Portarsi Appresso i sogni

Portarsi appresso i sogni

Sai, Pete, l’ho conosciuto qui, esattamente a questo tavolino. Ora vedi tutto ordinato e pulito ma devi sapere che qualche anno fa la gestione era diversa: Veronica ci teneva che l’ambiente avesse quel tocco cupo che tanto andava di moda alla fine degli anni novanta. Io glielo dicevo sempre che era tempo di lasciare Trainspotting nel secolo scorso, che ormai l’underground aveva fatto il suo tempo, e se avessimo continuato così avremmo fatto la fine di quei settantenni che vanno ancora in giro con le giacchette di pelle stile anni cinquanta.
Lei faceva una risatina delle sue, ma non è che abbia mai smentito.
Poi per fortuna è rinsavita, ha conosciuto quella pertica di Mun – ma lo sai che solo di recente ho scoperto che il nome dell’islandese è Ögmundur? – comunque, ha conosciuto Mun, si è presa una sbandata cosmica ed ecco qua, l’Ezekiel è diventato un posto nuovo, quasi adatto per le famiglie.
Non so dirti se lo preferissi com’era prima, di certo ora non devo più sguerciarmi per leggere questi stramaledetti menu.
Comunque, è successo cinque anni fa. No, sei, sei anni fa. Faceva un caldo insopportabile, tutta la zona puzzava di pesce e gas di scarico delle navi. Su quello schermo c’era Francia-Croazia, poi avevano interrotto la trasmissione ed era comparsa una giornalista bionda: c’era stata una sparatoria alla scuola qui dietro, un ragazzino aveva ficcato cinque proiettili nello stomaco della maestra che l’aveva sgridato qualche giorno prima, poi un suo coetaneo l’aveva fermato spaccandogli la testa a sediate. Una scena di brutale quotidianità che aveva sollevato le solite proteste contro il solito secondo emendamento. Ehi amico, sembravano dire le facce di qualcuno, qui siamo nei gloriosi Usa, pretendi che giriamo per strada nudi come vermi? Se poi il prezzo da pagare è che un undicenne sfili la pistola al padre e vada a fare carneficine, noi siamo pronti.
È che, Pete, da dove vengo io non siamo abituati a guardarci le spalle dai ragazzini. Sì, qualche volta può capitare di finire con le tasche svuotate, ma non mi pare ci sia paragone. È pure vero, però, che non vivo più lì da dieci anni, e a sentire quello che raccontano i miei sembra che la direzione sia la stessa.
Ma non mi va di parlarne. Preferisco rimpiangere il caffè e la pizza piuttosto che questa merda.
Comunque, il servizio finiva – ancora me lo ricordo – con la madre del bambino che puntava quel suo ditone grasso contro la telecamera e se la prendeva con la scuola, le istituzioni, il presidente. Il presidente, diceva, deve prendersi le sue responsabilità, e poi altre banalità, come se la pistola al ragazzino gliel’avesse data il presidente in persona. Quando era tornata la partita, e con lei il silenzio religioso dei presenti, Veronica aveva sospirato ed era tornata a grattarsi la faccia: all’epoca stava con un rifiuto umano che per poco non l’aveva mandata fallita, così depressa e sballata di anfetamine da non riuscire a stare appresso a tutti i porci che le toccavano il culo mentre che ordinavano birra e whiskey. La trovavi sempre in un angolino come una vecchia scopa abbandonata a scorrere la bacheca di Facebook e a insultare qualcuna delle sue amiche del liceo rimasta incinta.
Dario entrò a metà del secondo tempo. Prese una Samuel Adams, si guardò intorno e, come avessimo un accordo segreto, approdò al mio tavolo. Si sedette dove sei tu ora.
Non so cosa lo spinse a darmi confidenza. Forse quella sera si sentiva più solo del solito e voleva fare due chiacchiere, magari aveva riconosciuto il mio accento dal modo in cui avevo ordinato il Jack Daniel’s. Non si abbandona mai la lingua che t’ha messo al mondo, soprattutto se sei cresciuto in un posto rumoroso come quello in cui sono nato io, dove la gente urla da finestra a finestra, fra le strade, alla piazza del mercato, persino a tavola.
Puoi non crederci ma noi siamo fatti così, siamo gente che odia il silenzio e ama le voci, ama le serenate sotto ai balconi e altre cazzate. O forse la verità è che provo troppa nostalgia – e come non potrei, con mia madre e mio padre che invecchiano a quasi settemila chilometri e mia sorella che mi manda le foto di un nipote che non ho ancora avuto modo di vedere. Porca puttana, se ci penso c’è da impazzire.
Comunque, disse ciao e si sedette, senza curarsi di disturbarmi o chiedermi se aspettassi qualcuno. Però indicò lo schermo e mi domandò se fossi mai stato in Russia. Gli dissi di no, che non c’ero mai stato. Lui neanche, ma ci sarebbe voluto andare, anche se adesso era lontano da Mosca come mai prima.
Mi tese la mano, una stretta né troppo forte né troppo debole. Una buona stretta. Dario, disse, mi sono trasferito da poco e non ho idea di come funzioni da queste parti.
Andrea, risposi, poi mi concentrai un secondo di troppo su quegli occhi verdi prima di aggiungere che qui funzionava come da tutte le altre parti: ci si presentava agli sconosciuti e poi si finiva a letto insieme.
Solo dopo realizzai quello che gli avevo detto. Ma lui intanto stava già ridendo, aveva già buttato giù un po’ di birra, me ne aveva già offerto un sorso, mi aveva già risposto che avevo ragione, per dio se avevo ragione.
Finita la partita lo portai a fare un giro. Gli mostrai il molo e i pescherecci incrostati di sale, la vecchia libreria di Edgar che oggi ha chiuso, la bakery dove siamo stati stamattina e il postaccio dove all’epoca, quando facevo le tre per l’insonnia, prendevo gli hot dog e compravo un po’ di md.
Aveva voglia di parlare e soprattutto di ascoltare, così gli raccontai del dottorato alla Boston University e del ragazzo che avevo lasciato a Napoli, dei progetti che avevamo insieme e di quanto fosse difficile portarsi appresso i sogni dall’altra parte dell’oceano.
Aveva già capito come stavano le cose. Sicuro l’aveva capito prima di me, che avevo dovuto aspettare di finire nel suo monolocale invaso da scatoloni, su quel materasso duro come l’asfalto.
Ma anche questa è un’altra storia. Non ci sono rimasto male per com’è andata, certe cose non si possono prevedere. Lui era qui da poco, doveva fare il possibile per lasciarsi alle spalle il passato e non poteva immaginare che di lì a qualche settimana avrebbe incontrato Lorelei e ci avrebbe messo su famiglia. Certe cose vanno così.
Ironia della sorte, Pete, lei era appena stata assunta alla bakery che gli avevo fatto conoscere. Se non fosse stato per il mio entusiasmo, chissà…
Comunque eccolo, sta entrando. Ti piacerà Dario, vedrai. Ormai è uno dei miei migliori amici.

Immagine di copertina di Chiara Tescione

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David Valentini è nato a Roma nel 1987, scrive per CriticaLetteraria e Altri Animali. Ha pubblicato racconti su Altri Animali, CarieCrackCrapula clubDigressioniFogaGrado zeroInkrociinutilePastrengoReader for blind, Spazinclusi, Zest letteratura sostenibile e con il collettivo Spaghetti writers.

 

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