dav

Nico in the Jungle #2

Per leggere la prima parte clicca qui

“ALLORAAAAAAAAAAAAA!” Sono perfetto nei panni di un gorilla mentre scavalco barricate di giocattoli e agguanto un bambino dopo l’altro sbraitando: “Diamoci una calmata!”
La giungla, il cui successo mi ha quasi sopraffatto tanto che Chiara mi ha chiesto l’elaborazione di una relazione con relative schede, cartelloni, disegni fatti a casa da appendere a scuola e disegni fatti in classe da appendere a casa mia, su espressa richiesta del boa, del pavone, del canguro di turno, la giungla, dicevo, è un tantino faticosa. Siamo seguiti da una psicologa che aggiunge un pizzico di analisi – un senso, come ama dire Chiara – ai nostri animali.
Vado da questa psicologa una volta la settimana, mi ci siedo di fronte con le cartelline sulle ginocchia – l’altro giorno anche un casco di banane di cartone – e ho la netta sensazione che invece di decifrare i disegni questa qui voglia decifrare me.
“Perché proprio la giungla, Nicola?” mi chiede “perché non il bosco, la foresta, la macchia mediterranea? La giungla non appartiene al nostro immaginario. Sai Nicola, le favole. La tradizione”.
“La giungla è sensuale, dottoressa, è piena di promesse come una donna nei giorni dell’ovulazione. Penetri nel buio umido e ti senti avvolto. Dalla giungla”.
Ammicco, e anche se non è una donna giovane, faccio un po’ lo scemo.
Lei mi guarda da dietro le lenti che si è sistemata con un gesto da professionista navigata, e si appoggia meglio allo schienale come a dire: adesso mi diverto un po’ anche io.
“Che mi dici di tuo padre?”
“Mio padre è un magistrato in pensione” potrei risponderle. “La magistratura e la pensione definiscono tutta la sua ontologia. Prima lavorava ed era qualcuno, ora non lavora e non è più nessuno: non esce, sta sempre con le ciabatte, non si mette neanche più la cintura. E’ contento solo quando gioca coi figli dei miei fratelli”.
Potrei raccontarle della Sicilia e dei maxiprocessi: tutti zitti, bambini, c’è papà al TG1; dei miei fratelli che ne hanno seguito le orme, l’uno magistrato e l’altro penalista mentre io facevo lo scapestrato coi pantaloni sbrindellati e un tatuaggio a forma di Tartaruga Ninja che mi son dovuto far levare col laser. Ma i capelli lunghi no, quelli li ho sempre rasati.
Avevo bellissimi riccioli neri fino prima media, potrei dire alla dottoressa. Invece non ho detto niente.
La dottoressa ha annuito. “Però potresti venirmi a trovare anche senza quelli” dice indicando i faldoni con le scartoffie della giungla.
“No.” replico battendo gli anfibi a terra per sgranchirmi “Mi sono già abbastanza arrovellato quando studiavo. Non ci sono risposte che spieghino l’equazione dell’essere umano. Non credo proprio che significhi qualcosa se un bambino sceglie un falco piuttosto che un gufo, o un animale col marsupio invece di uno che fa le uova, è solo un gioco. E non provi a raccontarmi che mi raso perché quando mi sono preso i pidocchi mio padre ha fatto il gesto di dare uno schiaffo a mia madre. Alla fine non glielo ha dato. Quindi. Mi raso perché sono matto”.

Il matto mi chiamavano quando ero piccolo. Matto mio, diceva la mamma.
Tutto matto.
Matto mio.

E’ tutta colpa della dottoressa. Se quella donna curiosa con i suoi occhiali da incisore non avesse rievocato la realtà di papà e l’avesse lasciato nell’oblio – io non telefono, lui non telefona, io lo dimentico, lui anche – non sarebbe successo. Sarebbe rimasto per sempre nel soggiorno di casa a leggere il giornale con le pantofole sul tappeto dove da piccolo io giocavo coi trenini. Immobile nel tempo, vecchio per sempre.
Invece mi ha chiamato mia madre, in un momento come un altro, forse stavo aiutando qualcuno dei piccoli a infilarsi gli antiscivolo per l’ora di motoria.
Telefonava dall’ospedale .Ha detto con la voce asciutta – una voce giusta per la moglie di un magistrato: “Ha avuto un ictus. E’ in terapia intensiva, la prognosi non è sciolta. Chiama i tuoi fratelli”.
Per dare la cattiva notizia ha scelto il matto. Il giullare di corte con metà faccia che piange metà faccia che ride.

