Li ho notati ieri sera, mentre tornavo dal cortile. Sono ricoverato da parecchio ma non mi pesa, non si sta male qui. Le infermiere sono giovani e carine e il medico mi visita senza giudicare, che è tanta roba. L’unica scocciatura è che non si può fumare in camera, nemmeno aprendo la finestra. Non dovrei fumare e basta, così ha detto il medico, e allora mi tocca arrivare in fondo al corridoio, spingere il maniglione antipanico e scendere in cortile. Anche gli infermieri fanno uguale e li trovo spesso laggiù, fumano appoggiati al muro e prendono il sole, che male non fa.
Mi piacciono gli infermieri, sono gente simile a me. I dottori invece cercano sempre di farti pesare quante cose sanno, quanto hanno studiato, e quanto è bella e importante la famiglia da cui provengono. Sono utili, certo, ma non tanto simpatici.
Quando invece mi capita di scendere la sera, come ieri, gli infermieri non ci sono. Va bene lo stesso, mi siedo al buio e penso ai fatti miei. E così, dopo aver fumato una sigaretta di troppo, sono tornato verso il reparto. La porta antincendio ha la serratura rotta, esci ma puoi anche rientrare. Secondo me l’ha spaccata qualche infermiere, quelli ne sanno. E comunque, al di là di chi l’abbia rotta, per tornare al reparto devi passare davanti alla porta della ginecologia e ostetricia, dove non si può entrare, e ci mancherebbe, infatti le panche le hanno sistemate di fuori. Sulle panche stanno i futuri padri, e aspettano. Li riconosci perché sono agitati, i figli verranno presto al mondo e i poveretti avrebbero bisogno di uno sfogo, magari di fumare una sigaretta, e non lo sanno che basterebbe spingere il maniglione antipanico per scendere in cortile, che poi possono tornare su senza problemi, grazie a qualche infermiere che c’ha visto lungo, ma siccome non lo sanno restano sulle panche, e mentre aspettano s’innervosiscono sempre più.
Io di figli non ne ho, per fortuna, e a questo punto non ne avrò, ma quelle panche mi fanno comodo perché dopo aver salito le scale antincendio capita che sia un po’ affannato. Così mi sono fermato a riposare. A quell’ora l’ospedale sguarnito è quasi bello. Davanti a me aspettavano due ragazzotti, vestiti piuttosto male, si vedeva subito che era gente delle mie parti; futuri padri e al tempo stesso figli di qualcuno che, di sicuro, parenti laureati non ne ha. Quei due, seduti a mezzo metro uno dall’altro, accomunati dallo stesso destino incontrollabile, nonostante viaggiassero su binari tanto vicini, non si parlavano per niente. E sarebbero andati avanti così se un infermiere non si fosse affacciato gridando Franco. Era solo per un’informazione, si è capito dopo, ma a quel richiamo si sono alzati tutti e due. Uno si chiamava Franco di nome. L’altro di cognome. Ed è stato così che hanno iniziato a parlare. Maschio o femmina? Da quanto sei qui? È lunga l’attesa… Le solite cose. Non stavano davvero parlando. Che ostetrica avete? ha chiesto uno dei due, solo per spezzare il silenzio. L’altro gli ha detto il nome. Anche noi, è veramente brava. Io ero seduto a pochi metri, invisibile, e loro si scambiavano frasi vuote, poi smettevano, altre due parole, poi di nuovo estranei. Avevo perso interesse, stavo per andarmene, quando il tipo alto, quello biondo, quasi rasato, con le sopracciglia chiare, si vedeva che stava pensando, ha fatto il passo.
Ma va tutto bene? ha chiesto.
Sembrava una domanda da poco. Di solito quando si chiede Come va? non si vuole, davvero, una risposta. Ma su quelle panche era diverso.
Sono un po’ preoccupato, ha risposto quello coi capelli lunghi e scuri, ci sono state complicazioni.
Tutto è iniziato da lì, da quella piccola confidenza diversa dalle solite frasi fatte, è stato allora che quei due si sono messi a parlare davvero, a raccontare, di un aborto spontaneo avvenuto qualche anno prima, difficile da superare. Accidenti, la mia ragazza ha avuto una perdita di sangue pochi giorni fa. E la toxoplasmosi del gatto, infatti io non toccavo la carne senza guanti, e le preoccupazioni, la retta dell’asilo nido, e il pediatra. Quella casa, è così piccola, non ci staremo mai tutti. Non dirlo a me, ho dovuto fare il mutuo per costruire un misero soppalco.
Mi era venuta voglia di un’altra sigaretta. Giovedì mi dimetteranno, non incontrerò più tutta questa gente che affolla l’ospedale, rimarrò a casa solo, meglio così. Però, anche se mi era venuta voglia di scendere per fumare un’altra sigaretta, rimasi comunque lì, a guardare quei due che non avevano finito nemmeno le superiori, si vedeva, come me del resto, e che nella vita non avrebbero combinato nulla di buono, e rimasi soltanto perché, per qualche motivo, li trovavo interessanti. Difatti arrivarono a un punto decisivo.
