Copertina del racconto Mezza cucchiara di Michele Frisia

Mezza cucchiara

Il mordiglione è importante. Quando hai mozzato il tondino col flessibile, Michè, lo devi piegare ammodo, lo accozzi con gli altri, finché ti esce una gabbia che si accomoda bella bella nel càssero. La gabbia va ligata con le staffe, e ne deve spuntare un pezzo altrimenti come la giunti all’armatura del pilastro? Presta attenzione che non dev’essere curto, e manco ascire di troppo. È accussí che il groppo resiste, ma la faccenda più importante è la piegatura, a quello serve il mordiglione. Anche se pure il càssero, fìdati, lo devi assestare in modo buono. Prima tagli a misura le assi, usa il segaccione che le bordature vengono a pareggio, e quando accozzi il legno ricordati di tenere una sporgenza per i chiodi, che li dovrai togliere e se picchi troppo dentro finisce che la martellina non li agguanta, e per acchiapparli vestemmi tutti i santi che conosci; allora sì che piangi, pure le lacrime che non tieni. La gettata, poi, è il momento più delicato. La casa viene solida sulu se la gettata è buona. Questo anche il ciucco lo capisce, che se quella esce malamente, anche tutto il resto è una chiavica. Il cemento deve stare senza bolle, niente aria, o si amarezza; e i ferri nel càssero devono stare belli coperti, e non è facile, che diversamente si rugginano. C’è l’arte dietro. Giù al paese ce n’è tanti di imbrachi, solette, e piloni, buttati lì che poi un giorno, forse, qualcuno ci farà una casa, castelli vuoti e Michè, non è una cosa buona da vedere, fa rabbia, all’inizio, poi è tutta un’abitudine e finisce che manco li vidi. Del resto il gobbo sta sempre a guardare la schiena d’altri, si sa, ma tu non lo ricordi, Michè, eri piccolo quando siamo andati via dal paese. Che poi a fare gli scheletri siamo il meglio che c’è. Non in Italia, nel mondo. Lascia riposare bene il cemento, tutta una questione di impasto e di umido, poi quando apri, che spacchi il càssero col palanchino, lì è una bella sudata, spingi spingi tiri tiri, e ti asciughi la fronte, ti scivola il palanchino, poi si spacca e sotto la legna scumminata spunta un’abbitazione pronta, non certo finita, no, quello no, uno scheletro di casa, una figura. Ma pronta. Poi, quando avrai tempo e soldi l’aggiusti come pare a te. Invece quassù è diverso; la gente qui è precisa e non puoi fare come da noi. Da queste parti mettono controlli, sempre, controlli ovunque; insomma Michè, tu cresci con questa gente e io sono pure contento che vai a scuola, e impari le lingue, io manco l’italiano conosco, ma sappi che giù è tutto diverso.

Ma imo innanzi. Soletta e pilastri sono appena l’inizio. Importanti, quello è cosa certa però, Michè, parliamoci chiaro, l’abito fa il monaco, lo fa eccome. La prima cosa da usare è il filo a piombo, e poi la squadra, e magari pure l’archipenzolo. Se le mura non stanno dritte, e gli angoli non sono retti, la gente del paese poi ti parla dietro, e non va bene. Se hai lavorato a dovere, invece, e i muri sono usciti belli ritti, allora li devi cazzafittare, perché se non curi l’intonaco la casa esce proprio una schifezza e te la comprano solo gli scassapagliari. Il fatto della mischiatura richiede attenzione. La betoniera va bene ma se riesci mescola nel secchio, con la cazzuola, a mano, e carica la malta sullo sparviere, spargila da lì, ne metti poca e col polso muovi la cucchiaia, così l’impasto resta fresco. Ogni volta che puoi usa la manàra. Quella, se hai la mano buona del lavoro, liscia meglio della staggia, e il rinzaffo esce una bellezza. Da queste parti, Michè, non ci vogliono. Però hanno bisogno, perché quello che sappiamo fare noi, per loro, è un mistero. Perciò dopo il rinzaffo devi stendere l’arriccio, e solo alla fine, dopo aver bagnato come si deve, e la pennellessa non basta, metti la stabilitura fine, usa il fratazzo, e così la parete esce bella rasa. Michè, ricorda che l’intonaco pareggiato nessuno lo contesta. In casa nostra eravamo con le pezze al culo e i fichi in bocca ma chissà, forse, lasciando passare qualcosa, chissà, magari eravamo ancora al paese. E avremmo pianto di meno. Ma nessuno di noi è stato guardato malamente, mai, nemmeno quando tenevamo le lacrime sulla faccia. Se devo dirti come la penso, Michè, noi non ce ne siamo andati perché ci hanno struppiato, ce ne siamo andati perché non appartenevamo a nessuno. E questa cosa mi riempie di orgoglio, te lo dico Michè, come riempiva il petto di nonno tuo, nonno Michele, eccossì, schiena dritta e morale retta, questa è la famiglia nostra. Perché nessuno di noi, nessuno, si è fatto pecora mai, e così i lupi non ci hanno manciato. Ma certe volte resistere non è abbastanza. Sai cosa mi manca di più del paese? L’orto. Qui l’orto non si può tenere, questi babbalusci sono gente da supermercato. Giù avevamo alberi di prune, perziche, arangi. E cresomele. E pure gerasi. Michè, mamma mia che boni, non come quassù che ha tutto il sapore dell’acqua, Miché, ma di quell’acqua che sapore nemmeno lo tiene.

