Margherita viveva sul ciglio del pozzo. La finestra della sua cameretta esposta a est si affacciava sulla ruota di un mulino, che le filtrava la luce dell’alba a intermittenza attraverso gli spiragli delle serrande, incoraggiandola a vivere nella propria fantasia. A ogni risveglio. Viveva con la nonna in un cottage lontano da tutto e da tutti. Erano femmine, sole con la loro indole affine. Parlavano poco. Comunicavano con l’esempio, e si leggevano vicendevolmente le favole. Lo facevano di martedì e di giovedì.
Ogni mattina Margherita prendeva furtiva uno gnomo di pietra, rubandolo al giardino di casa: lo incastonava tra i rovi di more nascondendolo alla nonna per infastidirla, ma già pronta a ridonarle il sorriso una volta che fosse riapparso qualche ora più tardi, al posto cui apparteneva. L’avveduta ragazzina faceva rinsavire la donna regalandole un tesoro a suo modo. In un primo momento la feriva con la privazione, stabilendo a puntino il caos, poi la rallegrava convincendola di aver improvvisamente ottenuto un qualcosa di più, che tutto era ciclico, di ritorno, in riordino. La punzecchiava come poteva, anche e soprattutto per noia. Come si fa con le lucertole.
La nonna somigliava a una bestiolina di sasso. Non rideva quasi mai, e si conteneva nelle espressioni del viso, ma appena qualcosa spezzava i suoi schemi, iniziava a tremare, ad agitarsi facendo imbarazzare chiunque le fosse accanto, fuorché Margherita, poiché era abituata ai suoi exploit, ai suoi occhi strabuzzati mentre imprecava urlando frasi totalmente sconnesse. Quando al sabato si recavano al mercato, e la nonna si accorgeva che le mele rosse rimaste in esposizione erano di numero dispari, questa iniziava a delirare, finendo per trascinare per un polso la nipote fino a casa, lasciandole un bel segno livido. Tornavano senza aver comprato viveri, così, con la dispensa in magra, non si sarebbero nutrite correttamente per la successiva settimana. Erano entrambe esili, ma con gli occhi vispi. Inquietanti come fattucchiere. Probabilmente animate da quell’ardore che affascina nel mistero, portando tutto a sé e, spesso, sgretolandolo. Infatti, in paese, avevano molti legami che però mantenevano frivoli, così da salvarsene. Ogni qualvolta ognuna aveva provato, con tanto desiderio, a intrattenersi in modo più serio e costante con altri esseri umani, aveva fallito. La volontà di fare del male agli altri aveva sempre avuto la meglio.
Quell’anziana capostipite era incerta, impaziente. E così cresceva la nipote. La buttava giù. La tirava su. La spingeva al regresso. Le insegnava una cosa come corretta e poi, di punto in bianco, cambiava i dogmi, scombussolando l’altra, che non si capacitava di come una questione o un comportamento potessero essere dapprima considerati saggi, giusti e poi, improvvisamente, perdere tutta la loro validità, risultando meschini. Qualcosa di cui vergognarsi. La grande, d’altronde, era anche una donna fortemente seduttiva: portava due nei grossolani, ben piantati l’uno accanto all’altro sotto l’occhio sinistro. Quando voleva, sapeva affabulare con le parole, incantare il suo interlocutore. Farlo arrendere. Sciogliere tutto quasi fosse un acido dolce a piegare gli animi. E Margherita, per quanto le somigliasse, non era affatto immune ai suoi sortilegi. Così la silenziava.
Ma la nonna, da qualche tempo, aveva cambiato priorità. Da quando la ragazzina era andata a vivere con lei, convivere con la giovinezza era diventata una sfida. Puro e semplice terrore. Aveva deciso che non sarebbe invecchiata ulteriormente, perciò aveva preso a tingersi i capelli di un brillante celeste, convinta di rallentare l’invecchiamento, che segnava ormai da anni le sue carni dorate e fatiscenti. Lo faceva ogni settimana. Dava libero sfogo a tutte le nevrosi che le arrivavano. E se nella furia, le capitava di rompere qualche oggetto, magari prezioso, non si sentiva mai in colpa. Blindava ogni sera, a doppia mandata, la porta della sua camera da letto, affinché né il gatto, né Margherita potessero entrare a disturbare il suo sonno. Nemmeno la nipote, che di notte diventava evanescente quanto un fantasma, o il più subdolo degli usurai poteva soverchiare il processo isterico. La donna era animata da una guerra interiore di idee contrapposte quindi, per darsi un minimo contegno, calcolò ogni azione da compiere, messa in scena in una routine definitiva annebbiata dall’odore grigio delle sue Merit Slim.
