Immagine di Angelo Pacifico per il racconto "Mercoledì, piscina" di Roberta Garavaglia

Mercoledì, piscina

Stavo finendo di dare la colazione alla bimbetta, quando mio marito è entrato in cucina con una camicia in mano. Reggeva la camicia per il colletto: era la sua prova contro di me, mi mostrava il colletto, insieme al suo disappunto per come la piega fosse troppo alta, perché io non avevo ancora imparato a stirare; non solo: era in ritardo per il lavoro. Questo attacco era un’offesa alla mia persona, come se dipendesse da me il fatto che non si fosse alzato in tempo o che non si occupasse delle sue camicie in forza di una visione della famiglia basata sul genere.

Discutere del colletto di una camicia alle otto di mattina e sentirsi stanca come se fosse la fine di una giornata, ecco.

Per mia fortuna il mercoledì pomeriggio era dedicato alla piscina. Mittwoch: da quando l’avevo imparato in tedesco, a un corso di formazione aziendale, era diventato il mio vocabolo straniero preferito. Corrispondeva al mio disegno dei giorni, Mittwoch: metà settimana.

Con il costumino a pois la bimbetta era bellissima, ma aveva il vizio di pizzicarsi la pelle nuda e nel breve tratto dallo spogliatoio alla vasca si faceva a pois anche il suo petto. Io le accarezzavo la pelle, con le mani fredde che avevano raccolto acqua dalla vasca per bagnarle le spalle, la schiena e la pancia. La bimbetta guardava tutta quell’acqua e sorrideva.

Il muretto era pieno di giochi, li guardava senza scegliere, muoveva le braccia come se potesse volare anziché nuotare. L’istruttore le ha mostrato come fare le bolle sott’acqua, bollicine, bolle grandi. Poi ha preso fiato e si è buttato giù, la bimbetta non lo vedeva più e io vedevo i suoi occhi quasi preoccupati. Quando è tornato in superficie i suoi capelli erano appiccicati alla fronte; se li era raccolti in una coda, come sempre, ma alcuni erano sfuggiti alla presa dell’elastico, come sempre.

La bimbetta si divertiva a tuffare una piccola balena di gomma rosa. La guardavamo, ci guardavamo. Ci siamo toccati i piedi sott’acqua per sbaglio, ancora, e ancora, chiedendoci scusa ogni volta.

L’istruttore è uscito dalla vasca, si è alzato sul muretto per dire una cosa a un bagnino in maglietta rossa, io gli guardavo le spalle, i calzoncini neri appiccicati alla pelle delle cosce. Ho pensato che l’avesse fatto di proposito, uscire dall’acqua per mostrarsi. Ma quando è rientrato in acqua e ha dato alla bimbetta un trenino blu per giocarci insieme, mi sono ricreduta.

A un certo punto ha detto: sono quasi le cinque. Dopo pochi minuti avrebbe tenuto il corso coi bambini più grandi. Abbiamo fatto un girotondo, ma quella sorta di magia che c’era prima era annegata insieme al trenino blu che la bimbetta aveva fatto scivolare giù dal bordo. Ci siamo salutati con la mano, come si fa per insegnare ai bambini a fare ciao, mentre la bimbetta si sbracciava già in direzione dei nostri accappatoi.

Ha il sorriso più contagioso che conosco, pensavo mentre andavamo verso lo spogliatoio, accorgendomi che ancora sorridevo. Lo spogliatoio era caldo come al solito, l’acqua della doccia piacevole; c’era anche qualcos’altro nell’aria, di più fresco e familiare. Non avevo più pensato alla camicia di mio marito, alla sua scenata. E avevo anzi deciso di cucinare il pollo arrosto con le patate, il suo piatto preferito.

Quella notte l’ho sognato, l’istruttore. Ero in un locale con una donna (una conoscente, in sogno, che però nella vita non avevo mai incontrato o non ricordavo), lui ha aperto la porta d’ingresso e ha salutato il barista. Mi ha preso il panico, la donna con cui stavo chiacchierando mi ha fatto una domanda che non ho sentito. Dovevo salutarlo? Mi avrebbe riconosciuto vestita? Intendevo: avevo le spalle coperte e i capelli sciolti e portavo gli orecchini ed ero totalmente fuori dal contesto in cui eravamo abituati a incontrarci. Intendevo proprio quello: mi avrebbe riconosciuto vestita? Così non l’ho visto avvicinarsi, quando mi ha salutato era a un passo da me e non mi capacitavo di come fosse arrivato al mio tavolo. Abbiamo iniziato a conversare in tedesco, quando non sapevamo una parola costruivamo perifrasi. Siamo usciti insieme e una volta fuori dal locale siamo tornati a parlare in italiano e ci siamo guardati negli occhi come se di colpo avessimo scoperto di essere due adulti che camminavano, che il cielo era già buio e che le nostre voci avevano un suono. Il suo piercing luccicava sulla parte destra del labbro inferiore, glielo guardavo, i miei occhi sono cascati proprio lì e ci sono rimasti, non so per quanto.

Il giorno dopo io e mio marito eravamo a pranzo da alcuni amici. A un certo punto mio marito ha messo su una faccia divertita e ha detto: lei, la bimbetta dei nostri vicini e il maestro di nuoto sono una famiglia ormai.

Immagine di Angelo Pacifico

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Racconto di Roberta Garavaglia. Classe 1984. Laureata in Sociologia. Fa la mamma. È mattiniera. Le piace cucinare panini e dolci da forno. Legge, scrive racconti brevi e haiku, e ha partecipato con successo ad alcuni concorsi letterari.

Un pensiero su “Mercoledì, piscina

  1. Roberta con poche pennellate, misurate e precise, tratteggia un mondo familiare, delle relazioni in apparenza strette o superficiali a seconda del punto di vista da cui le si guarda. E secondo me rende bene l’idea di quanto i legami familiari possano non essere sinonimo di reale vicinanza… molto felice di aver ospitato il tuo racconto! 🙂

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