurla a sé –, un po’ una sorta di ebbrezza le dà come una vertigine. Le sembra la cosa più vicina alla libertà che abbia mai provato, il riscatto di una vita condotta nel rispetto delle regole.
“Una vita irreprensibile” ha detto il parroco durante l’omelia. La conosce fin da bambina.
Il rapporto col marito è cresciuto all’ombra del campanile, si sono baciati la prima volta nel cinema del patronato, lui le aveva prestato gli spiccioli perché al banco non avevano da darle il resto.
“Un fidanzamento in linea con tutti i dettami della religione” ha calcato il parroco ignorando di essere di fronte a due sposi non più vergini.
Dopo mille tentennamenti l’avevano fatto per il quarto anniversario, nella casa di montagna, raccontando a tutti che andavano a un ritrovo diocesano nel Cadore. La casa sapeva di chiuso e di bombola del gas, le lenzuola erano talmente fredde da sembrare bagnate. Lei aveva avuto l’impressione che il ragazzo fosse già un po’ pratico ma non gli aveva chiesto niente. Le era sempre rimasto il dubbio, però, e una curiosità mescolata alla gelosia. Le sarebbe piaciuto che lui si fosse informato se prima c’era stato qualcun altro, ma forse era chiaro di no. Era sempre stata un po’ lontana da queste cose, poco propensa. Tutti gli anni del fidanzamento, con le piacevoli serate in pizzeria e alcune vacanze in campeggio a Bibione, le sembrano ora un deserto di piacere.
La donna continua a salire. Vede l’autostrada attraverso il velo che il vento le gonfia attorno come una nuvola. Non ha idea di cosa intenda fare, la sua salita di fatto è un’attesa. Senza guardare, sa che Vito, gettato il mozzicone, si è messo a scattare con gli occhi febbrili.
Quello che lui non le ha chiesto ora lei glielo offre.
Il marito, ai piedi del traliccio, sta gridando qualcosa con le mani nei capelli. Le sue parole si perdono nel rombo che arriva dall’autostrada. Forse sono le parole che la donna si è sempre aspettata di sentirgli dire, compresa l’ultima discussione, o forse no.
Ecco, Vito, ha messo giù la Reflex, con la mano aperta tiene lontani gli assistenti, fa un cenno del capo al marito e comincia a salire sul traliccio.
La gonna della donna si apre nel vento come la corolla di un fiore. Le sembra che, tra lo stridio e i clacson dei tir, Vito la stia chiamando: “Fanciulla, aspettami”.
Sente il suo movimento veloce e robusto, la mole che si sovrappone alla sua, il respiro sul collo dove i capelli sono tenuti su dalle forcine e partono le extension.
“Non ti volevi sposare, fanciulla” le mormora la sua voce all’orecchio.
Le sfere sono a portata di mano. Le loro mani, una sull’altra ne toccano una come fosse un frutto e senza dirsi una parola, come se si trasmettessero impulsi da tempia a tempia, decidono di coglierlo.
Assieme sentono qualcosa che entra nelle dita, come aghi, assieme vedono il lampo.
Assieme mollano l’ormeggio perché la corrente non attraversi le loro molecole facendone impazzire gli elettroni.
“Fanciulla” dice Vito. E scivolano. E volano. Leggeri di metro, in metro.
In metro.
Abbracciati, saldati dalla corrente come un corpo solo.
Anima sola.
“La verità vi renderà liberi” ha detto il prete.
Così dovrebbe essere.
“Fanciulla” dice Vito mentre la donna vola ancora nell’aria.
Lui è ai piedi del covone, saldamente ancorato a terra, la Reflex che ciondola vicino alla gamba.
“Scendi” dice il marito e mentre il fotografo l’aiuta garbatamente, lui la prende per il gomito.
“Per fortuna abbiamo finito con questa pagliacciata” aggiunge. Uno degli assistenti fa un sogghigno e la donna senza quasi accorgersene allontana le sue mani che le tolgono le pagliuzze dalla gonna.
“Sei contenta adesso?” dice il marito “non so che senso abbia tutto questo”.
Vito sta riponendo la Reflex nella custodia. Non dice fanciulla, non dice niente.
La donna si incammina dietro gli uomini. Cammina piano, la sua gonna non è mai stata così pesante. Si volta solo un attimo e guarda il traliccio, lontano, attraverso il velo che il vento gonfia come una nuvola.
Copertina originale di Sara Gambolati
Un pensiero su “Tralicci e covoni”