Quei giorni con Crash

Quei giorni con Crash

Ricordo solo che eravamo chiusi in casa da giorni, io, lui e Crash Bandicoot.

Quel piccolo isterico dal pelo dritto, sempre zeppo dell’ansia di dover arrivare primo, saltava su e giù dal divano senza sosta.

“Ma secondo te che animale è?” mi domandò Daniele. Le sue parole galleggiavano in un tempo sospeso, era così tanto che nessuno parlava che sobbalzai sul divano dalla paura.

“lo avevo letto una volta, chissà dove” gli risposi dopo essermi schiarita la voce “ma ora non lo so più…”

L’animaletto si aggirava veloce tra i divani del salotto, sgommava sopra i tappeti, se ne andava in cucina e poi tornava da noi scattoso allungandoci l’ennesima birra calda, inutile e disgustosa bevanda alla quale in quei giorni non riuscivamo a dire di no.

Il passare di un tempo abbacinato scattava una sola volta al giorno, come una lancetta gigante che mangiava dodici ore in una e lo faceva con l’arrivo di Sante.

Era un ragazzo più grande di noi di qualche anno, lo avevamo conosciuto quando lavoravamo tutti e tre nello stesso ristorante. Dopo il lavoro passava a trovarci con la cena ma soprattutto, come mi disse in seguito, per assicurarsi che non ci fossimo ammazzati l’un l’altra in preda a una crisi psicotica.

Daniele un paio di volte aveva avuto paura di perderla, la molto considerata lucidità, il rischio era sempre presente quando si trattava di fare i conti con i suoi genitori e col rapporto tra di loro. Come quella cena che fecero prima della partenza, di cui le parlò un paio di giorni prima.

 

“Muoviti! Papà ci aspetta qua sotto tra dieci minuti! Dobbiamo fare presto che devo finire di sistemare le ultime cose in valigia”

“Mamma, ma sei sicura che sia una buona idea andare dall’altra parte del mondo con quello stronzo?”

“È tuo padre…”

“Sarà pure mio padre ma sempre stronzo rimane”

“Sono cose vecchie, Daniele, abbiamo deciso di lasciarcele alle spalle”

“Ti ha sempre fatto fare una vita di merda Ma’, che problemi hai ad ammetterlo?”

“So che penserai che sono prevedibile, Dani ma tu non puoi capire, davvero. Semplicemente io e tuo padre non possiamo vivere l’uno senza l’altra”

“Lui sicuramente non può stare senza di te, visto che non è capace nemmeno a pulirsi il culo da solo e poi, senza la valvola di sfogo imploderebbe.”

Il battibecco proseguiva nervoso e uguale a tanti altri prima di lui.

“Stare un po’ lontano da noi ti farà bene” provava a chiudere la madre “anzi magari prova a riflettere sul fatto che a volte nella vita servono dei compromessi… Ah Dani per favore, non farmi ritrovare la casa uno schifo!”

“Contenta te mamma…”

Il giorno dopo Daniele li aveva accompagnati in aeroporto e subito dopo mi aveva telefonato, mi chiese di trasferirmi subito da lui e io non ci pensai due volte.

Andammo a fare la spesa, riempimmo il carrello di bevande gassate, piatti già pronti e patatine e dopo poche ore ci lasciammo avvolgere da un vuoto fatto di droghe leggere e immagini colorate e scattose che ci tiravano dentro lo schermo. Improvvisamente la nostra vita era gentile e ovattata.

Ogni tanto squarciavamo il bozzolo fumoso e mettevamo la testa fuori, di solito succedeva quando dovevamo andare in bagno e dormire qualche ora, sempre al mattino.

Durante quelle pause io mi facevo la doccia e lavavo i capelli, che all’epoca erano lunghi e li lasciavo gocciolare su un asciugamano messo a proteggere le spalle.

Insistevo con Daniele perché si facesse almeno il bidè e si mettesse delle mutande pulite “e lavati anche i piedi” incalzavo, “altrimenti non ci dormo nel letto con te”.

Per tutto il resto del tempo erano bocche impastate e occhi sullo schermo, unico contatto tra noi il joypad caldo e unto passato di mano in mano, in mano, in mano, in mano.

Poi arrivò il sabato e me ne accorsi solo perché uscendo dal bagno trovai Sante seduto sul divano, Daniele stava dormendo e non seppi mai come era riuscito a entrare.

“Mentre eri a fare la doccia ha squillato il telefono di casa” disse sbriciolando del fumo con le dita, “però non ho risposto” concluse senza alzare lo sguardo.

“Boh…hai fatto bene, dovrebbe rispondere lui visto che è casa sua” dissi strofinando i capelli con vigore.

“Ha squillato anche stanotte” intervenne Daniele. Era poggiato allo stipite della porta con gli occhi ancora mezzi chiusi, l’immagine del suo volto assonnato mi fece tenerezza.

“Hai sentito i tuoi?” gli domandò Sante mentre accendeva la canna aspirando forte. Daniele gli rispose che gli avevano mandato un sms uno o forse erano due giorni prima, scrivendo che stavano bene ma che lui si era dimenticato di rispondere.

La domanda di Sante era legittima e si poggiò, in apparenza innocua, in uno spazio distante dal nostro bozzolo, dove però non rimase a lungo.

Come avevo potuto non farmi la stessa domanda nelle ore appena passate?

Alzai le spalle e guardai dritta davanti a me, intenzionata a riprendere il controllo delle ore. “Vatti a fare la doccia” dissi a Daniele “se squillano ancora rispondo io, va bene?”

Non gli sentii dire niente in risposta e lo presi per un sì.

L’acqua aveva iniziato a scrosciare da pochi minuti quando il telefono squillò nuovamente.

Crash saltò dal divano venendomi in mezzo ai piedi, sembrava incuriosito.

“Pronto?” mi uscì una voce ferma e chiara.

Non è corretto dire che il sangue mi si gelò nelle vene, perché in quel momento non mi sembrava nemmeno di avere le braccia, come poteva qualcosa scorrerci dentro?

Dopo aver ascoltato qualche parola però, le vene mi scivolarono fuori dalle braccia e iniziarono, come segni di penna blu, a strisciare a terra. Fecero il giro del divano sul quale sedevano Sante e Crash ma era Daniele che volevano e lo raggiunsero fin dentro la doccia.

Le vene gli si arrotolarono intorno alla caviglia fin su alla coscia magra, per poi raggiungere il collo e stringere forte, io seguii tutto dalla soglia e fu a quel punto che parlai e tutto cambiò: “ha chiamato la polizia, dicono che devi andare in questura.”

Le vene tornarono veloci dentro alle mie braccia con uno schiocco, come un elastico mollato di colpo dopo la massima estensione.

La frase che avevo appena pronunciato non mi sembrava avere senso. Se qualcuno ci avesse denunciato, per l’odore di fumo o per la musica alta, sarebbero venuti da noi, perché invitarci ad andare lì?

Daniele si asciugò con un accappatoio troppo piccolo e poi chiese a Sante le chiavi della macchina: “tu meglio se rimani qui”, gli disse “così se squilla il telefono rispondi”.

Uscimmo di casa, il sole era già alto e ammorbidiva l’asfalto davanti al portone d’ingresso.

I dieci minuti che ci portarono fino al commissariato scivolarono senza che tra noi si poggiasse nemmeno una parola.

“Sedetevi pure” disse un poliziotto alto sulla porta della stanzetta e noi ubbidimmo.

Sedevamo uno accanto all’altra, senza sapere esattamente cosa stesse succedendo. Perché ci stavano domandando come ci sentivamo e se volevamo dell’acqua? E perché quella proposta di telefonare a qualche parente? Non riuscivano a capire.

Poi ci accompagnarono alla porta, dicendoci che saremmo rimasti in contatto.

“Suo padre si è rotto una spalla durante un’escursione…l’unico modo per arrivare all’isola sulla quale era presente un ospedale era prendere l’elicottero…pochi metri d’acqua…un guasto al motore…ma purtroppo non sono riusciti a risalire… si sono salvati solo il pilota e due passeggeri che erano seduti davanti… mi dispiace “

Tornammo a casa accompagnati dallo stesso silenzio dell’andata, entrammo in casa e l’unica cosa che vidi fu un divano nel quale sparire.

Sante e Crash non si erano mossi da lì, uno sempre con aria assente e l’altro senza il solito sorriso sfacciato, piuttosto una O maiuscola e incredula al posto della bocca.

Daniele prese tra le mani il joypad ormai unto che Sante gli passò, mise il gioco in pausa e disse a voce alta che sua madre era morta. A Crash scappò un singhiozzo. Poi aggiunse “e anche mio padre, è morto anche lui”.

Sante scattò in piedi senza però andare da nessuna parte.

Dal mio angolo del divano guardai di sottecchi il ragazzo col quale dormivo, mangiavo, lavoravo e lo vidi lontano e perso. In quel momento mi parve di vederlo sfumare via, risucchiato dentro il vortice di uno degli ultimi ricordi:

“Marta! Andiamo! Quanto ci mettete? La prenotazione è tra mezz’ora!” dal garage giunse la voce irritata del padre.

“Per favore ti sbrighi?” lo incalzò ancora la madre che iniziava a innervosirsi.

Daniele si muoveva a un ritmo così lento da risultare irritante, non sopportava suo padre e il modo in cui riusciva ad affossare sua madre, trasformando quella donna brillante e divertente in una ragazzina spaventata e distante da tutto, tranne che da se stesso. Suo padre era un vampiro.

“In questi giorni da solo approfitta per pensare che non sempre ciò che tu credi sia giusto, lo è anche per gli altri.

E che la vita è difficile e a volte ti richiede dei sacrifici.”

Daniele infilò la giacca, il sacrificio più grande in quel momento era essere costretto ad uscire con loro e farsi avvelenare la cena dalle solite stronzate.

Ma aveva fame e si consolava pensando che aveva davanti a sé due settimane di pace, libere da discussioni senza fine né soluzioni.

Venne l’indomani e  la casa si riempì di parenti che portarono isteria e confusione. Io e Sante rimanemmo lì, ore e ore in silenzio. Preparai un piatto di pasta che non mangiò nessuno.

Crash sparì e non lo vidi mai più.

Daniele tornò alla polizia con lo zio e io volli andare con loro.

Ricordo che in auto e poi per le scale della questura e anche quando ci sedemmo di nuovo uno accanto all’altra come il giorno prima, non gli lasciai mai la mano.

Quando infine lo feci, all’uscita dell’edificio austero, fu per sempre.

Non mi volle vedere mai più, gli ricordavo troppo il male, mi disse un giorno al telefono scusandosi.

I poliziotti, che lo avevano convocato per raccontargli la dinamica dell’incidente, gli dissero che l’elicottero aveva preso quota da dieci minuti quando era caduto  in acqua.

Che due sorelle inglesi che alloggiavano nello stesso resort, avendo visto quanto stesse soffrendo suo padre per via della spalla, gli cedettero i loro posti a bordo.

Gli raccontarono anche che sua madre fu trovata seduta al suo posto ma con la cintura di sicurezza slacciata, era poggiata al marito che invece era ancora allacciato saldo al sedile.

Daniele non era stupito, era come se in un certo senso sapesse già tutto.

Sapeva che sua madre non sarebbe mai tornata a galla senza suo padre, sapeva che tra suo marito e la luce, lei avrebbe scelto sempre e comunque il primo.

Sapeva che le giornate piene di sua madre, le sue risate, i libri sparsi per casa e i suoi abbracci caldi come lana morbida, sarebbero rimasti per sempre in fondo al mare insieme ai sacrificii. Quelli che a volte, si sa, bisogna fare nella vita.

Copertina originale di Clopine Malaussene

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Francesca Addei nasce a Roma e ci mette trentasei anni a lasciarla per andare a Berlino, dove vive ormai dal 2013 con un marito, un cane problematico, la vitamina D e diverse piante tutte incredibilmente ancora vive.
Vorrebbe viaggiare più di quanto non faccia già.
Non ama descriversi, né parlare di sé in terza persona, di conseguenza la sua biografia termina qui.

 

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