Copertina del racconto "Poche cose" di Fabio De Masi, realizzata da Elena Bianco

Poche cose

Sono seduto in cucina. Nella stanza, oltre a una piccola cucina a gas, il lavello, un frigo e alcuni pensili, ci sono solo il tavolo e una sedia. Le altre tre le ha prese lei. Ha detto che me l’ha lasciata giusto per non farmi mangiare e lavorare in piedi. In camera da letto c’è un materasso buttato per terra, mentre lungo la parete, sopra un nylon steso sul pavimento, ci sono quei pochi vestiti che ho: tre magliette, due felpe, due maglioni, due pantaloni e un po’ di biancheria. Li ho piegati, riposti meglio che potevo, e li ho coperti con un lenzuolo bianco per non farli impolverare troppo. La sala con l’ingresso è spoglia. Nel bagno ci sono solo i sanitari. Tutto sommato in casa ci sono poche cose.

Guardo il sole che cammina sul pavimento. Entra dalla finestra senza le tende. Di sera, quando accendo la luce, i vicini mi vedono. Vedono solo me, anche perché non ci sono cose da vedere. Sulla parete è rimasto l’orologio. Sento il ticchettio, e posso vedere indistintamente le ore che non passano. Anche il rumore dei secondi sembra rallentare, minuto dopo minuto, rilasciando dietro di sé un po’ di riverbero. Non mi resta altro da fare che ricordare. Odio i ricordi, perché ti tolgono la possibilità di andare avanti. Sono una specie di melma che ti intrappola. Sabbie mobili: più cerchi di uscirne, più ti agiti, più ti portano sotto.

Mi alzo in piedi, prendo la giacca appesa dietro la sedia, la indosso e mi infilo le scarpe lasciate accanto alla porta di casa. Scendo a comprare del pane. Il panettiere mi chiede come sto. È un uomo che ha superato i settanta, ma che continua in questo mestiere faticoso. Provo a sorridere. Mi concentro per usare i giusti muscoli del viso. Nei suoi occhi si accende la comprensione. Mi chiede cosa voglio, e mi dice che la vita non è fatta per farsi troppe domande, ma semplicemente per farsi quelle necessarie. Infila la pagnotta in un sacchetto, mi dà il resto e sorride. Lo fa nel modo giusto, così preciso che dentro mi si scioglie qualcosa. Lo ringrazio ed esco. Cammino a testa bassa per non pestare le cacche dei cani, e penso che per colpa degli altri non posso guardare il cielo senza finire nella merda. Passo dal giornalaio e compro il quotidiano. Visto che è sabato e non lavoro, e non ho soldi per fare nient’altro, passerò la giornata a leggerlo. Di solito prendo la matita e, con tutto quel tempo che ho a disposizione, sottolineo i passaggi più belli o riscrivo sopra le frasi meno riuscite. Lo faccio per ogni articolo. Mi dà il giornale. Non mi chiede se voglio un sacchetto. I giornalai non lo fanno mai, nemmeno quando l’ecologia non era così di moda. Nemmeno un sacchetto di carta. I giornali vanno tenuti in mano o sotto l’ascella. Passo davanti al bar; da dentro Ettore mi saluta. Alzo la mano, ma decido di tirare dritto per risparmiare un euro e dieci.