Non sono mai piaciuto ai miei fratelli, forse mi trovavano strambo. Succedeva spesso che la mia risata finisse in un pianto. Così, con la facilità con cui bevevo un bicchiere d’acqua, quello che avevo dentro usciva prima su una frequenza poi su un’altra. Per me non cambiava niente, sentivo sempre la stessa allegria mescolata alla stessa infelicità, ma loro non capivano. Non facevano la lotta con me. Ero un bambino solitario perché i miei fratelli non mi picchiavano. Neppure mio papà mi picchiava, ma questo non dovrebbe significare che sono stato un ragazzo fortunato?
Non lo so. Certi miei compagni si prendevano di quelle legnate che poi non si sedevano più per una settimana. Mi ricordo di Gabriele, una volta dopo scuola abbiamo preso le bici e siamo andati dal lattaio a comprarci due sacchetti di popcorn, e poi a giocare a flipper in patronato. Era un flipper stravecchio che andava in tilt in continuazione e i ragazzi del bar tiravano fuori i gettoni dalla cassa anche se non avevamo da pagarli. Insomma, ci perdiamo dietro tutto il pomeriggio senza pensare di avvisare. Sulla via del ritorno, che facciamo con le bici a mano perché è già scuro e siamo senza dinamo, troviamo mia madre e il padre di Gabriele. Mia madre si stringe nel golf e indossa le scarpe basse che mette quando deve camminare. Ha le sopracciglia aggrottate e la coda fatta male, come se avesse afferrato il primo fermaglio che le veniva sottomano e si fosse legata i capelli scendendo le scale. Rimane con le braccia strette al busto, le sue labbra non si muovono.
Neanche il padre di Gabriele parla, leva solo la mano di tasca e assesta al figlio un manrovescio che lo manda per terra. Poi lo afferra per la maglia e lo rimette in piedi, e fa per mollargliene un altro ma lui si protegge la testa con le mani facendosi piccolo. Suo padre lo strattona per il collo, se lo schiaccia contro il petto, poi di nuovo lo strattona, smadonna mentre lo abbraccia e dice: “Raccogli quella bici, deficiente”.
Mia mamma e io ci dirigiamo verso casa senza scambiarci una parola. Nemmeno a tavola. Nemmeno quando telefona papà.
“I ragazzi tutto a posto?”
“A posto, non ti preoccupare”.
Da quel giorno il mio eroe è il padre di Gabriele. Corro ad aiutarlo quando lo vedo caricare il furgone. Mi piace come fa col braccio per scollarsi i capelli dalla fronte senza mollare la chiave inglese. Il lembo della camicia che gli esce dai pantaloni, i polpastrelli che sono grossi e larghi, il palmo della sua mano. Accarezza col palmo la testa dei figli, il viso della moglie. Glielo appoggia sul fianco, sul fondoschiena. Mi chiama mezzasega. “Tieni qua mezza sega” comprati il gelato.
Mio padre arringa in un’aula bunker e io mi innamoro di un idraulico, cose della vita. Da raccontare alla dottoressa quando le va di divertirsi.

Papà in ospedale ictus non si sa niente, scrivo ai miei fratelli.
Chiamo appena posso, risponde uno, l’altro non è connesso.
Scrivo anche a Serenella. Mi richiama subito, dice “Mi dispiace tanto”.
“Mica è già morto” rispondo io. Sento delle voci di sottofondo, qualcuno che ride, lei bisbiglia qualcosa, poi dice “Come scusa?”
“Dicevo che di ictus si muore”.
“Oddio, Nico”.
“Già”.
“E’ ancora giovane”.
“Che vuoi che ti dica, Sere”.
“Vuoi che vengo?”
“…”
“Dove sei ora?”
“Sto raggiungendo mia mamma, sono sull’autobus”.
“Già, che non hai la patente”.
“…”.
“Senti, sono un attimo presa, vedo quello che posso fare. Ok?”
“…”
“Ok?”
Riattacco.

