La stanza era al primo piano, isolata dal resto del reparto da doppie porte blu e controllata da una telecamera sul soffitto. C’era un letto, un comodino, un armadietto, un carrello di alluminio, un citofono attaccato al muro e una finestra senza maniglia che occupava un’intera parete. Sfilò lo zaino dalla spalla e lo lasciò cadere sul letto, abbassò la zip del giubbotto e lo appese nell’armadietto. Era digiuna dalla mattina. Lo sarebbe rimasta fino alla sera. Così le avevano detto.
“Qualcuno da chiamare in caso di necessità?” – le aveva chiesto l’infermiera.
“Nessuno”.
Sistemò i libri sul comodino e un quaderno accanto al cuscino. Indossò una tuta e calzini puliti. Era già pronta quando squillò il citofono. Dall’altra parte una dottoressa le dava istruzioni. Spinse il carrello di alluminio verso la telecamera, tenne la cornetta incastrata tra la spalla e l’orecchio e svitò il bussolotto piombato come le stava spiegando.
“Guardi bene verso la telecamera, così possiamo verificare che stia facendo i movimenti giusti”.
Non replicò. Il tappo del bussolotto fece un paio di giri. Non se lo aspettava pesante e freddo, si scusò per i movimenti lenti e impacciati, anche se nessuno le stava mettendo fretta. Una piccola capsula di iodio radioattivo, metà rosa e metà bianca, le cadde sul palmo. La mandò giù con dell’acqua.
“Posso berne dell’altra?” – chiese.
“Sì, prego, faccia pure. Ci vediamo tra due giorni. Non esca dalla stanza per alcun motivo. Le lasceremo il carrello con i pasti dietro la porta. Sentirà bussare, aspetti qualche istante e poi lo ritiri”. Ci fu silenzio da una parte e dall’altra.
“C’è ancora, ha domande?” – continuò la voce.
“No” – rispose. E riagganciò.
Sul letto, con le spalle contro la parete, fissava un riflesso rosso sulla finestra. Una luce sfocata, nell’angolo basso. Lo stomaco vuoto faceva rumori di ingranaggi idraulici, nessuno aveva ancora bussato alla porta. Fuori si era fatto buio, l’ospedale era lontano dal centro abitato, non c’erano luci di case, solo i fari dello stadio e i lampioni della strada a scorrimento veloce. Lontani. Sentì avvicinarsi il suono di una sirena. Poi il suono si interruppe. Si avvicinò alla finestra e sotto la croce al neon del pronto soccorso vide un’ambulanza con le luci blu ancora accese, il portellone spalancato. I paramedici tirarono giù una barella con sopra una vecchia. Uno teneva in alto la bottiglia della flebo, l’altro era chino sui manici della barella e spingeva. Nessuno dei due dava retta a una donna lì accanto, coi capelli neri spettinati e un paio di ciabatte, che diceva qualcosa e gesticolava mentre li seguiva. Rimase a guardare come se la scena si fosse impressa sul vetro. La donna magra, gli occhi spiritati, il viso pallido. La vecchia era così piccola da perdersi sotto la coperta, la testa abbandonata di lato, le guance infossate, la bocca aperta. Pensò che fosse già morta. La donna poteva essere sua figlia. Magari vivevano in una casa piccola e dormivano insieme. Erano andate a letto presto come al solito e lei prima di spegnere la luce aveva verificato che la madre avesse preso tutte le medicine. Le aveva cambiato il pannolone e passato la crema da notte sul viso, sistemato un cuscino sotto le gambe e rimboccato le coperte. Poteva essere andata così: ad un certo punto della notte, la madre aveva iniziato a rantolare e la figlia si era svegliata scalciando le coperte di lato. Con la camicia da notte ancora addosso, aveva preso la macchina e seguito l’ambulanza. I pedali le scivolavano da sotto i piedi, le luci dei lampioni la accecavano. Ed erano arrivate lì sotto.
La lampadina illuminava appena il cuscino. Senza aspettare ancora di sentire bussare, aprì la porta. Sul carrello, buttati a casaccio, c’erano tre piatti di plastica sigillati. Non distingueva cosa contenessero perché la pellicola era coperta di goccioline di condensa. Avvicinò il carrello al bordo del letto, strappò la pellicola dal primo piatto schizzandosi la condensa sulle dita e affondò il cucchiaio in una brodaglia in cui galleggiavano pezzetti di carota, pellicine di pomodoro e qualche ditale rigato. Portò il cucchiaio alla bocca e si bloccò fissando il vuoto. Era gelida. Riportò il carrello fuori dalla porta senza aprire gli altri piatti e ritornò a sedersi sul bordo del letto con le ciabatte che penzolavano nel vuoto. Aprì il quaderno su una pagina bianca ma l’occhio le ritornò al riflesso rosso sull’angolo della finestra. Pensò alla vecchia, se fosse morta davvero quando l’aveva vista o se fosse morta nel frattempo. Pensò anche alla figlia, se intanto non l’avesse raggiunta qualcuno. Tornò alla finestra. Il parcheggio era deserto, un infermiere fumava con le spalle appoggiate a un muretto. Quando terminò, schiacciò il mozzicone a terra e rientrò. La donna uscì di corsa e quasi si urtarono. Lui si girò, lei nemmeno lo vide. Si fermò poco più in là, sotto un lampione. La osservò sfregarsi una guancia, affondare la mano nei capelli. Voltava la testa come per cercare qualcuno, rompeva in singhiozzi e fissava il telefono che teneva nell’altra mano.
Qualcuno da chiamare in caso di necessità? Nessuno.
Appannò il vetro col fiato e la perse di vista. Per un attimo la donna era diventata una macchia sfuocata.
Tornò verso il letto, scarabocchiò qualcosa su una pagina del quaderno e la strappò.
Picchiò sul vetro. Gesticolò. Aspettò che la donna se ne accorgesse e quando quella alzò gli occhi lei appoggiò il foglio sul vetro. La vide fissare la finestra e poi guardarsi intorno. La sua ombra nel cerchio di luce del lampione sembrava una lancetta che si muoveva in senso antiorario. Poi vide che si portava il telefono sotto il naso e digitava sulla tastiera.
Si voltò. Quando il display si illuminò, guardò in basso. La donna guardava verso l’alto. Allora staccò il foglio dal vetro e rispose.
Copertina di StockSnap da Pixabay (dettaglio)
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Romina Arena, educa alla lettura consapevole e alla scrittura creativa presso scuole, carceri, associazioni, università. Ha scritto “Leggete e moltiplicatevi. Manuale di lettura consapevole” (Rubbettino, 2019). Tiene corsi di formazione sull’animazione di laboratori di lettura e sull’utilizzo esperienziale e pedagogico della lettura e della letteratura come strumenti per la conoscenza di sé e il superamento dei conflitti di relazione. Ha un blog, La biblioteca di Montag.