Quel sabato mattina

Quel sabato mattina

Quel sabato mattina mi svegliai con un leggero mal di testa. Ero solo in casa, Camilla era uscita presto per andare al matrimonio di un’amica. Rimasi lì, disteso per un po’, contemplando l’oscurità della camera minacciata dalle prime luci del sole che filtravano dalla finestra. Uno di questi raggi sembrava puntare proprio sul mio viso conferendomi un’aura di santità che sicuramente non meritavo. Pensai a Camilla, me la immaginai nuda, sdraiata sul fianco con la schiena rivolta contro la mia pancia. Fantasticai di cingerla col braccio e toccarle i seni mentre il suo sedere, tondo e ben proporzionato, premeva contro il mio ventre. Assecondai l’erezione e rimasi ancora qualche minuto con quell’idea in testa. Poi tornai con la mente all’amica e al litigio della sera precedente. Ma non provai alcuna rabbia nei suoi confronti. Mi aveva chiesto di accompagnarla pregandomi, per una volta, di andare oltre la mia insofferenza per i matrimoni e più in generale per la stragrande maggioranza delle cerimonie formali che prevedevano la presenza di otto o più persone. Niente da fare. Nemmeno quella volta ero sceso a compromessi con il mio sano egoismo. Semplicemente non ho mai provato alcun interesse verso le cose che non mi andava di fare.

Io e Camilla ci eravamo conosciuti sei anni prima su un treno diretto a Napoli. Durante quel viaggio, una coppia di amiche salite a Roma mi chiese di scambiare il mio posto con una di loro. Ovviamente rifiutai: il mio sedile era vicino al finestrino, quello che avrei dovuto occupare invece no, e a me piaceva troppo guardare le cose vorticare fuori dal vetro. Camilla, invece, seduta un paio di file dietro di me, accettò con quella gentilezza e disponibilità che nel corso degli anni avrei imparato ad amare e invidiare, e prese posto accanto a me consentendo alle amiche di viaggiare assieme e di annichilire l’intera carrozza con le loro chiacchiere. Fu così che la conobbi, grazie a una funzionale combinazione di egoismo, il mio, e altruismo, il suo. Lo yin e lo yang. A questo pensai quando rifiutai il suo invito ad accompagnarla al matrimonio, scommettendo sul fatto che la rabbia, prima o poi, l’avrebbe abbandonata. O almeno era quello che speravo.

Senza scompormi, usai le braccia per tirarmi su. Appoggiai la schiena alla testata del letto e con le mani iniziai a massaggiarmi vigorosamente la gamba intorpidita. Mi sembrò di toccare l’arto di un cadavere: freddo e peloso. Avevo una gran voglia di controllare i risultati dei playoff NBA, ma il mio iPhone era fuori uso. Poche ore prima, Camilla, all’apice dell’incazzatura, lo aveva lanciato contro il muro sfasciandolo. Avevo cercato in qualche modo di pararlo, lanciandomi come una zitella sulla parabola arcuata di un bouquet. Ma non ero riuscito a evitare l’impatto con la parete. Soppesai l’idea di alzarmi e andare a recuperare il tablet nell’altra stanza, ma rinunciai in fretta. La mia pigrizia mi stava sopraffacendo e un tragitto di pochi metri sembrava invitante quanto una maratona in infradito. Non avevo niente da leggere, erano settimane che non compravo un libro, di solito ne divoravo a quintali: romanzi, saggi, biografie, letteratura erotica, ma nell’ultimo periodo l’appetito era un po’ scemato. Non mi rimase quindi che leggermi la mano. La mappai tutta e poi mi fissai su un neo sul dorso di quella destra, marrone scuro e grande quanto una mezza lenticchia. Ero pronto a giurare di non averlo mai visto prima. Provai delicatamente a grattarlo via, sperando fosse una macchia di cibo. Niente, un altro bollino da aggiungere alla mia collezione. Non avevo nulla da fare, così mi riaddormentai. Fui svegliato dal telefono di casa. Guardai la luce nella stanza: poteva essere già mezzogiorno. Aspettai qualche secondo, augurandomi che qualcuno andasse a rispondere al mio posto. Ma chi poi? Gli effetti collaterali della solitudine… Dopo poco il telefono cessò di squillare. Provai a chiudere nuovamente gli occhi ma ora la luce era troppo forte, così nascosi la faccia sotto le lenzuola giusto un attimo prima che il telefono ricominciasse a trillare. Allora presi la decisione di alzarmi, più per il fastidio di dover sopportare quel rumore metallico che per reale curiosità o interesse e, scalzo, mi trascinai stancamente nell’altra stanza fino all’apparecchio.
«Pronto?»