Forse dovrei passare da casa dei miei a prendere le sue carte. Potrebbe farsi un pokerino, appena si sveglia, giusto per riempire il tempo fra il pranzo e la cena. Scendo alla fermata vicino ai giardini. Dietro i platani intravedo i balconi del condominio dove abitano, un caseggiato decoroso, coi fili per il bucato sul terrazzo, non troppe auto ammassate sulla strada, non troppe antenne paraboliche. Un posto d’altri tempi, in un certo senso.
Giro la chiave nella toppa: una mandata, due, tre, neppure in un momento così critico mia madre è stata meno meticolosa del solito. Avevo immaginato la scena in cui mio padre si è accasciato sulla poltrona, il giornale che si affloscia, la testa che ciondola come se fosse di un pupazzo, con la stanza invasa di sole. Ora tutto questo nero mi stranisce.
C’è odore di cucina per le stanze. Ha fatto l’arrosto, penso. Ha sempre cucinato tanto, mia madre, ha sempre infestato la casa di odori. Dov’è finito il profumo di colonia delle camicie di papà? Lo cerco fra i cuscini del divano, sul golf con le toppe di pelle sui gomiti e sul giornale, ripiegato accanto al tavolo. Sul marmo del pavimento ci sono i segni delle ruote della barella. Per un certo periodo sono stato volontario Suem, ne so qualcosa di teli e misuratori di pressione.
Già, la pressione. Mi ricordo di quando mio padre si sbottonava il polsino della camicia e mia madre gli metteva la fascia attorno all’avambraccio e poi scuoteva la testa, lui alzava le spalle.
Non riesco a trovare le sue carte nel cassetto sotto il telefono, la luce del lampadario di vetro dell’ingresso è troppa fioca. Il buio denso del corridoio mi preme alle spalle.

I miei fratelli non ci sono. Non c’è neanche Serenella. Siamo mia madre e io. Lei ha preso al distributore una bottiglietta d’acqua che tiene fra le ginocchia. Quel suo sguardo fisso sulla parete mi innervosisce e prendo a raccontarle del serpente di uova e del fungo col morbillo. Sono gli ultimi due arrivati nella giungla, i loro talismani sono gli anelli e il veleno.
“Talismani?” mi chiede distrattamente.
“Le armi” spiego “quello di cui possono disporre nella giungla. Il serpente con le sue spire può prendere e strangolare, il fungo può infettare”.
Mia madre si volta e mi guarda da una distanza siderale, come se non mi riconoscesse.
“Perché fai fare questi giochi ai bambini?” mi chiede Cosa ti hanno fatto di male?”