Quando hai messo una fondamenta sicura, e hai tirato le pareti dritte, ti resta solo da coprire. Ma il tetto va posato con un poco di accortezza. Lascia stare quelle piastrelle di bituminoso che quassù piacciono tanto. È il laterizio, ascolta me, la scelta più azziccata. Evita le tegole piane, prendile a canale; una fila sopra, una sotto, alla diavola, e il tetto esce una bellezza. Devi ponteggiare però. Per travagliare sul piano di gronda il trabattello non basta, e già che sali finisci il grembiale, le falde, sistema le lamiere grecate, e metti bene lo spluvio, ch’è importante. Ricorda di picchiare con la martella sulle grappe, cerca di accomodarle come si deve, e scendi solo quando tieni il pensiero che il lavoro è fatto a puntino. Ma attento Michè, che là in alto farsi male è un attimo. Per evitare le siccature bisogna tenere gli occhi aperti, sempre, oppure finisci scamazzato e manco te ne accorgi. Ma pure quando tieni sei uocchi, Michè, davanti e retro e di lato, certe cose non le puoi evitare. Ne ho visto tanto di sangue nei cantieri, gente smandracata, l’ho visto colare sulla pelle sudata a goccioloni e invischiarsi nella polvere di cemento. È brutto quando stai ferito, buttato a terra, e te ne stai ad aspettare non sai neanche tu cosa, perché come finisce nessuno non lo sa, e devi stare attento, Michè, perché la casa va finita comunque. Non conta quanto hai lavorato bene, quanto era tutto bello nella capa tua, perché se il tetto non chiude i tramezzi che chiudono gli infissi che chiudono la casa della commissione, allora non conta nulla, la gente ti parlerà sempre dietro. Sempre.

Perché il pesce fresco se lo mangia il pescatore, Michè, e così che siamo finiti quassù. Non si sta male, alla fine, non sto dicendo questo. Però mi piange il cuore se penso che non vedrai mai la chiesa nostra, di San Nicola, giù al paese, non sarà una cattedrale ma vedessi quant’è bella, ci ho sposato tua madre, le pitture coprono le parite e il sottocielo è tutto un florilegio di maronne e ancili e friarielli. E non vedrai la tomba dove riposa, mpace, quella poveraccia, che a vederti come sei adesso le luccicherebbero gli occhi. Almeno se n’è ita senza penitenza. Proprio accanto ci sta nonno tu, nonno Michele, tutto chillo che saccio fu lui a mpararmelo, e tuo fratello che quando sei nato aveva manco tre anni e che l’età tua non l’ha raggiunta mai. Perché?, mi chiedi, perché non possiamo tornare? Già… perché. Te lo vorrei spiegare, davvero, te lo spiegherei di buon gesto ma tu, Miché, certe cose non le intendi e no, non fare così, non è che sei fesso, o tordo, o quant’altro Michè.

È che tu, la terra nostra, tu Michè, non l’hai tastata mai.

Immagine gratuita di Pixabay

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Michele Frisia è perito balistico. Ha iniziato scrivendo racconti di genere e sceneggiature, poi ha smesso. Alcuni suoi racconti si trovano su Osservatorio Cattedrale, Nazione Indiana, inutile, Carie, Verde e altre riviste. Con Dino Audino Editore ha pubblicato Delitti e castighi (2019) e Corpi del delitto (2020); nel 2021 uscirà il terzo volume della trilogia. Ha curato il volume Je suis Charlie, Divergenze Editore (2021), col quale Eva Luna Mascolino ha vinto il XX Premio Campiello Giovani. Gestisce un blog con aspirazioni interdisciplinari su www.michelefrisia.it, è autore aggiunto di Spazinclusi e redattore di Narrandom.

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