Quando arrivo in casa mi tolgo le scarpe e appendo la giacca dietro la sedia. Butto il giornale sul tavolo e poso il sacchetto del pane vicino al gas. Prendo la moka e preparo un caffè. Alzo la testa, a parte l’orologio, sulle pareti ci sono solo i segni delle foto che non ci sono più. La parete in quei punti è pulita, è rimasta quella che era. Provo a ricordare quali fossero le immagini e dove fossero appese. Poi prendo la matita e inizio a disegnare in uno di quegli spazi ciò che ricordo. Da dietro la testa mi arrivano il rumore e il profumo del caffè. Poso la matita, prendo la tazzina e lo verso. La riempio fino all’orlo. Dentro il pensile, oltre alla tazzina, c’è un bicchiere, una tazza, un piatto fondo e uno piano. Nel cassetto ho una forchetta, un coltello, un cucchiaio, un cucchiaio di legno, uno scolino per la pasta e un cucchiaino. Nel mobile sotto il gas ci sono una pentola, una padella, un pentolino e lo scolapasta. Il frigo è vuoto. Prendo la padella, rompo un uovo e lo strapazzo con il cucchiaio di legno. Lo metto nel piatto e lo mangio col pane e col caffè. Guardo la parete. C’è un accenno di persona, ora, disegnata nel riquadro alla destra dell’orologio. Mi alzo, apro lo sportello, prendo il bicchiere e lo riempio con un po’ d’acqua del rubinetto. Mi guardo intorno. Ora che non c’è nulla, mi viene spesso da guardarmi intorno. Osservo il vuoto. Lo faccio con molta attenzione, come se stessi cercando qualcosa nelle cose che non ci sono. Penso di avere tutto quello di cui ho bisogno, in fondo. Forse è proprio quello che cerco: la conferma di non avere bisogni. Mi tolgo gli occhiali. Ora le cose che non ci sono sono sfocate. Anche il sole sul pavimento si sta ritirando, mentre l’ombra si diffonde senza incontrare ostacoli.

Prendo il piatto, le posate e la tazzina e li poso nel lavello. Faccio scorrere un po’ d’acqua. Raccolgo le briciole sul tavolo con una mano e le butto nella spazzatura, poi passo uno straccio per togliere quelle più piccole. Apro il giornale in due e inizio a leggere i titoli della prima pagina. Nulla di interessante. Ancora scontri sull’approvazione della legge contro l’omofobia. Mi sono sempre chiesto come si senta chi limita la vita degli altri; come si possa avere questa presunzione che i nostri gusti, il nostro modo di vivere debbano non solo andare bene per tutti, ma addirittura essere un modello da seguire. Mi guardo intorno e immagino di imporre a tutti di vivere senza niente. Una maestra è stata licenziata perché il suo ex ha diffuso un filmato dove facevano sesso. Un uomo ha ucciso la moglie. La Juve subisce una battuta d’arresto. Il Toro dovrà dare il tutto per tutto nell’anticipo di oggi.

Prendo la matita e scrivo in un angolino del giornale:

nessuno ama il

prossimo, ogni articolo

di questo giornale

ne è la prova.

i giornalisti sono i primi a non amare i propri lettori

Esco un attimo sul balcone. Non compro più le sigarette per non spendere soldi. Appoggio i gomiti sopra la ringhiera e sento mancare dei gesti nelle mani. Respiro lo smog, sempre meglio di niente. Nel palazzo di fronte qualche signora sta stendendo. Allungo una mano, la mia roba è ancora bagnata. Lavo a mano e i vestiti ci mettono una vita ad asciugarsi. Alcuni balconi sono vuoti, come la mia casa. Altri invece sono un ammasso di cose. Penso sempre sia meglio il vuoto che il disordine. Anche se non so quale dei due metta più a disagio. Con un piede calcio delle foglie secche che sono cadute dal piano di sopra. Una ragnatela senza ragno si muove tra le stecche della ringhiera. Mi giro verso casa. In questo momento la luce e i vetri formano un riflesso che non permette di vedere dentro. Chi guarda immagina che io viva bene o male come tutti. Tutti immaginano che gli altri vivano come tutti.

Rientro in casa, chiudo la finestra e vado in sala. Passando osservo gli spigoli delle colonne scheggiate dalle cose che sono state portate via. Le stanze vuote sembrano più piccole del normale. Come se senza le cose le pareti si ritirassero. Faccio AH! La voce viene amplificata dal niente; ritorna indietro. Oltre alla sensazione di ingrandire tipo Alice, c’è la sovraesposizione a me stesso. Le cose tengono a distanza i limiti. Le cose ci distraggono, ci tengono lontani. Occultano la nostra vera voce. Nascondono i confini.