Non posso non dirlo a Chiara mentre leghiamo i bavaglini, ciascuno dalla sua parte del tavolo.
Dopo aver raccontato della terapia intensiva, del medico che consigliava di occuparsi di eventuali sospesi, della faccia di gesso di mio padre con le guance tirate come se fosse arrabbiato, ora le parlo degli occhi vuoti e della disapprovazione di mia madre.
“Piantatela!” urlo a quelli che si tirano cucchiaiate di minestra. Un proiettile di pastina si spiaccica sul mio camice, minaccio di retrocedere tutti al nido con la faccia cattiva. Ma Chiara è seria.
“Forse ha ragione, dovremmo dare un tema che non sia solo la sopravvivenza” dice “Non fanno altro che pensare a come ammazzarsi. E’ un po’ triste”.
“Oh ma dai, Chiara, lo vedi anche tu come si divertono, la competitività stimola la fantasia. Non fanno altro che creare nuovi talismani per i loro animali”.
“Sì, ma sta diventando un gioco violento”.
“Dove sta la violenza, nei pennarelli? Nella guerra delle noci di cocco? Ma se sono di gomma piuma!”
“Avevi detto che doveva essere un lavoro sulle emozioni, Nicola” dice Chiara convinta “beh? Quando mai porti al centro le emozioni? Quando mai i tuoi fantastici, coloratissimi, fantasiosissimi animali provano a parlare di cosa sentono? Del perché sentano il bisogno di mettersi le zanne, o di costruirsi una tana sotto terra? Stai creando solo delle maschere per l’aggressività” mi guarda perplessa “compresa la tua”.
I bambini stanno chinati sulle minestrine per ascoltarci, il loro chiacchiericcio si è zittito.
“L’ha detto anche la dottoressa” aggiunge Chiara “le tue idee sono buone ma non le stai sviluppando”.
“E me lo dici solo ora?”
Lei mi fa segno di abbassare la voce.
“Dopo settimane che smeno quei tuoi faldoni, e tutte quelle scartoffie, e che vado su e giù dalla dottoressa…”
“Fai solo il tuo lavoro”.
“Ci vado dopo il lavoro, dalla dottoressa. Dopo che sono arrivate anche le ultime ritardatarie” ribatto “e mentre io scarpino col casco di banane, loro parcheggiano passeggini e SUV in doppia fila, per farsi un aperitivino fra signore”.
Proprio queste ultime parole, che ho sparato un’ottava di troppo, si infilano stridenti fra i nostri camici paciugati e i ciabattoni di gomma con l’effetto di farmi imbestialire.
“Magari davanti allo spritz si chiedono se i cuscinetti della nanna sono abbastanza morbidi e quanti strappi di carta igienica usiamo” continuo in un crescendo pericoloso “ma quanto tempo ci impiego a farmi Corso Milano, e se mi stia bene parlare di mio padre e di me che non mi metto la cravatta, mica se lo chiedono! Non se lo chiede nessuna se mi stia bene finire di domenica i cartelloni così il lunedì prima di scappare in ufficio, si possono commuovere per cinque minuti perché i bambini sono bravi come loro. Anche voi” dico sfilandomi il camice e lasciandolo cadere sopra i bicchieri di carta “siete brave a fare il lavoro che le altre donne non vogliono più. Le madri!”
Nella sala è calato un silenzio di piombo. Tutti mi guardano, sono l’unico maschio sopra i cinque anni, i piccoli scendono dalle sedie per abbracciare le gambe delle maestre. La parola tabù risuona ancora come un gong fra i tavolini.
“Voglio la mamma” sniffa uno, seguito immediatamente dal pianto dei suoi vicini. Dovunque si sente piangiucchiare, tutti si chiedono dove siano le mamme.
“Non qui” urlo fuori di me “la mamma non c’è più”.
E improvvisamente mi ricordo dei capelli.
Non era stato per quel gesto stizzito, solo un volo veloce di fianco alla guancia di mia madre che poteva essere uno schiaffo, come lo scostare una ciocca di capelli. Spostarli dalla testa, per vedere sotto, dentro. Perché erano murati in un vuoto pneumatico, i miei, li avevo sempre visti così, senza intersezione.
Il punto di incidenza fra mia madre e il suo cuore eravamo i miei fratelli e io. E io avevo un segreto: quando era buio mi arrampicavo sul lettone e infilavo la testa sotto il lenzuolo e risalivo come il versante di una collina il suo corpo e la sua pelle, la camicia, il sudore e il medaglione sul petto, lo sterno, le costole dure, e in tutta quell’asprezza trovavo il gusto zuccherino del suo seno. E dopo che avevo succhiato come per svuotarla dentro di me, dormivo abbracciato ai suoi capelli ancora neri e intricati come una foresta misteriosa. La mamma era come un disegno di Adelchi Galloni: smeraldi, fili di perle, uccelli e piatti di spaghetti che spuntavano dai riccioli, e lei di quei riccioli faceva tutte le notti una coperta, tessendo l’eternità di un tempo privo del bisogno. Ma poi.
Perché c’è un poi. Chiara non lo sa, né la dottoressa. Neanche Serenella.

