Bruno getta metà del pranzo nella pattumiera. Neanche stavolta è riuscito a cucinare un pasto decente. Mette le stoviglie sporche nel lavello e nota uno scarafaggio che gironzola lì attorno. Lo spiaccica con un colpo di mestolo, rendendolo poltiglia. Pulirà tutto dopo, ora non gli va.
Accende il computer portatile che non sposta mai e fa un giro in rete, sbuffando. Controlla la posta elettronica: nessun messaggio ricevuto. Si volta verso il telefono, che ha abbandonato fra i cuscini del divano. Quello non squilla mai. Bruno lo raggiunge per stendersi sul morbido… mica tanto morbido cencioso com’è, quanto il pigiama che indossa.
L’appartamento non è cambiato dopo la morte della madre. Perdendo la sua pensione è rimasto senza soldi, altrimenti avrebbe rimosso ogni ricordo di lei. Non gli manca. Puzzava di rancido e si lamentava di qualsiasi cosa. Da quel giorno c’è solo più disordine. Niente libri, niente musica, niente film. Ma un trapano, una sega, un’ascia e altri attrezzi sparsi ovunque. E c’è un manichino femminile senza parrucca. Nudo. L’ha rubato nel magazzino del centro commerciale in cui si occupava della manutenzione, prima che lo licenziassero per i troppi ritardi.
Il vecchio orologio sulla credenza sembra essersi fermato. No, le lancette si muovono, ma con irritante lentezza. Bruno si alza mollemente. Va alla parete spoglia, tira con delicatezza un filo trasparente e sfila, senza fare rumore, un cilindro di gesso. Si avvicina e guarda attraverso l’apertura.
Lei si chiama Salima, è bassa e magra, ha circa trent’anni, capelli scuri, pelle scura, occhiali rotondi. Sta guardando il televisore in vestaglia. Le solite serie poliziesche.
«A volte ho la sensazione di essere osservata», dice a Khaled, suo marito, che mangia meccanicamente fissando il lampadario di ferro.
«Quelle storie di omicidi ti fanno un brutto effetto», le risponde con tono canzonatorio. È un uomo corpulento, stessa età e stesso colorito, con la fronte alta e mani enormi.
Bruno sorride dall’altra parte, tenendoli sotto tiro, nel suo gioco proibito. Apre e chiude uno spiraglio di curiosità con un gesto. Una mera distrazione per sottrarsi alla tirannia della noia. Anche se la loro routine casalinga non ha aspetti d’interesse per lui, spesso non gli dà alcun piacere, soprattutto di domenica. La domenica non fanno mai niente. E tutto diventa più angoscioso del solito.
Si sono trasferiti là da un paio di mesi. Lavorano molto, non hanno figli né animali, non ricevono ospiti e guardano tanta televisione. Sa poco altro, neppure da dove vengono di preciso. Soltanto da qualche giorno parlano in italiano fra loro.
Spiare una persona in statica devozione è un’agonia per i suoi occhi da guardone. Reinserisce il tappo. Su tutta la sottile parete divisoria dei due appartamenti ci sono dei piccoli fori, realizzati prima del loro arrivo. Dall’ingresso che scoraggia, lungo il corridoio soffocante, fino al soggiorno semivuoto. Apre una lattina di birra, si siede e fissa il pavimento. Se fosse meno spesso bucherebbe anche quello. Al piano di sotto abita una vedova niente male. Quei due sono troppo deprimenti.
Vedono il buco richiudersi. Con lo scotch gli appiccicano sopra una cartolina del Colosseo, sghignazzando. Rapidamente sparecchiano il tavolo e lo spostano, sollevandolo per non farsi sentire. Salima si toglie la vestaglia e la mette indosso a un pupazzo a grandezza naturale che ha le sue fattezze. Khaled tira fuori una corda robusta.
Scagliano occhiatacce ai piccoli solchi cerchiati sulla parete, ipotizzando sottovoce la reazione di Bruno, trattenendo le risate, di denti bianchi che non ringhiano. Lo chiamano “il maniaco”, e lo deridono, quell’uomo trascurato e ostile che ha fatto loro una brutta impressione sin dal primo incontro. Credeva che non se ne sarebbero accorti? Li ha presi per scemi?
Le frecciatine che gli hanno lanciato in italiano negli ultimi giorni sono andate a vuoto. Così gli dimostreranno chi è più furbo. Gli faranno passare la voglia di spiarli.
Bruno viene risucchiato dall’esasperazione della monotonia domestica, sul divano, preda di uno zapping compulsivo. L’intrattenimento gli proietta addosso la velocità e l’entusiasmo di mondi falsati, illusioni come carne fresca davanti al muso di un lupo, dimensioni emotive irraggiungibili che generano invidia. È come affacciarsi sull’oblio.
Spegne la TV mandandola al diavolo, apre un’altra birra e fa un solitario con le carte. Sua madre li faceva ogni tanto. Le dispone sul tavolo in quattro file da dieci; deve eliminarle tutte, a coppie dello stesso numero. Il primo tentativo fallisce. Non gli riesce neanche la seconda volta. Né la terza. E con una sbracciata le scaccia via, imprecando contro loro e sua madre.
Fuori diluvia. Per strada c’è un fiume d’acqua lercia. Uscire di casa è impensabile e là dentro non ha più niente da riparare. Si accosta al manichino per fargli qualche carezza. Non ne ha bisogno, è solo per fare qualcosa. Lo porta a letto e si abbassa pantaloni e mutande fino alle caviglie. Baci sulle labbra, sul collo e sui seni, freddi e rigidi. Gli si struscia addosso e lo avvinghia. Ma dopo un po’ si arrende. Non gli tira granché oggi.
Vaga per la casa come uno zombi, urtando le cose, sconfitto dall’ozio. Accende e spegne le luci, calpesta le carte, ignora la sporcizia. Neppure parla da solo. Non ha niente da dirsi.
Dà un altro sguardo ai vicini. Il salotto è in penombra. Gli scuri della finestra sono chiusi. E l’esile corpo della sposina penzola dal lampadario con la testa in un cappio, illuminato soltanto dallo schermo piatto, ancora sintonizzato sui primi piani di quegli attori che blaterano dialoghi irreali. Finisce la birra d’un sorso e guarda meglio, da tutti gli spioncini. Il marito non c’è. Salima è sospesa, oscilla con la vestaglia aperta e le sue pantofole giacciono sul pavimento, accanto agli occhiali.
Rivede sua madre nella vasca da bagno, sott’acqua, immobile, e sente pulsare lo stesso anomalo disagio. L’ha tirata fuori e l’ha avvolta in un ampio asciugamano, senza pensare. Quella volta non puzzava e non si lagnava. Poi gli hanno detto che non avrebbe dovuto farlo, che doveva chiamare i soccorsi e attendere, nient’altro. Lo sapeva, ma non ha potuto frenarsi, come non può farlo adesso. Non può lasciarla appesa a quel modo.
Afferra l’ascia, raggiunge il pianerottolo e controlla se c’è qualcuno per le scale. Nessuno. Con un colpo deciso distrugge la serratura della porta dell’impiccata ed entra.
Attraversa la casa che conosce bene, brandendo l’attrezzo, ma a pochi passi dalla morta perde l’equilibrio per una spinta ricevuta alle spalle e cade, battendo la testa contro lo spigolo puntuto di un termosifone. Sente aprirsi uno squarcio dietro la nuca, una scossa lungo la schiena, i capelli bagnarsi. In un istante ogni movimento gli diventa impossibile.
Accasciato su un fianco, con il volto spiaccicato a terra, vede comparire nella sua ristretta visuale Khaled, che sembra preoccupato, poi sconvolto; gesticola nervosamente e tocca la testa di Bruno nel punto in cui ha la voragine. Qualcos’altro lo tocca a una gamba, anzi lo colpisce; la morta, non più morta, ma infuriata, sbraita chissà cosa in arabo, mentre in Bruno svanisce ogni sensazione fisica. I due calci successivi non li percepisce. Nessun dolore, non sente più niente. Alle urla di Salima si intrecciano quelle di Khaled. Poi si stringono, si abbracciano e parlano fitto fitto. Gli piacerebbe capire cosa si stanno dicendo, ma niente, li ha spiati per mesi e non ha imparato nemmeno una parola.
Meglio così, vorrebbe dire, tanto mi annoiavo. A malapena riesce a pensarlo. La morte gli risparmia altri suoni indecifrabili, altro tempo sprecato, e tutto il resto.
La porta d’ingresso subito richiusa. Un panno sul viso di Bruno, per non vederlo più. Il poliziesco a tutto volume, più di prima, tutto più intenso di prima.
«L’ho visto passare con quell’affare tra le mani… veniva verso di te… che dovevo fare? Ma non l’ho spinto forte, non volevo fargli male», dice lui nella propria lingua, a un passo dalla disperazione.
«Lo so, ma non ci crederanno, in questo Paese odiano gli stranieri. Nostro figlio non deve nascere in galera», gli risponde lei, e con un gesto repentino stacca la cartolina del Colosseo dal muro, come fosse un cerotto.
Ancora nessuno si è accorto di nulla. Si fanno coraggio l’un l’altro, progettando un modo per non farsi incriminare. E agiscono.
Vanno in casa di Bruno con dei guanti di gomma, rimuovono i fili che pendono dalla parete, stuccano i fori e richiudono a chiave, sotto lo sguardo assente del manichino. Salima rimuove il pupazzo dal lampadario e lo nasconde nel ripostiglio. Khaled si spoglia e impugna l’ascia di Bruno, con mani tremanti. Mani di un altro continente, mani da lavoratore, scure e callose. Sferra il primo colpo, colando sudore, e poi altri colpi sul corpo esanime. Il sangue schizza e si spande sul pavimento. Arti recisi, testa mozzata, costernazione, maledizioni, preghiere. Prendono dei sacchi neri di plastica dove mettere Bruno fatto a pezzi. Puliscono tutto con enorme attenzione, in lacrime, ripassando il piano per non sprofondare nel dramma. Si concedono un bacio fugace. Poi Khaled trascina fuori il sacco con il cadavere, ora che è notte e che in giro non c’è gente. Sa dove può nasconderlo.
Salima resta piegata in due, con le mani sul ventre, nella gabbia dell’inerzia. Sospira, accogliendo in sé la speranza di un’esistenza sopportabile, senza castigo, senza redenzione, ma tremendamente sopportabile.
*****
Foto di Unsplash e elaborata dall’autore
Marco Corvaia è nato a Palermo nel 1980. È autore del libro di narrativa Pino se lo aspettava – Il racconto della vita e della morte di padre Puglisi e della raccolta poetica Post Somnium. Numerosi suoi testi (poesie e racconti brevi) sono stati pubblicati in antologie, lit-blog e riviste culturali.