Il signor Doti, a quarantasei anni, capì l’inconcludenza di affidare le proprie ambizioni nelle mani dei figli e di quanto potesse essere pericoloso in termini economici ed emotivi.
A quasi quarantasette, capì l’importanza del sudore e delle nozioni assimilate nell’infanzia, nel ricrearsi un lavoro da zero.
A quarantasette anni, scoprì di essere un gommista: si ricordò quant’era buono l’odore della gomma appena fatta e la spensieratezza delle azioni meccaniche e, a suo spese, quanto può essere fastidiosa la turbina di uno smonta-cerchi.
La successiva, definitiva, rivelazione per il signor Doti avvenne il settimo mese dal suo sessantaduesimo anniversario, dopo ben quindici anni di convergenza gomme, cambi gomme stagionali, riparazioni di forature e di cerchi danneggiati. Il signor Doti si rese conto di quanto sia più poetico, e delicato all’udito, il suono provocato dal cadere di una gomma appena smontata rispetto a quello causato dalla caduta di un corpo umano. Il rumore che aveva sentito, mentre sistemava la cucina, era stata una vibrazione greve e intollerabile e il corpo stramazzato al suolo, che aveva trovato recandosi in soggiorno per controllare, era quello di sua moglie.
A sessantadue anni, il signor Doti realizzò di essere di nuovo solo.
Nei giorni seguenti, dopo aver avvertito gli interessati al suo dolore, decise di spegnere il cellulare e di non rispondere al telefono di casa. – Non voglio essere disturbato – aveva detto. – Mi faccio vivo io quando sarà il momento.
Il signor Doti, uomo di piccola statura e nelle movenze simile a quelle di un ciottolo ruzzolante, spese il pomeriggio seguente alla sciagura seduto sulla poltrona a osservare la macchia di sangue lasciata da sua moglie nella caduta. Non fece grandi pensieri, a eccezione di qualche offuscata riflessione su una rivelazione che ancora doveva palesarsi. Nello sforzarsi a pensare, si ricordò di un appuntamento all’officina e si recò al lavoro.
Fece il cambio stagionale alle gomme della Renault della signora Mugnai. Quando la signora Mugnai arrivò a riprendersi l’automobile, avvertì il signor Doti di non essere in possesso, al momento, di contanti e lo rassicurò che il saldo del conto sarebbe avvenuto il giorno seguente. Il signor Doti le disse di non preoccuparsi e, senza sapere perché, le confidò il suo lutto. La Mugnai si limitò soltanto a chiedere se stesse parlando della signora che aveva visto più volte all’officina, sempre intenta a spazzare. Il signor Doti si lasciò scappare un nostalgico sfogo: – Glielo dicevo sempre quanto fosse inutile quel suo spazzare. La polvere si accumula. Il pulito è transitorio, soprattutto in un’officina.
– Allora, la pago domani, Doti? – chiese in un inutile tono quieto la signora.
Il signor Doti la guardò con un sorriso ebete e disse di sì, senza smettere di sorridere, con il sole di pasqua a illuminargli degli occhi plumbei.
Appena rientrato a casa, tornò a rimuginare su quella sua ancora non concretizzata rivelazione, quando si accorse di aver lasciato tutto esattamente com’era. Sul tappeto c’era ancora la chiazza di sangue, non più di un rosso acceso.
Il giorno seguente ci sarebbe stato il funerale.
Accese il cellulare e chiamò il figlio. – Mi dovresti fare un favore – disse.
– Certo ba’, dimmi tutto. Vuoi che venga a farti compagnia? Porto anche i bambini? – rispose il figlio con una voce premurosa.
– No, no, lascia perdere i ragazzi, poi quelli vogliono giocare. Mi dovresti accompagnare in un posto.
– Dove?
– Da Don Italo. Devo parlargli.
– Cos’è successo? – chiese il figlio, inquieto.
– Niente. Non ti preoccupare. Mi accompagni? Non ho voglia di guidare: sono stanco.
– Ok.
– Sbrigati. I preti vanno a dormire presto.
– Arrivo subito. A tra poco, ba’.
Quando il signor Doti entrò nella macchina del figlio, quest’ultimo non poté fare a meno di notare la scatola tra le mani del padre e, incuriosito, gli domandò: – Cos’hai lì dentro?
– Niente. Documenti. Carte da far vedere a Don Italo – disse, tenendo stretta la scatola come se il suo contenuto non dovesse finire nelle mani sbagliate.