Esco sul balcone che dà sulla strada; è impolverato. In un angolo ci sono due vasi vuoti, senza terra. Petali e foglie non sono le mie. Sono state portate dal vento. Qui è pieno di ragnatele, ma anche quelle sono vuote. I ragni non ci sono. Per strada la gente passeggia, tiene in mano borse con dentro cose. Non sono nemmeno le dieci del mattino e mi sembra di essere in questa giornata già da un paio di giorni. Rientro in casa. Sul parquet ci sono le sagome dei mobili, anche lì sotto il tempo si è fermato. I miei passi scricchiolano e rimbombano come a sussurrare “sei solo”. Non li ascolto. So benissimo di essere solo; è una conseguenza delle mie azioni. Così come essere senza cose. Mi sto adattando. Vado in bagno, urino, poi mi lavo le mani. Non ho uno specchio. Il mio aspetto ormai lo indovino un po’ accarezzandomi il viso, un po’ nel riflesso sfocato sulle vecchie piastrelle. Alcune crepe probabilmente sono le mie.

Per anni la nostra relazione è stata sorretta dalle cose: facevamo cose, compravamo cose. Quelle poche volte in cui si rimaneva in casa si creava un clima strano, come di attesa. C’era una tensione che sfociava nell’apatia. Eppure avevamo un sacco di cose con cui poterci intrattenere. Chiedevo ai miei colleghi, e anche loro, quando non facevano nulla, si sentivano annoiati; “È stato un weekend lunghissimo” dicevano. Dubitavo addirittura sulla loro scelta di avere avuto dei figli, che ai miei occhi diventavano dei semplici riempitivi come le altre cose. Quindi tutte queste cose a cosa servono? Gliel’ho chiesto un giorno, le ho detto che avremmo dovuto smettere di comprare cose o di organizzare fine settimana pieni di impegni. Le ho detto che ero stanco. Le ho detto che volevo più tempo per me stesso. Da quel momento in poi il nostro rapporto ha iniziato a cambiare, questa volta volontariamente. Ma forse era già cambiato da molti anni, da quando eravamo circondati da più cose di quante ce ne servissero. Ha iniziato a dirmi che ero egoista, che pensavo solo a me e non a lei. Che il nostro tempo era importante e, se il mio desiderio era quello di usarlo tutto per me, voleva dire che allora a lei non tenevo. Di noi non m’importava. Faticavo a capire queste accuse. Io intendevo dire che le troppe cose, il fare cose, ci toglievano da ciò che era effettivamente importante. Le dicevo questo. E il fatto di non sapere cosa fosse importante per me, per lei e anche per noi, ne era la prova. E così, dopo un paio di mesi in cui mi rifiutavo di fare cose, ha deciso di finirla. Ha deciso che erano più importanti le cose. Per questo le ho dato tutto, e il resto l’ho fatto portare via. Volevo provare a vivere senza le cose, solo con la vita che mi era stata data a disposizione. Era ripassata dopo una settimana o giù di lì. Si guardava intorno, un po’ come faccio io ora, ma con un’altra intenzione. “Vuoi vivere così?” mi ha detto. Ha scosso la testa. Io non ho risposto. Ha lasciato sul tavolo dei documenti da firmare e se n’è andata.

Entro in cucina, mi siedo, prendo la matita e apro il giornale alla prima pagina:

Uccisa dall’ex marito con 5 colpi

La figlia: voleva essere indipendente

TORINO – Voleva solo vivere la sua vita…”

Copertina originale di Elena Bianco

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Fabio De Masi vive a Torino. Scrive racconti e poesie. Nel 2018 il racconto La finestra di fronte è stato pubblicato dal collettivo di scrittura Spazinclusi, mentre la rivista Pastrengo ha pubblicato Quando smetterà di piovere? È uscito a marzo 2021, sulla rivista Risme,  il racconto Nascondino, e nello stesso mese alcune sue poesie sono uscite sul n. 4 della  rivista Fluire – alla chiara fonte.

2 pensieri su “Poche cose

  1. Minimalista, asciutto, concreto e semplice. Un racconto dove stile e contenuto si sposano alla perfezione. Una scrittura che riporta all’essenziale, dove frammenti poetici fanno emergere la sensibilità autentica e profonda dell’autore. Ne consiglio la lettura per il notevole realismo emotivo che lo contraddistingue.

  2. Questo racconto è per chi sa stare in compagnia di se stesso e gli basta, per chi riesce a distinguere i suoni e i sapori delle emozioni, per chi riesce a lasciare andare senza trattenere.

    “Poche cose” è un testo semplice, essenziale e intenso.
    Le parole si amalgamo tra loro con un ritmo costante e scorrevole e regalano una prosa precisa, secca e mai scontata.

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