Ci ero andato da grande. Acque di vetro, un ottimo posto per tuffarsi dalle rocce con la fiocina in pugno a fare strage di cefali.
“Ah, sei lì?” aveva detto mia madre.
“Sì, ma’, con gli amici. Abbiamo dormito coi sacchi a pelo sulla spiaggia. Ti mostrerò le foto”. Mi volevo divertire.
Non aveva ricominciato. La storia l’avevo sentita talmente tante volte che ormai me ne infischiavo. Mi dava la nausea quella storia.
Il viso di Vespa punteggiato di nei, il riquadro di una foto di lato: una Ritmo blu che nel Brionvega della cucina sembrava nera, e del sangue, nero anch’esso, i flash sparati su facce livide come quelle dei morti. La violenza senza technicolor era tanto cruda quanto i pezzi di manzo che mia mamma batteva sul tagliere. Il nervo, il grasso, la polpa sanguinolenta.
La mamma col batticarne a mezz’aria.
Vespa dice tre.
Secondo la balistica tre colpi d’arma da fuoco, ma sembrano molti di più. Forse sono state le pareti di roccia fra le quali la strada si ingola a rimpallarsi l’eco e a far credere alla scorta che fosse in corso un agguato su due fronti. Sparano tutti, ma nella direzione sbagliata. Un proiettile che entra in un fianco e ne esce sul davanti, uno che perfora la coscia di mio padre e vi rimane annidato. Quante volte l’ho visto quel foro stellato, il muscolo infossato sotto i pantaloni.
Vespa dice uno.
Per una fottuta fortuna ne è morto soltanto uno. Saro è stato ucciso dal revolver ritrovato in un campo a due chilometri, in mezzo ai fichi d’India. Era giovane, da poco aveva avuto un figlio e mio padre gli aveva regalato un barometro. Strano orologio, aveva detto sua moglie. Strano regalo, in una terra dove non piove.
La testa di Saro in mezzo al fuoco. Ma di chi è il fuoco?
Vespa tace.
“No! no!” aveva urlato mio padre sventolando il rapporto balistico un mese dopo “ non siamo stati noi”. Lo batte col dorso della mano “Non siamo stati noi”. Si tocca la gamba. A fottere Saro sono stati loro.
La camicia di papà non era più tornata pulita. Si era tolto la giacca, perché faceva caldo e tutti avevano le maglie incollata alla schiena. Si era arrotolato le maniche e si era pure buttato la cravatta su una spalla fischiettando quando all’autoradio avevano trasmesso la canzone della Rettore.
No, questo non l’aveva detto Vespa e non me l’aveva nemmeno raccontato lui, me lo sono immaginato. Come mi sono immaginato tutti che si guardano, tutti che si contano, si scuotono, si tirano su a vicenda, tranne uno. Papà che si pulisce la bocca col dorso della mano e prova sulla lingua il gusto del sangue di un altro. E si sente immensamente vivo.
Vivo e terrorizzato.
Vivo e felice.

Sto percorrendo il corridoio dell’asilo con gli anfibi slacciati. Se non avessi appena piantato in sala mensa l’unica donna davanti alla quale abbia avuto il coraggio di piangere da adulto, le racconterei che dopo l’agguato mia mamma non era stata bene. Anche se si trovava a millecinquecento chilometri e non aveva sentito i colpi, e il sangue l’aveva visto solo alla televisione e subito aveva lasciato la stanza ed era corsa al telefono e i pezzi di manzo erano rimasti sul tagliere, il batticarne rovesciato su un lato.
Non stava bene e la mattina doveva venire una signora con la permanente e il reggiseno rinforzato per aiutarla ad alzarsi, per portarla in bagno. Una signora che non sorrideva mai perché la mamma non si lavava più neanche la faccia da sola. E non si pettinava, si sedeva sul bordo della vasca senza dire niente.
Non aveva più i capelli lunghi, sai Chiara? Glieli avevano tagliati, ma questo quando stava già in ospedale, un reparto pieno di voci strane, e io mi dicevo che erano stati gli infermieri, per rubarle gli smeraldi e i piatti di spaghetti.
Che ne so, Chiara, cosa aveva avuto? Ero piccolo. Sapevo solo che non mi arrampicavo più sul suo letto, e la signora non lo rifaceva mai, né apriva le finestre, perché in quella stanza non ci viveva nessuno.

“E’ mancato” dice mio fratello, l’avvocato. Dentro di me penso: come si può dire mancato? Di cosa cazzo manca, manca più di niente. E’ morto.

Papà è morto.

Fine di papà.

I bambini chiederebbero: fino a quando?

Almeno fino a Natale, dopo dovrebbe andare meglio. Ma avevo pensato così del funerale, e mi ero sbagliato.
Non sono un esperto del lutto, io che indosso un camice macchiato di blu perché ho tinto le lenzuola per fare il cielo, e dietro le lenzuola ci sono le luci a led, una miriade di stelle puntute e fredde.
“Bellissimo” dice Chiara mentre fissa al soffitto un angolo del lenzuolo “piacerà a tutti”.
Sono a cavalcioni della scala, abbacinato da tutti quei fottuti led e guardo giù dove sono stati ripiegati i miei banani e i baobab. Niente neve nella giungla, dobbiamo migrare tutti in Palestina sulla scia della cometa. I bagagli sono pronti.