– Due giorni – disse il Doti con una strana commozione nelle parole. – Per due giorni ho tenuto la casa in quello stato. Poi mi sono deciso. Mentre ti aspettavo ho pulito la macchia di sangue. Non voleva andar via. In verità non sono neanche sicuro di aver usato i prodotti giusti.
Il figlio, concentrato sulla strada, prestava ascolto, impaziente delle successive parole del padre.
– Però non mi sono limitato solo a questo. Ho iniziato a pulire tutti i mobili, poi i pavimenti, poi le credenze, gli scaffali, le camere e pure il bagno. Ho pulito tutta la casa – disse quasi con rabbia. – Tenere le cose pulite stanca più dello smontar gomme e rimontarle.
Il signor Doti si lasciò scappare qualche singhiozzo, il figlio distolse lo sguardo dalla strada per concentrarsi sulle lacrime inaspettate del padre.
– Quando tieni le cose dentro per troppo tempo, alla fine, escono – disse il signor Doti come se si sentisse in dovere di giustificare il suo stato.
Il figlio non disse nulla.
Arrivarono alla parrocchia.
– Ti aspetto qui? – chiese il figlio.
– No. Potrebbe essere una cosa lunga. Ti richiamo io – scese e richiuse lo sportello.
Il vialetto d’ingresso della canonica era poco illuminato e il signor Doti lo percorse a piccoli passi, prendendo tempo per richiamare alla memoria il volto del parroco. Non lo vedeva molto, solo quando Don Italo gli portava il pulmino della parrocchia in officina, ma in ogni occasione Don Italo parlava per tutto il tempo della riparazione, con un modo di fare familiare, come se fossero buoni amici e il signor Doti, forse in maniera un po’ maleducata, non gli prestava mai tanta attenzione, preferendo concentrarsi sul lavoro.
Non erano ancora le dieci di sera, il Signor Doti suonò alla porta della canonica.
– Gino? Cosa ci fai qui a quest’ora? – esclamò Don Italo, in abiti informali, sorpreso dal ritrovarsi il signor Doti sulla soglia.
– Dormiva, Don Italo? – chiese premuroso il Doti.
– No, ero indaffarato sullo scrittoio. Cos’è successo?
– Domani c’è il funerale di mia moglie.
– Certo, lo so.
– Volevo dirle alcune parole a proposito dell’omelia.
Il parroco abbozzò un’espressione perplessa. Scrutò l’uomo di fronte a sé e notò la scatola, stretta forte da quelle mani seviziate dallo sporco del loro mestiere. Si scansò dalla soglia e fece accomodare il signor Doti nello studio, dove una piccola lampada sulla scrivania cercava di contrastare l’oscurità della stanza dall’aspetto sacrale e dall’alito austero dei tomi accatastati sul tavolo e sugli scaffali della libreria.
– Vede, Don Italo – iniziò il signor Doti senza tanti convenevoli, mentre il prete non si era ancora accomodato dietro la scrivania. – Lei mi conosce perché ho cambiato le gomme al suo pulmino, non di certo per le mie preghiere in chiesa. Sono cristiano, sono stato battezzato ma la cosa non mi ha mai interessato più di tanto. Penso comunque di essere un buon cristiano se paragonato a tanti altri.
– Ognuno pratica la fede come meglio crede – replicò benevolo il parroco.
– Non è questo il punto – disse il Doti. – Io cambio gomme: so quali pneumatici sono più adatti per una macchina rispetto a un’altra. Ne vendo molte invernali, adatte a un clima ostico come quello norvegese, non di certo italiano, ma sono comunque gomme affidabili e tengono bene. Mi preoccupo di quando la cooperativa viene a smaltirmi i copertoni vecchi, cose così. Non ho tanto tempo per stare appresso alla mia fede. Non lo so, bestemmio di continuo, una volta gliene ho pure tirata una in faccia.
– Gino, tanti fedeli si rivolgono al Signore in modo improprio, ma questo non vuol dire nulla. Le persone devono sempre trovare un capro espiatorio con il quale adirarsi e sfogarsi; Nostro Signore ha le spalle larghe, lo tollera e lo assolve. Vuoi confessarti?
– No, non è questo il punto.
– Allora cosa c’è, Gino? Vuoi parlare dell’accaduto?