Anche Margherita aveva scelto un rigido regime da seguire quotidianamente, infatti, prima di incamminarsi per andare a lezione, prendeva un paio di noci spaccate dalla vecchia la sera precedente e le mandava giù con gusto, convinta che le avrebbero permesso di percorrere il tragitto fino a scuola, restando invisibile al mondo. Questo era in netto contrasto con ciò che Margherita aveva in corpo da tempo: un licantropo da palcoscenico. Difatti, cercava di attirare ogni attenzione su di sé, conscia delle sue qualità così scarse: alle sue battute non rideva mai nessuno, quando provava a danzare i compagni storcevano il naso. Mangiare la frutta secca era un modo patetico quanto un altro per raccontarsi la bugia che tutti prima o poi si raccontano: “Io ho il potere e io decido”. A casa non riceveva elogi né coccole. Ora voleva solamente farsi notare.
Al di fuori della sua zona di comfort che prevedeva capriole in giardino e giochini col gatto, la ragazzina vibrava come un agnello prima della mannaia. Nell’ambiente in cui era costretta, invece, sfidava l’impossibile, imitando delle qualità a lei naturalmente opposte. Le osservava e se ne appropriava. Provava ad usare il lessico che sentiva usare alle insegnanti quando parlavano tra di loro, ma risultava poco spontanea: nessuno le credeva, quando andando loro incontro pronunciava “Che scempio” commentando dei vestiti bizzarri. In classe erano tutti fortemente ancorati alla prima istantanea che avevano di lei: una mingherlina indifesa e problematica, raggomitolata in un angolo con la sua acne a struggersi le pellicine delle unghie.
Un mercoledì di novembre, inaspettatamente, entrò in aula un nuovo studente. Il suo tono pacato, il suo fisico gracile, il volto pieno di lentiggini, con una bocca bella carnosa taciturna e screpolata. Quel giorno non accennò nemmeno un sorriso, seguì ogni spiegazione delle professoresse con attenzione, un evidente rigore da soldatino cacasotto. Il ragazzo passò l’intervallo a ripiegare rami di glicine in un libro dalla copertina maleodorante, di un rosso tenue, intitolato “La serpe viziata”. Era senza figure, qualche breve poesia bucolica senza arte, né parte, ma gli piaceva il titolo per la sprezzante autenticità.
Quel giorno, Margherita lo osservò tutto il tempo con la coda dell’occhio, come un predatore fa con la selvaggina quando trova il suo odorino interessante già a chilometri di distanza. E l’istinto glielo fece classificare come un timorato di Dio. Lei lo sapeva e, rafforzata dalla sua creatività, tornò a casa intrigata dall’idea di poter avere un personale Lancillotto al suo seguito. D’altronde quel ragazzino non aveva ancora conosciuto l’impotenza di cui era sempre stata vittima lei che, ora, poteva imbellettare un buon personaggio con tutte le sue forze e farsi credere una regina. Così, Margherita tornò a scuola carica di intenzionalità e noci. Gliene offrì sette.
“Grazie, sei gentile” disse lui con riverenza, sforzandosi di accettare il dono. Lei sghignazzò per l’entusiasmo. Nulla di più facile che farsi credere benevoli e illuminati da chi sa stare solo, incollato alla propria miracolosa buona fede, pensò lei. Lo aveva già in pugno. Aveva avvertito la sua vibrazione d’agnello. La stessa della nonna, così analoga alla sua, ma senza scelleratezza e ingegno.
“Quando suona la campanella, vieni con me” disse lei, mentre lui accennò con la testa un pronto consenso. Margherita prese quell’immediata sottomissione per rafforzare il suo carattere, già oltremodo deriso in modo del tutto ingiustificato e ingiusto dagli altri. Fu tutto rapido e incolore. Carpe diem, le aveva insegnato la nonna.