La mamma ha già messo via le sue cose. I vestiti, il golf con le toppe e il vecchio panama che usava al mare. I libri tutti in uno scatolone che vuole dare a me.
“Non li voglio” ho detto “che me ne devo fare? Non ti sei ancora rassegnata, ma’?”
Al fatto che mi sia laureato fuori corso, faccia un lavoro da donna, giri in tram, e corra dietro a una ragazza che non mi vuole perché è incontentabile come te. Che più? Ah sì, rovino le generazioni a venire. Insegno loro a combattersi con la fantasia, a sconfiggere mostri più brutti di quelli reali e a capire che alla fine l’unico vero nemico da sconfiggere è la paura.

“Dì, hai di nuovo litigato con tua madre?” chiede Chiara da sotto la scala. “Perché io e Gilberto volevamo invitarvi il giorno di Natale”.
“Va’ da mio fratello, mia madre, quello che ha un figlio che sa suonare al piano Jingle bells con due dita”.
“Allora vieni tu”.
La guardo dall’alto, sospeso fra le luci a led. Se me lo chiede di nuovo penso che strapperò il cielo con tutte le stelle e urlerò come urlo con mia madre dal giorno del funerale.
NO NO NO.
No a tutto, sempre no. Avrei sempre voluto dire no ma non ho mai avuto il coraggio.
E adesso sbraito no al dolore, e non serve a niente.
A un cazzo di niente.
“Lo so” dice Chiara sempre con la testa all’indietro. I led le cancellano il caramello dagli occhi. “Ora scendi, per favore?”

“Chi sarò, secondo voi, allo spettacolo di Natale?”
I bambini: Ermanno, Guido, Cloe, tutti si sbracciano. “Lo so, lo so” gridano “Gesù Bambino!”
Fuochino. Ci arrivano in seconda battuta e scoppia un applauso.
“Un finto Babbo Natale, non quello vero che porta i regali, capito? Niente assalti alla diligenza”.
I bambini mi fissano come fossi scemo.
“Guarda che lo sappiamo” dice Ermanno “non sei veramente Babbo Natale e neanche Gesù Bambino. Loro ce li hanno i capelli”.

Ma per quest’oggi anche io, veri capelli di nylon bianco, e un cuscinone dietro la cintura.
Sarà un bello spettacolo proprio perché le prove sono andate un disastro. Le casse gracchiavano, e un paio di volte il microfono di Chiara ha sibilato paurosamente. Lei si è messa una mano sull’orecchio e ha praticamente urlato: “Signore mio”. I bambini l’hanno preso per un segnale e hanno cominciato a cantare Pecorelle Cià cià cià, e noi maestri a fare “Ssssst!” nevrastenici.
In effetti, a sentire una sola canzonetta in più potremmo dare di matto, ma almeno il cià cià cià ha aiutato i bimbi a dimenticare che il terrore fa scappare la pipì, e al momento del sipario non saltellano più nelle calzemaglie ma sfilano tutti per mano, concentrati e compunti, frugando con gli occhi la platea nell’impresa pressoché impossibile di riconoscere le facce dei propri genitori.
La scenografia è mia, un bosco di alberi stecchiti, coperti di ghiaccio. Vi ho nascosto il serpente di uova, libellule d’acciaio, farfalle portavoce, tutti talmente piccoli che nessuno riuscirà a vederli.
In quest’atmosfera insopportabilmente natalizia mi mancava la mia giungla privata, ma non voglio angustiare nessuno, oggi è la festa dei bambini.
“Fringuelli! Le altre maestre hanno scommesso su quale classe sbaglierà più entrate e la nostra ha avuto il dieci a uno. Facciamogliela vedere noi!” ho detto tirandomi la barba fino al naso, e i bambini hanno appoggiato i lumini per terra e hanno applaudito, perché essere la classe di Babbo Natale li ha ingagliarditi.
E infatti non hanno sbagliato nemmeno un’entrata, anche se la maggior parte di loro si è dimenticata i lumini. Schizzavano a turno a riprenderli, nonostante io ringhiassi “Fermi lì, piccoli bastardi!” da sotto la barba, e ad un certo punto, prima che il panico si trasmettesse anche in platea, ne abbia agguantati giusto due – mettiamo Ermanno e Cloe, ma non sono proprio sicuro perché vestiti di bianco sono tutti uguali – e me li sono messi come potevo sulle ginocchia, e ho detto: “Tutti insieme!” ed è partito il Jingle bells più stonato e sculettato della storia della nostra scuola.
Mentre ero lì, con Ermanno e Cloe che davano il passo alle mie gambe con tutto il loro corpo, ho guardato giù nel nero e ho provato sollievo a non vedere posti liberi, solo teste fitte che spuntavano dal buio, sorrisi sconosciuti.
Mani nell’ombra che applaudono estranee. Nessuno di loro è qui per me. Non mi manca nessuno.
Ma poi la vedo, la poltrona vuota, una soltanto, e anche se non so a chi fosse destinata una specie di filo spinato mi avvolge alla trachea.
Perché ho un’improvvisa consapevolezza: qualcuno mancherà per sempre.
Nel chiasso del mondo.