– Ho pensato una cosa – disse il Doti rivolgendosi con un certo stupore al prete. – Non mi interessa quello che faranno quando morirò, come sarà il funerale e cosa si dirà. Ma Miluz era una buona credente. Non veniva mai in chiesa per starmi accanto e aiutarmi con il lavoro. Era molto altruista, era una brava donna. Forse un po’ cogliona, ma era straniera, sa. Era bulgara. La sposai in primavera e la cerimonia fu piccola e semplice, ma lei ne fu entusiasta. Amava la semplicità e la trattava con riguardo.
Don Italo poggiò i gomiti sulla scrivania.
– Mi scuserà l’ora, ma c’è una cosa che non ho mai capito dei funerali. Sono tutti uguali: si sprecano sempre troppe poche parole sul defunto. Se come si dice l’addio di una persona cara non deve essere visto come un dolore, ma come una gioia per l’avvicinarsi a Dio, perché non si dice mai una parola in più sul defunto?
Il prete interruppe il Doti. – Nostro Signore ci conosce tutti ed è sempre pronto ad accoglierci nella sua casa senza distinzioni. Non ha bisogno di sapere le nostre virtù o le nostre colpe, lui le sa già.
– Forse è vero – riprese il Doti. – Ma chi pronuncia il nome del defunto lo sa cos’ha fatto il corpo nella bara, in vita? Io, quando smonto le gomme, lo so l’uso che ne è stato fatto. So se chi guida si diverte a pigiare sull’acceleratore o ha una guida accorta o chi predilige il freno motore. Ma se lei guarda una gomma qualsiasi non sa tirare fuori niente di tutto ciò, ma solo perché non possiede gli strumenti giusti. La colpa non è sua, padre. Non sto giudicando nessuno. Riflettendoci, ho maturato, però, di non volere che le persone ricordino Miluz come la donna che spazzava nella mia officina, voglio darle la possibilità di farsi conoscere. Nessuno la prendeva in considerazione, si sentiva tanto sola e la solitudine le faceva fare cose strane, diciamo così.
– Gino, cosa vuoi dirmi? – lo interruppe il parroco. – Ho sempre provato a parlare del defunto, a ricordarlo ai suoi affetti, sempre sulla base di quello che sapevo – disse quasi scusandosi.
– Infatti! Io voglio farle sapere di più – enfatizzò il Doti, posando la scatola sulla scrivania piena di carte, libri e documenti sui quali il prete stava studiando prima di ritrovarsi il signor Doti alla porta.
– Ho portato questa scatola – disse, come se non fosse evidente, e sollevò il coperchio. – Dentro ci sono quattro semplici oggetti. Oggetti di mia moglie o che in un qualche modo sono collegati a lei. Gli oggetti possono dire tanto di una persona, se c’è una bocca a dargli voce. E io, stasera, Don Italo, sento di aver la giusta pazienza per parlarle di questi quattro oggetti e spero che lei ne abbia altrettanta per ascoltarmi. Le chiedo questo, nient’altro, in cambio non saprei che darle.
Don Italo sorrise e mosse entrambi i palmi delle mani sopra le carte sulla scrivania.
– Stavo studiando questi testi per scrivere un saggio – disse il parroco come se avesse voluto farlo già da diversi minuti. – Dovrò condurre un seminario, alcuni estratti li pubblicherò anche sul giornale della diocesi. Parlano dell’influenza delle privazioni nella perpetuità della fede. Sai, Gino, si parla di oggetti pure qui. Sono bloccato, purtroppo. Magari distrarmi mi farà bene e le tue parole mi ispireranno. Sono tutto orecchie – disse il parroco, cercando compiacimento negli occhi dell’interlocutore.
Primo oggetto semplice
Il signor Doti aprì la scatola e con delicatezza ne tirò fuori un foglio arrotolato. Lo spiegò come se volesse non farlo vedere e, di colpo, gli si accesero in mente nottate in vani scala riempiti solo dal rumore dei tacchi a rocchetto basso di sua moglie e da carezze non rivelate, pomeriggi tra fili d’erba che intervallavano il chiarore del collo di sua moglie durante i lunghi non far niente spesi a scambiarsi le poche parole necessarie, le lente mattine passate a darsi la mano e a osservare i panni lasciati ad asciugare a un sole di fine aprile.
Il signor Doti girò il foglio verso il parroco. Don Italo si ritrovò di fronte la locandina di Viale del Tramonto. Avrebbe voluto dire qualcosa ma il Doti partì a razzo. − Sposai Miluz in primavera, come ho già detto. In luna di miele si andò in un paesino della Bulgaria. La sera stessa in cui si arrivò, c’era una rassegna cinematografica all’aperto. Per il paesino era un vanto. Davano “Viale del Tramonto”, l’ha visto? – chiese il Doti interrompendo il racconto.
Il parroco disse di no con la testa.
Be’, allora deve guardarlo – riprese il Doti − è un capolavoro. Gloria Swanson è meravigliosa. Mia moglie restò folgorata. Appena le si paravano davanti degli scalini, lo faceva spesso nei vani scala, imitava la Swanson nella scena finale quando l’attrice scende le scale circondata da fotografi e dice la frase: “Eccomi, sono pronta per il mio primo piano”. Prima, però, Miluz si sincerava di non essere vista. Era molto timida. Il giorno dopo le chiesi se volesse tornare al cinema, ma lei rispose di no, in maniera decisa, quasi arrabbiata. Mi disse che non avrebbe più voluto vedere nessun film, certa di restarne delusa dopo la proiezione del giorno prima. Le cose belle vanno protette, mi diceva. Il film le era piaciuto così tanto che non voleva alterarne il ricordo, né in positivo né in negativo. Era cocciuta. Non guardò mai più un film, la cosa mi creò anche diversi problemi. Avevamo una televisione sola. La sera, toccava sempre guardare documentari o trasmissioni del cazzo. Oh, mi scusi, Don Italo – disse il Doti alzando la mano. − Toccava beccarmi documentari sugli animali in Africa o in Amazzonia o in India, sui fiumi o sui cambiamenti climatici e non si poteva guardare altro, neanche quando c’erano i western. Io ho provato a farle capire che di film belli ce ne sono a bizzeffe, soprattutto quelli con Clint Eastwood, ma lei non si staccava dalla sua decisione. A un certo punto, prima di addormentarsi, cominciò a raccontarmi delle storie assurde sui fenicotteri dell’Alabama.
Secondo oggetto semplice
Il signor Doti posò la locandina sulla scrivania e tornò a ficcare le mani nella scatola adagiata sulle ginocchia. Fu meno delicato a estrarre il secondo oggetto, che si era incastrato, litigò un po’ con la scatola, poi riuscì a tirarlo fuori e, senza volerlo, lo sbatté sullo scrittoio.
Don Italo sobbalzò sulla sedia. – Un album di fotografie – disse incuriosito.
− No, non è come sembra – replicò il Doti con un sorriso sconsolato, pieno di lacrime nascoste. – Mi faccia spiegare – e guardò Don Italo, con occhi commossi. − Quando sposai Miluz, lei era da poco arrivata in Italia. Io facevo l’operaio, lei era impiegata in un’impresa di pulizie. Non so se fosse amore o rispetto delle sfortune reciproche, fatto sta, ci sposammo quella stessa primavera, come ho già detto. Lei non aveva un soldo, io qualcuno in più di lei. Le davo una paghetta settimanale, il suo stipendio era appena sufficiente a pagare l’affitto. Con quanto le davo si permise di togliersi qualche capriccio, represso per troppo tempo. Andava al mercato e si comprava un foulard o un paio di scarpe nuove o, quando voleva proprio concedersi un lusso, degli orecchini. E di ogni acquisto teneva lo scontrino e lo attaccava sull’album di fotografie. Non possiamo permetterci delle foto perché non abbiamo una macchina fotografica né i soldi per vedere i posti belli, diceva. Questo album me lo ha regalato mia mamma per il matrimonio e so quanta fatica ha fatto per comprarlo. Quando me lo ha donato, era come un buon augurio, con i suoi sacrifici mi augurava tanti bei momenti da ricordare con felicità, e l’album li avrebbe contenuti e protetti.
− L’importanza di salvaguardare i ricordi dalle dimenticanze quotidiane – interruppe Don italo con un sorriso benevolo. – Avere un luogo che tutto custodisce e ricorda, come le mura della nostra chiesa – e volse i palmi delle mani in alto come a omaggiare la forte spiritualità dell’ambiente.
− Già – tagliò corto il signor Doti e proseguì: − E se non posso ricordarli con le foto, diceva, allora ci voglio attaccare gli scontrini. Affermava che erano piccole rivincite sulla povertà mia, sua e di sua madre – si rende conto? − disse il Doti lasciandosi scappare un risolino.
Il parroco, con un’espressione bonaria sulla faccia, faceva cenno di capire tutto perfettamente.
− Ogni volta che lo aprirò – continuò il Doti − voglio ricordarmi che, in quel giorno, a quella data ora, ho potuto avere la mia piccola rivincita su tutta la miseria che il mio nome si è portata dietro per anni, diceva proprio così. Me lo ricordo come se fosse ieri – aggiunse il Doti. – Ha riempito l’album e, in un certo senso, qui dentro c’è la storia della mia famiglia, elencata da tutti questi scontrini. Certi giorni, rientravo a casa e la trovavo seduta sulla poltrona, con il capo chino sull’album gli sorrideva in segno di gratitudine. L’avesse vista, Don Italo. Era proprio strana, mia moglie.
Terzo oggetto semplice
L’attenzione di Don Italo era tutta sulla scatola e su cosa ne sarebbe uscito. Non sapeva più cosa aspettarsi, ma era stimolato. Nell’ascoltare il Doti, certi pensieri erano venuti a galla e la vista della maniglia in ottone opaco agitata in aria dal signor Doti non lo stupì, gli fece solo desiderare di sentire le prossime parole.
Il Doti non si fece attendere, con un fare agitato, sventolando la maniglia a destra e a manca, iniziò: − Miluz aveva un rapporto strano con le faccende domestiche. Aveva lavorato in un’impresa di pulizie, come ho già detto, quindi sapeva pulire bene. Ma nel pulire aveva delle preferenze. Considerava la maniglia come l’oggetto più prezioso dell’arredamento, in quanto con essa apri o chiudi un passaggio al tuo piccolo mondo – e fece un ammiccamento al parroco, convinto di aver detto una cosa abbastanza spirituale.
Don Italo contraccambiò con un gesto d’intesa della mano.
− Secondo Miluz – riprese il Doti. − Che tu voglia o non voglia far entrare qualcuno nei tuoi spazi, lo devi sempre fare con rispetto e una maniglia non pulita è sinonimo di noncuranza nei confronti di colui che busserà alla tua porta, di ogni occasione nuova che ti si presenterà. Pure in officina passava mezz’ora a lucidare la maniglia della saracinesca, ma a quale fine poi? Ma chi la guarderà mai la maniglia della saracinesca di un officina? Magari poi si dimenticava di lavare le stoviglie o gli scaffali – sospirò come se si fosse tolto una grossa pietra dal cuore e sulla bocca gli si delineò una smorfia informe.
Quarto oggetto semplice
La smorfia informe si appesantì di una dolorosa rassegnazione quando il Doti tolse dalla scatola l’ultimo oggetto. Un telecomando.
– Vado a prendere il telecomando in salotto, è stata l’ultima frase che le ho sentito pronunciare – singhiozzò il Doti. − Il suo corpo non ha prodotto altre parole, solo il rumore dell’impatto con il pavimento. Poi più niente. Un infarto, hanno detto.
Don Italo abbassò la testa per nascondere una malinconia che si stava espandendo nel suo volto.
− Quello che mi domando è cosa sarebbe successo se invece di andare a prendere il telecomando, fosse andata a prendere il panno per asciugare le posate − disse il Doti. − Sarebbe successo lo stesso? Sarebbe arrivata ad asciugarle le posate? Perché proprio il telecomando e non il posacenere per non farmi scrollare sul pavimento? Nell’album c’è lo scontrino di questo telecomando – disse il Doti, quasi in trance, rigirandosi l’oggetto tra le mani. − È attaccato in mezzi a tanti altri ricordi e acquisti. Conteneva già la sua ultima preoccupazione.
Il signor Doti, con insofferenza, sventolò lo scontrino davanti al parroco.
– Questo cazzo di scontrino sapeva già tutto – disse, come se parlasse solo con se stesso. − Mi manca già ora, mia moglie. lo sa, Don Italo? Con il passar del tempo sarà anche peggio. Mi mancano le sue spiegazioni sulla migrazione dei crostacei del mar Indiano o sulla sedimentazione delle rocce delle montagne australiane. Pensi, Don Italo, che a volte, tra un cambio gomme e l’altro, uso l’internet del computer della mia officina per trovare informazioni sull’ambiente: sugli animali di un qualche luogo o sulla flora di qualche altro posto. Stamattina ho cercato se esistono serpenti velenosi nelle Alpi svizzere e a me queste cose neanche interessano. Non me ne frega niente né dei serpenti velenosi né delle Alpi svizzere, non ci sono mai stato e mai ci andrò.
Ho provato anche a guardare l’album come faceva lei. A sorridergli, proprio come faceva lei quando lo sfogliava. Ma non mi riesce. Il mio è un sorriso finto, il suo era autentico, pieno di una pesante leggerezza. Non mi riesce neanche ricordare tanti scontrini, li guardo e non mi dicono nulla. L’unica cosa che non riesco a dimenticare è il tonfo secco della caduta del suo corpo.
Il signor Doti sistemò i quattro oggetti sulla scrivania seguendo un ordine visibile solo a lui. Poi rivolse lo sguardo a Don Italo e disse: – Ho finito.
Don Italo, piegandosi in avanti con il busto, stava per dire qualcosa, ma il Doti, con gli occhi sempre più lucidi, aggiunse: − Domani quando farà la sua omelia e pronuncerà il nome di mia moglie sarà cosciente di chi starà mandando nel regno dei cieli e potrà darle delle buone referenze. Dica qualcosa in più su questa donna che non conosceva. Se lo farà, qualcuno potrà conoscerla meglio, e non sarà soltanto una scopa che spazza per terra: saranno ricordi e i ricordi devono essere raccontati, altrimenti vanno persi, e sarebbe un peccato.
Don Italo sospirò. – Sai, Gino – iniziò il parroco. − Il saggio di cui ti accennavo prima parla delle privazioni di corpi sia terreni che trascendentali e di come la rinuncia possa fortificare la fede. Ma la fede è l’ammissione dell’esistenza per antonomasia e cosa sono i ricordi se non l’affermazione di quell’esistenza? E i ricordi da dove scaturiscono? Io propendo da tutto, da piccole o grandi azioni, dal compimento di un gesto significativo o futile che sia. E se ci si priva di espedienti, artefici di reminiscenze, forse ci stiamo privando dell’esistenza stessa e quindi anche della fede. Questo pensiero non mi fa andare avanti con il mio saggio. Ma le tue storie mi hanno confermato concetti su cui già riflettevo in passato, quand’ero ancora un ragazzo. A volte i pensieri della fanciullezza sono i pensieri più saggi.
Don Italo si alzò, andò dall’altra parte della scrivania e si appoggiò al bordo del tavolo. Con una mano sulla spalla del signor Doti, disse: – Cosa farai quando tornerai a casa?
Il signor Doti si mise in piedi e, ammiccando, disse: – Mi guarderò un film western, il martedì ce n’è sempre uno.
Don Italo sorrise. – Ci vediamo domani, Gino.
– Grazie, Don Italo. La scatola e tutto il resto li riprendo domani dopo il funerale. Magari potranno aiutarla a sbloccarsi.
– E a non dimenticare – precisò il prete. – Buonanotte, Gino.
Il signor Doti uscì dalla stanza, parlando al telefono col figlio. Lo avvertì di tornare a prenderlo. – Ho fatto − disse.
Don Italo tornò a sedersi alla scrivania e rimise la testa sulle carte.
Tra tomi antichi dalle pagine incancrenite, un rosario, un tao di legno dell’ordine francescano, una litografia della Beata Vergine Maria Addolorata, una lente d’ingrandimento placcata in oro, una bibbia rilegata in fili di budello e con la costola ornata di scritte in latino, e un’edizione datata del Vangelo secondo Matteo, la locandina di Viale del Tramonto, l’album di scontrini, la maniglia in ottone opaco e il telecomando sembravano oggetti di una singolare rarità.
Copertina di Stella Passerini
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Racconto di Luca Giommoni (Cortona,1985). Vive a Firenze e lavora ad Arezzo come insegnante di italiano agli stranieri.
Suoi racconti hanno trovato spazio nelle riviste Effe – Periodico di Altre Narratività, Narrandom, Grado Zero, la nuova carne, L’Indiscreto, A Few Words, StreetBook Magazine, Locomotiv.
Un suo racconto ha fatto parte della rubrica Toscana d’autore, curata da Vanni Santoni, del Corriere Fiorentino.
Finalista alla prima edizione del concorso Petrarca.fiv.
Un pensiero su “Quattro semplici oggetti”