I due strinsero un’alleanza di quelle forti e silenziose, piene di cose non dette, di sentimenti taciuti. Di rancore represso. Si incontrarono per mesi con costanza e ilarità. A volte lei gli faceva lo sgambetto, finendo per ruzzolare a terra con lui per sbaglio, così scoppiavano in grasse risate. Altre volte quando lui stava per perdere nel gioco a dama, lei si buttava col petto sulla scacchiera, e metteva le pedine in disordine come per abolire il gioco, così che se non fossero arrivati in fondo alla partita, non ci sarebbe stato nessun perdente. Altre volte, tra uno scherzo e l’altro, lo offendeva con qualche frase denigratoria, mimando grandi sorrisi e sprizzando festosità. Margherita scoprì molte cose che lo riguardavano. Lui era un orfano, aveva vissuto traslocando di convento in convento, immerso tra l’odore dell’incenso e quello dei roseti per cui quasi tutte le suore stravedevano. Già da piccolo aveva imparato che l’emanazione del Signore era la stessa del camposanto. Era confuso. Dai lumini, dalle camere spoglie e tristi in cui si ritrovava; dalle suore umorali e dalle loro casacche pesanti e scure, dagli atti di punizione corporale e dall’obbligo di provare speranza. La ragazzina scoprì anche che aveva problemi di memoria, che nessuno lo aveva mai carezzato. Eccolo, ora, accoccolato nel pugno di una disadattata. Perfetto così.
Passarono due stagioni, poi un giorno Margherita si svegliò arcistufa di sentirsi onnipotente. Con la sua inventiva poteva tutto, specialmente con lui. Aveva ora bisogno di sentirsi nuovamente insoddisfatta per darsi uno scossone: le mancava il vero brio. Preparò le noci confezionandole con poca cura in un panno di lino, e le mise in uno zainetto di feltro, insieme a una piccola bottiglia di sidro di mela. Aspettò l’amico al solito incrocio della domenica: una quercia piena di profumo e pigne, snodo di venti su cui, di tanto in tanto, un vecchio asino zoppo brucava. Lui arrivò venti secondi più tardi di lei.
“Sei in ritardo” lo rimproverò sfogando la frustrazione che da qualche tempo le si annidava dentro. Lui non ne risentì, non conosceva altro. Anche le suore gli avevano da sempre riservato lo stesso trattamento. Ogni qualvolta cambiava convento, queste lo accoglievano dapprima con gioia prosperosa e benevolenza ma, poi, finivano tutte per non rivolgergli più la parola se non per imporgli di pregare o spazzare. I due salirono sui monti arrivando a un’invitante distesa di tulipani ricoperta di coccinelle, che permise loro di correre e saltare. Qualche minuto più tardi lui cadde – nella sua prima crisi epilettica – aprendo nello spirito di lei una profondissima voragine. Margherita restò ferma. Non intervenne. Lo guardò schiumare, le sue pupille, vuote. La sua figura tremolante e rapita da un mistero fece senso alla ragazza che in tutto quel segreto buio si sentì bene. Era finalmente successo qualcosa di nuovo, un’avventura da strapazzo da non lasciarsi sfuggire. Quindi si concentrò sul suo stesso fiato per riprenderlo, renderlo costante e misurato. Poi capì. Comprese che questo ragazzino esile non sarebbe mai più stato all’altezza del sogno che lei aveva di sé. Certamente non un prode compagno, forte e sicuro da seguirla in lungo e in largo, da far inginocchiare con uno schiocco di dita.
Lo spinse giù dal dirupo con un paio di calcetti pieni di indifferenza, così come la nonna faceva coi mozziconi di sigaretta, e conservando i suoi stessi ideali, decise di ristabilire l’equilibrio e ricercare l’ordine delle cose. D’altronde, la sua serenità era appena stata offesa da uno sconosciuto dal valore dubbio, cane, fetente e ingannatore. Non la meritava. Non le serviva più.
Lui volò via riverberando appena il suo peso innocuo. Non disturbò nemmeno in quell’occasione unica. Lei non si affacciò a constatare, però pensò al sangue sulla roccia, alla bava sul prato. Ai tulipani che avrebbe dovuto riattraversare da sola. Una coccinella le si appoggiò sull’avambraccio, facendole il solletico. Margherita espresse allora un desiderio amorevole. Per se stessa. Poi aprì lo zaino, e cominciò a camminare sulla via del ritorno masticando le noci, convinta che nessuno si sarebbe accorto mai di lei.
Racconto di Elena Nemerov
Copertina: pixabay
Mentre qualcuno scarta l’uovo di cioccolata per divorarlo e qualcun altro coglie le prime margherite, nasce una bambina: è venuta al mondo prima del previsto. È il 1990. Elena Nemerov nasce col broncio, diffidente, ma curiosa. I conigli sono il suo primo amore, il secondo sono le parole, quelle che utilizza per fantasticare o descrivere gli aspetti degli esseri umani che grazie allo studio della psicologia non sono poi così enigmatici. Ama la storia dell’arte, la fotografia e il suo coniglio.