***

Con le dita lunghe e sottili andò alla ricerca di quei chicchi di riso che le si erano infilati nell’orecchio. Se li tolse a fatica mentre con la coda dell’occhio seguiva gli sposi concludere la passerella al centro del sagrato. Questa cosa del riso l’aveva sempre lasciata perplessa, almeno fino a quando Stefano non le aveva raccontato il perché della curiosa usanza. Era stato durante l’estate di due anni prima: lui, prossimo ai quarant’anni, era immerso nella vasca da bagno e stava facendo le bolle di sapone con una gruccia da appendiabiti deformata per l’occasione, mentre lei ad alta voce gli leggeva un reportage sul matrimonio di William e Kate. In qualche modo entrarono nell’argomento e Stefano, con la sua tenera e sghemba saccenteria, le raccontò che l’usanza affondava radici nell’Antica Roma, dove pare si lanciasse del grano sugli sposi come augurio di fertilità. Il cambio di cereali avvenne nel momento in cui il riso diventò più reperibile del grano. Si ricordò anche della “variante cinese”, proprio come l’aveva chiamata lui mentre il bagno ormai era sommerso da bolle svolazzanti: un’antica leggenda, infatti, narrava che il Genio Buono, alla vista dei contadini colpiti da una grave carestia, fu mosso a pietà e chiese loro di irrigare i campi con l’acqua del fiume in cui egli disperse i propri denti. L’acqua trasformò i denti in semi, da cui germogliarono migliaia di piante di riso, che sfamarono l’intera popolazione. Il riso da allora divenne simbolo di abbondanza e prosperità e lanciarlo sugli sposi equivaleva ad augurare loro un futuro di felicità e soddisfazioni.

Mentre gli sposi, come consumate celebrità, si davano da fare coi saluti e i convenevoli nei confronti degli invitati, Camilla preferì rimanere in disparte, con una sensazione di disagio crescente che le pulsava nelle tempie. A un certo punto il suo sguardo incrociò quello di una distinta signora, elegantissima e con un sorriso fresco di dentista. La riconobbe, era la madre della sposa: da piccola era stata molte volte nella loro fatiscente casa di campagna, a fare merenda e a giocare coi gatti che spadroneggiavano fra quelle mura. Nonostante il contatto visivo, la donna non sembrò riconoscerla. Continuò comunque a sorriderle, bevendo piccoli sorsi da una bottiglietta di acqua naturale e facendo attenzione a non sbavarsi il trucco. Forse la donna era attratta dalla sua malcelata inquietudine che la faceva stonare rispetto a tutto quel carnevale di voci e colori. Il disagio, per un attimo, salì di una tacca ancora, e allora Camilla provò a difendersi nell’unico modo che conosceva: chiuse gli occhi e volò altrove. Tornò in quella casa di campagna. Non era più una bambina, molte cose in lei erano cambiate ma non la vecchia dimora. Poteva ancora percepirne distintamente gli odori: la puzza di chiuso e della muffa che incrostava i muri, dell’intonaco malconcio e dell’esalazione pungente e salina che proveniva dalle ciotole dei gatti.

«Ora ci spostiamo per le foto di rito» le disse la madre della sposa riportandola alla realtà. La donna si rimise faticosamente in piedi, stirandosi il vestito elegante con i palmi delle mani.

Camilla le sorrise con un filo d’imbarazzo, senza trovare parole che potessero riempire il suo silenzio. Poi, per ingannare l’attesa, frugò all’interno della sua borsetta alla ricerca di una sigaretta. Il pacchetto, ancora intonso, era nella tasca interna, accanto al telefono. Quando lo trovò, il suo pensiero tornò alla lite della sera prima.

Detestò il fatto che lui non fosse lì con lei. Le sembrò quasi di odiarlo e ripensare alla fine che aveva fatto fare al suo cellulare le provocò un brivido di piacere. A volte si chiedeva cosa ci facesse ancora con lui. Scacciò dalla sua testa la malinconia e si accese una Camel blu. Quando gli sposi ne ebbero a sufficienza di foto e pose glamour, il gruppone degli invitati si sparpagliò in direzione delle macchine per raggiungere il luogo del banchetto nuziale. Camilla aveva preso l’auto di Stefano per essere libera nel caso, durante il pomeriggio, avesse voluto fuggire da tutto e tutti. Aveva parcheggiato abbastanza vicino dalla chiesa e per raggiungerla ci avrebbe impiegato cinque minuti. I tacchi a spillo e l’abito elegante blu a tubino non la rendevano per nulla agile, ma era comunque abbastanza bella e sensuale da attirare gli sguardi di molti. Giunta in prossimità dell’auto fu accarezzata dall’idea di mollare la compagnia disertando il ristorante e tornare da Stefano. La cosa non la sorprese affatto. Voleva stare un po’ con lui, mettersi un vestito comodo e sentirlo chiacchierare di sistemi solari e antiche tradizioni gautemalteche e magari guardare insieme una di quelle saghe barbosissime che piacevano solo a lui, tipo Il pianeta delle scimmie o gli X-Men. Voleva leggergli qualcosa di frivolo e stupido solo per avere tutta la sua infantile attenzione e i suoi occhioni marroni incollati ai suoi. E cosa avrebbe dato per bersi un caffè fatto da Ste con la moka, perché quelli che faceva lui erano troppo buoni, persino meglio di quelli presi al bar sotto casa. Pensò anche che avrebbe voluto raccontargli di più della sua infanzia e di quella vecchia casa di campagna che un po’ la attraeva e un po’ la spaventava, come le pieghe della loro vita. Mentre attraversò la strada con la testa tra nuvole di caffè e reminiscenze assortite non si accorse del motorino che, a tutta velocità, stava arrivando proprio nella sua direzione.

***

Mi ci vollero lunghi attimi per riporre il cordless nella base. Lì per lì, non sentii niente. Rimasi immobile un altro po’. Nessuna emozione. Come un automa andai in camera, mi tolsi la maglia del Leicester City che usavo come pigiama e mi infilai una polo. Quella notte avevo dormito decisamente male, forse per via del rubinetto della cucina che continuava a gocciolare sul fondo del lavello, colpa di una guarnizione che non avevo ancora avuto la voglia di cambiare. Qualcuno col vizio di polemizzare avrebbe detto che ne aveva abbastanza del mio procrastinare, del mio disinteresse per la quotidianità.

Mi diressi verso il bagno, senza sapere bene cosa fare. Quando uscii avevo la vescica vuota e la testa piena di strane interferenze. Scelsi dall’armadio un paio di calzoni che mi aveva regalato Camilla e che non avevo ancora mai messo. Aprii la porta di casa e venni subito investito da una folata di vento freddo. Non ebbi alcuna reazione, ma per uno strano motivo indugiai.

Poi le gambe fecero quattro passi veloci, come se avessero fretta di raggiungere qualcosa o qualcuno, come se la città avesse già messo in moto tutti i suoi consueti ingranaggi, come se fosse un giorno feriale qualunque e non quel sabato mattina. A metà strada mi accorsi di non aver preso le chiavi del motorino di Camilla. Mi morsi il labbro fino a farlo sanguinare e tornai indietro. Ma non sentivo ancora niente. Entrai in casa e andai in camera, verso il suo comodino. Trovai le chiavi e, mentre le infilavo in tasca, il mio sguardo cascò sul mozzicone di Camel blu accartocciato nel posacenere e, accanto, la sua tazzina da caffè preferita. La presi con le dita e mandai giù la goccia di caffè superstite. Deglutii e mi sentì in colpa per non essermi svegliato apposta la mattina, lasciandola in ostaggio del suo pessimo caffè. Poi successe qualcosa di strano: provai paura, una paura atavica, più grande della vita stessa e presi a tremare, tremai in tutto il corpo.

Quando il tremore cessò, pensai a Camilla intensamente, come mai avevo fatto prima e come non avevo mai pensato. Sapevo che non c’era tempo da perdere, che dovevo sbrigarmi, correre in ospedale… Ma ormai era troppo tardi, stavano arrivando. Allora mi sedetti sul letto, sul suo lato, poi tirai su le gambe e mi rannicchiai. Presi il suo cuscino e me lo premetti sul volto e aspettai ancora un poco. Quando arrivarono le lacrime, arrivarono copiose.

Illustrazione originale di Doctor Tales e Mr Shot

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Luca Murano nasce al nord (Lodi) da genitori del sud (Salerno) e attualmente vive al centro (Firenze). Suoi racconti sono apparsi o appariranno su Risme, Malgrado le Mosche, Bomarscé, Spazinclusi, Streetbook Magazine, Blam!, Quaerere, Voce del Verbo, Rivista Waste, Inchiostro, Mirino, Downtobaker, CrunchEd, Grande Kalma, birò, E(i)sordi, il Fuco e The Bookish Explorer. Nel 2018 è uscito il suo primo libro, “Pasta fatta in casa – sfoglie di racconti tirate a mano” pubblicato con Bookabook. Social: Facebook, Instagram, Twitter.

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