Sai, disse il biondo, quando lei mi ha lasciato sono quasi impazzito. Aveva preso una sbandata per l’istruttore della palestra.
Quel ragazzone che si stava confessando era alto, spalle larghe, gambe solide, sembrava un diavolo biondo; ma in quel momento non faceva paura. L’altro, di fronte a quella confidenza, piegò la bocca e non disse niente, come di solito basta fra amici consumati.
Per fortuna, continuò il biondo, è tornata da me. Non so cos’avrei fatto altrimenti, era un periodo in cui spaccavo tutto. Anche allo stadio, il capo curva, perfino lui mi diceva di stare buono. È tornata da me il giorno del derby, fu un pareggio, utile in campionato ma comunque una delusione, però resta una delle giornate più belle della mia vita. L’abbiamo concepito quella sera, il nostro bambino.
Il derby?, chiese l’uomo dai capelli. Quindi sei dei nostri.
Mostrò al biondo un portachiavi, aveva un sorriso raggiante, come capita in quelle rare occasioni nelle quali, dentro l’altro, riconosciamo noi stessi. Ma il biondo sventolò un portafogli, i colori erano diversi.
Non ci credo, disse l’altro. Sei uno di loro? Mi sembravi… mi sembravi…
Il biondo, in risposta, tendeva le vene del collo. Voleva dire qualcosa ma restò zitto. Arrabbiati entrambi, trattenevano i toni solo per la sacralità del luogo, come due spacciatori che si ritrovano in questura dopo una compravendita finita male.
Perciò stavo per andarmene. Non aveva più senso restare lì a guardare due cretini che, per un motivo stupido come il calcio, avevano smesso di parlarsi. Ma il biondo ruppe il silenzio.
Il rigore comunque non c’era, disse. Avete rubato la partita, come al solito.
Quale rigore?
Quello per la mano, non fare il finto tonto.
Guarda che al derby non c’è stato nessun rigore, me lo ricordo bene, ero in curva.
Anch’io. Ma in quella giusta.
L’altro esibì una faccia di stizza, ma il biondo continuò.
Vi hanno concesso un rigore all’inizio del secondo tempo, altrimenti non avreste mai pareggiato.
Nessun rigore, disse quello coi capelli lunghi. Abbiamo segnato con un’azione da fondo campo. Come fai a non ricordarlo?
Siete sempre i soliti, rispose il biondo come a chiudere la questione.
Fu a quel punto che l’uomo dai capelli lunghi, come colto da un’illuminazione, corrugò la fronte.
Ma no, il rigore di cui parli non è stato alla partita di campionato. È successo in Coppa Italia, nell’altro derby, quello che s’è giocato un mesetto dopo, quasi due. Sì, certo, me lo ricordo bene.
No, ha gridato il biondo, era in campionato. Ne sono sicuro, la partita è stata nove mesi fa, il parto è oggi, non mi sbaglio.
Ma quel ragazzone, mentre lo diceva, parlava con una voce incerta, come se qualcosa non funzionasse.
L’uomo dai capelli lunghi stava riflettendo, contava sulla punta delle dita, scuoteva la testa. È stato allora che si è accorto di me. Mi fissava. Era come se mi chiedesse di sciogliere i suoi dubbi, di dargli, conferma anche solo con un cenno. Però io non rispondevo, non potevo. Restavo immobile; in quella maniera particolare che dalle nostre parti vuole dire, ho capito tutto ma non farò niente. Il biondo intanto continuava con la sua tiritera sulla squadra, e gli arbitri corrotti, e le rimesse dal fondo, e continuava a citare quel rigore così fondamentale; ma la sua voce, per uno come me, che queste cose le sa perché grazie a queste cose è sopravvissuto, non era più credibile. Sembrava come se un minuscolo verme intestinale gli stesse risalendo le viscere e lui combattesse per ucciderlo. Anzi, non ucciderlo, voleva solo far finta di niente, ignorarlo, e in quel modo tirare avanti; come si fa dalle mie parti.
L’uomo coi capelli lunghi allora smise di guardarmi, fissava il pavimento, e pensava.
Anche il biondo si era fermato.
Io, come ho detto, giovedì andrò a casa. Il medico un po’ arrogante, ma gentile, di buona famiglia, mi ha prescritto una terapia. Non vedrò più genitori come questi, in attesa sulle panche di ostetricia, né infermieri svegli che forzano le porte antifuoco. A casa nessuno mi darà fastidio.
Hai ragione, dice l’uomo coi capelli lunghi, il rigore era nella partita di campionato. Quella di nove mesi fa. Non so proprio come ho fatto a sbagliarmi.
E mi guarda, quasi volesse sapere da me se ha fatto bene oppure no. Da me…
Il biondo intanto sembra un’altra persona, sorride, e in un attimo si è affacciato un medico, uno dei soliti, ha gridato Franco perché era nato un bambino, e si sono alzati tutti e due. Stavano vicini, con le mani uno sulle spalle dell’altro, uno dei due era diventato padre e l’altro lo sarebbe diventato a breve. Ma non mi sono fermato per capire quale dei due fosse arrivato primo. Sono tornato nella mia camera.
Perché ormai non aveva più importanza.
Immagine creata con gpt4