Stringo forte le mani, le nocche quasi bianche, non riesco a smettere. Cloe dice ahia, Ermanno si volta verso di me e poi verso Chiara che sta dietro le quinte. Lei ci sta guardando. Prima sventola la sua sciarpa rossa poi mi fa cenno con la mano.
“Guarda me, Nico, sono qui, siamo tutti qui con te” vuole dirmi, mentre quel vuoto mi entra nel cuore.

Ho messo per terra Cloe ed Ermanno e li ho spinti verso gli altri bambini. Loro si sono aggrappati per un attimo alle mie braccia ma poi sono corsi a mescolarsi agli altri.
Mi tolgo il cappello, la parrucca, mi accarezzo da dietro il cranio sudato, mi slaccio la giacca e il cuscino scivola a terra, la barba penzola sul petto.
Chiara sta cercando di dire al bidello, elevato per oggi al rango di tecnico, di sfumare le luci. Quello fa un gesto con la mano sull’orecchio, poi si mette ad armeggiare.
E’ un attimo quando il faro scivola via dal palco e schizza la platea come la coda di una cometa. Brilla sulle fronti, fa splendere occhi. Bocche che cantano. Mani frenetiche.
Ma è solo per un attimo: fra tanti ignoti, mi sembra di aver visto un viso conosciuto.
Per un attimo. L’ho riconosciuto subito. Con la coda bassa, come se si fosse chiusa il fermaglio di corsa scendendo le scale. Coi riccioli bianchi e intricati dai quali spuntano smeraldi, fili di perle, uccelli e piatti di spaghetti pronti per essere inghiottiti dal buio.
Il faro fa brillare ancora un momento quelle pietre preziose, poi si accendono le luci in sala.
Scrosci di applausi, i bambini invadono il palcoscenico tutti insieme e le mamme si accalcano sotto con le braccia protese. Righe dall’insieme A all’insieme B: un piccolo ogni due mani. La meravigliosa corrispondenza biunivoca.
Mi si riempiono gli occhi di lacrime.
Non ci sono “bravo!” né abbracci per me.
Ma io sento lo stesso un’improvvisa, inspiegata quiete.

Fotografia di Sara Gambolati

*****

Sara Gambolati. Di Padova, ha fatto studiato tutt’altro e lavora non nel settore, legge da quando ha finito Pinocchio edizione integrale e scrive racconti da poco. Si ispira alle storie che sente allo sportello, nella sala caffè, sul tram che finiscono un file criptato intitolato Operazioni di saccheggio.

5 pensieri su “Nico in the Jungle #2

  1. Più che un racconto un mini-romanzo, ma letto tutto con piacere #1 e #2. Trascinante, divertente e commovente, bella scrittura e…welcome to the jungle perché tutti come Nico, pecore nere o meno, ne hanno una. Spero che l’autrice, molto brava, mi possa concedere una citazione dalla canzone dei Guns&Roses, dalla quale penso sia lecito pensare abbia tratto, almeno in parte, ispirazione per il titolo:
    “puoi provare le luci splendenti ma non le otterrai gratuitamente nella giungla”. Complimenti.

  2. Bel racconto e stupendo modo di raccontarlo. La prima parte mi ha catturato mentre la seconda paga un po’ lo scotto di dover spiegare, ma non diviene mai noiosa e regala un lieto fine del quale si sente il bisogno superata la metà del testo. Per fortuna arriva puntuale e consente al lettore di partecipare al senso di quiete di Nico, immaginando la sua giungla che prospera e nella quale saprà trovare il suo ruolo.
    Complimenti!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *