L'utente da lei chiamato

L’utente da lei chiamato non è al momento raggiungibile

“Studio medico riunito buonasera. Sì, sì, gliela passo subito.” pigio cancelletto poi tre. “E’ il dottor Astolfi, chiede di lei, è la terza volta che la chiama oggi…”
Squilla il telefono.
“Attenda un attimo in linea. Studio medico riunito buonasera.” rispondo appoggiando la cornetta all’unico orecchio rimasto libero.
“Mi passa la dottoressa Rizzi, per favore?”
“E’ al telefono, vuole lasciarle un messaggio?”
Squilla il telefono. Ho finito le mani. E le orecchie.
“Ah ah… ok… il suo recapito telefonico?”
Non smette.
“Attenda solo un momento. Studio medico riunito buonasera.”
“Sono la signora Rossi. Vorrei disdire un appuntamento con la dottoressa Rizzi.”
“Attenda in linea.”
Esito, chi ripesco?
“Anna Maria, eccomi. Te lo passo, va bene?”
Uno sbuffo. “Passamelo, tanto non molla.”
Cancelletto, poi zero. Meno una, ritorna gestibile.
“Eccomi. Il suo recapito? Ah… 5-7, ok. La faccio richiamare appena possibile, arrivederci.”
Mani nei capelli.
“Eccomi signora Rossi, a che ora aveva l’appuntamento da disdire? Ok… Vuole prenderne un altro? Sì, sì, siamo aperti fino alle 19.30.”

Tutto il giorno così, manco fossimo alla Borsa di Milano. Certe volte mi verrebbe da alzarmi in piedi e gridare “Compro! Vendo!” agitando le mani in aria come una forsennata. Ma tanto chi se ne accorgerebbe? Quelli se ne stanno rinchiusi dentro le loro stanzette calde, comode, studiate per accogliere, e parlerei al muro.
Sono le 19.30, stacco telefono uno, telefono due, telefono tre. C’è ancora la Rizzi in visita ma me ne posso andare, chiude lei. Almeno quello. Chi cazzo sono io? Lo sanno?
“Come stai bene, oggi, ma ti sei tagliata i capelli?”
Mai sentita una frase così in cinque anni di lavoro. E dal parrucchiere ci vado ogni mese. Nessuno che si sia degnato di farmi un complimento, un’osservazione, persino un appunto. Mi bastava pure una critica.
“Ci sono chiamate per me?” E tutto il repertorio di variazioni sul tema è il loro buonasera. Dal vivo e quando mi chiamano dall’ospedale. Perché se possono a studio manco ci vengono. Che gliene frega a loro.
Mi infilo il cappotto, tiro dietro la porta e scendo in strada. E sarebbero medici, quelli lì. Lei non dà il suo cellulare perché sennò la disturbano. Ma, cavolo, sei una ginecologa, no? E allora come fai a non dare il cellulare alle pazienti? Se stanno partorendo di notte o nel weekend che fanno, aspettano? Vanno in ospedale e il personale mi chiama da lì, è stata la sua spiegazione quando le ho chiesto il perché della scelta. Ah ecco. Nel terrore più totale quelle poverette non possono nemmeno parlarti prima di vederti col camice, i guanti e la mascherina in faccia. Mi pare giusto. Tu ipercorazzata e loro più vulnerabili che mai. Ma le coglione sono loro che continuano a stare appresso a te, mi verrebbe da dirgli.
Faccio la strada a piedi, sono avviluppati da undici ore in quel bel tacco dodici che piace tanto agli uomini e mi arrivano stilettate di dolore. Ma me ne frego pure di loro. Mia sorella dice sempre che per essere belle bisogna soffrire, chissà chi cazzo lo ha messo in testa a lei che lo ha messo in testa a me. Mia madre è morta troppo presto per chiarire la sua posizione sull’argomento, così mi sono ciucciata la spiegazione e me la sono fatta bastare per tutte quelle minchiate che noi ragazze siamo costrette a sopportare.
“Sembri un camionista” mi diceva mio padre quando alle medie iniziavo a vestirmi da femmina. Poi mia sorella, più grande, mi svelò qualche trucchetto, e lui non lo disse più. Imparavo in fretta.
Mi squilla il cellulare. Ma proprio no. Nemmeno faccio la fatica di guardare chi è, non ci penso proprio a parlare ancora con qualcuno. Squilla ancora. Ancora. Ancora. Si ferma, sospiro. Ma quando l’ho scelta ‘sta suoneria? Sembra l’omaggio all’incipit di 1Q84, ridicola.
Salgo le scale del palazzo dando il colpo di grazia ai miei piedi martoriati, e appena spalanco la porta di casa mi tolgo le decolleté con due calci dati all’aria. Mi butto sul divano, senza nemmeno accendere la luce. Squilla il telefono di casa. Ma è una persecuzione? Ruoto la testa e osservo il display. Mia sorella. Bene, proprio l’ultima persona al mondo che avrei voluto sentire. Ah no, quella è la dottoressa Rizzi. Vabbè la penultima.
Vinco la sfida a chi si stanca per primo e torna tutto silenzioso. Enrica mi ha chiesto di uscire, con lei e quel gruppo di smandrappate che frequenta da un po’. Arianna mi ha invitato ad aggregarmi a un gruppo di gente conosciuto per caso in palestra, vanno al cinema. “Che andate a vedere?” Le ho chiesto. “Boh” m’ha risposto lei. Molto motivante.

Si sono fatte le undici e non ho pensato, non ho deciso, non ho mangiato. Familiare, ‘sta cosa. Quand’è che era finita così l’ultima volta? Ah sì, due settimane fa. Ci ho passato la notte, su ‘sto divano, immobile, imbalsamata. Poi mi sono alzata, mi sono cambiata vestendomi e truccandomi di tutto punto, e sono andata a lavorare. Senza motivo, visto che se fossi rimasta vestita così com’ero nessuno l’avrebbe notato. Quello è stato un record. Nella categoria “maggior numero di ore passate seduta sul divano a non fare un cazzo” the winner is… Squilli di tromba, pioggia di coriandoli, io che ritiro il premio tra le lacrime, e bla bla bla.
Vabbè basta stronzate, adesso mi alzo. Oppure no. Da lontano mi arriva il rumore dell’irrigatore automatico dei vicini, parte alle tre precise e dura venti minuti. Allungo la mano e prendo il cellulare, dopo sei ore di stacco dall’aggeggio infernale un messaggio lo potrò leggere senza che mi venga l’orticaria. Sette messaggi, tre di Arianna, quattro di Enrica. Lei si preoccupa di più, vince cento punti. Anzi, si aggiudica un bel ringraziamento quando ritirerò quel famoso Oscar. Ma come mi vesto? Cioè quando uno ritira un Oscar che si mette? Lo sceglie lui oppure glielo suggeriscono caldamente? E’ una cosa importante, merita serie e accurate riflessioni. Ore e ore di elucubrazioni, scelte, valutazioni e ponderazioni, per quei due minuti di palcoscenico. Sul trucco non avrei dubbi, anche se dipenderebbe di certo dal vestito. Non è che le due cose possano andare svincolate. Però ho sicuramente un’idea più chiara… per il vestito… eh, li sarei in crisi. Chiederei a mia sorella, mi sa. Quasi quasi la chiamo. Ma no, il display dice che si sono fatte le cinque, sai come si incazza. “Non mi richiami mai” è la sua frase preferita, poi una volta l’ho richiamata all’alba e per poco non mi mandava a quel paese. Ma allora non ti sta bene niente? Quanto mi andrebbe un caffè. Se ci fosse qualcuno che me lo portasse qui, adesso, caldo… zuccherato al punto giusto… già girato… sarebbe meraviglioso. Mio padre glielo portava sempre a letto, diceva mia sorella, pareva che si mettesse la sveglia apposta per anticipare il loro risveglio di qualche minuto e farglielo bere fumante. Leggende di famiglia. Di quando erano tutti riuniti attorno alla tavola imbandita, per colazione, e fuori scorreva lento il fiume limpido, facendo girare la ruota rossa, mentre dal comignolo sbuffava fumo pallido. Qui a Primavalle ci sarebbe stato bene un paesaggio così, no?

Uh guarda, s’è fatto giorno. Dalla finestra penetrano raggi caldi e avvolgenti. Anzi no, sono taglienti come lame, freddi, gelidi, dev’essere nuvolo. Accendo la televisione e metto il canale del meteo. Sereno variabile, dice. Mi pare un tempo del cazzo, dico io. Spengo la televisione e rimango a guardarla. Mi piace molto di più così, l’ho sempre pensato. In questo modo posso immaginarci dentro quello che mi pare, e in genere è molto meglio di quello che ci mettono dentro loro. Ecco, questo sarebbe il momento in cui dovrei alzarmi, togliermi i vestiti di ieri, riporli sulle stampelle da mettere all’aria, sceglierne di nuovi. Dovrei struccarmi, ritruccarmi, sciogliere i capelli e legarli di nuovo, inguainare i piedi nel tacco dodici, ascoltarli maledirmi, e uscire di casa imbracciando la quasi-Birkin. Sarebbe. E se non fosse? Mi verrebbe a cercare qualcuno, o peggio, chiamerebbero? Chi telefonerebbe per primo? E dopo quanto tempo risponderei?
Che dici, ci provo? Oppure mi alzo? Per ora rimango, poi forse mi alzo. Forse.

Fotografia di Alessia “Stamp” Damiani

5 pensieri su “L’utente da lei chiamato non è al momento raggiungibile

  1. Bello e struggente. Molto bello, ti smuove qualcosa dentro.
    Fa venire voglia di chiedere scusa (con le orecchie basse tipo cocker) per quanto sappiamo essere indifferenti.
    Una curiosità: è voluto quel pronome al maschile (LUI) nella frase “Cioè quando uno ritira un Oscar che si mette? Lo sceglie lui oppure glielo suggeriscono caldamente?”… ? Cioè, la persona che pensa, e quindi che scrive, è una LEI che ragiona al maschile? No perchè mi sarei aspettato che pensasse al femminile (forse è tutto retto da “UNO ritira…”) però il dubbio resta.

    E poi viene voglia di usare il tuo racconto come INCIPIT per un racconto più lungo. E in quel caso l’inizio della mia continuazione sarebbe:

    “…DREEINnnnn!!!!”.
    Altra suoneria del cazzo… questa però non l’ho scelta io, l’ha decisa l’amministratore per il videocitofono.
    “…DREEEEEEEIIINNNNNNNNnnnn!!!!”.
    Mi accingo alla stessa sfida di prima per non rispondere, però il videocitofono mi dà il vantaggio di poter vedere il viso di chi suona senza essere vista e senza che il rompipalle se ne accorga.
    Sbircio sul monitor del videocitofono: …. c’è una ragazza a terra, sembra morta… no si muove, cazzo ma è incinta! E direi minimo al decimo mese da quanto è grossa! Perchè stai suonando proprio a me???
    No, purtroppo questa sfida la perdo, anzi no! direi che la pareggio perchè non rispondo, però mi sa che scendo a vedere, a piedi nudi: anche quella ragazza è scalza, ma ha qualcosa di familiare.
    Non posso girarmi dall’altra parte: il citofono non è un telefono.
    ….
    ….

  2. Ok, se ti fa piacere continuo. Però sarebbe bello se anche altri SpazInclUsers aggiungessero qualche pezzo, così viene più interessante e sfaccettato. Io appena posso aggiungo un pezzo e vediamo cosa ne esce fuori…

    1. Sì, dai, esperimento interessante! La vedo difficile che Marco & Marco riescano a farcela, però male che va ci alterniamo io e te 🙂

  3. Puntata #2
    Non posso girarmi dall’altra parte: il citofono non è un telefono.

    Arrivo davanti alla porta a vetri del mio portone e mi fermo: vedo la ragazza fuori, a terra, sotto la tastiera dei citofoni, si muove. “Appena esco mi ritrovo incastrata in questa storia” penso, ma ormai sono lì. “Vabbè, posso sempre dire che sono scesa solo per aiutarla e poi… arrivederci! OK, allora farò decidere al caso: tutto dipende dalla prima parola che mi dice”.
    Questo trucco de “La prima parola” me lo aveva insegnato mia sorella: “quando vuoi sganciarti da qualcuno o qualcosa, mettigli davanti un paletto difficile: se quella persona lo supera, bene, se non lo supera – cosa molto probabile – puoi mollarla all’istante e non avrai nessun rimpianto perché sai che è stata colpa sua”.
    “Bene, se la prima cosa che mi dice o chiede è qualcosa tipo: Aiuto… Sto morendo… Soccorso… e cose simili, chiamo l’ambulanza e ME NE VADO” decido dentro di me, quindi con mano sicura apro il portone a vetri.
    E’ molto giovane, rantola per non urlare: appena mi vede allunga una mano, poi anche l’altra, le stende verso di me. Non posso fare a meno di prenderle, aspettando una sua parola che mi svincoli e mi liberi, ma lei non dice nulla, però le sue mani mi stringono: forte. Ora, però, lentamente, stringe più piano.
    Le sue labbra, serrate a sangue, non hanno detto una parola, probabilmente è letteralmente senza fiato: sta praticamente partorendo nell’androne del mio condominio. Ma in quella stretta forte, via via sempre più debole, ho sentito quasi un “Grazie” sussurrato, non so da chi, nelle mie orecchie. Mi giro, non vedo nessuno.
    Ma non c‘è tempo da perdere, ho ancora il cellulare in mano. Con una sola mano (l’altra è ancora stretta dalle sue mani) pigio 1 1 8.
    Suona. Suona ancora. Finalmente risponde qualcuno: voce distaccata, un po’ asettica, come la capisco! Adesso attacca la faccenda che mi stanno registrando e… però ora mi sta a sentire: ““SENTI, LO SO CHE STAI FACENDO UN LAVORO DI MERDA, PERCHÉ È LO STESSO LAVORO CHE FACCIO IO, MA ADESSO MUOVI IL CULO E MI FAI ARRIVARE QUI UN’AMBULANZA ENTRO 20 SECONDI PERCHÉ QUI, A TERRA, C’È UNA CON UNA PANCIA CHE SCOPPIA CHE STA PARTORENDO E NON CE LA FA! MUOVITI!!! VIA STANISLAO VINICIO TERZIO, CIVICO 60!”.
    Gli occhi della ragazza a terra mi guardano: non ha ancora detto nulla, le sue mani stringono ancora le mie, ma con sempre minore forza.
    No, ti prego, non andare… aspetta. Le urlo: “NON MOLLARE ADESSO, CE L’HAI QUASI FATTA, LA SENTI QUESTA SIRENA? STANNO VENENDO A PRENDERTI!”.
    Sì lo so, è un bluff: tanto di sicuro non riuscirebbe a sentire il rombo di un carrarmato che le passa a 10 centimetri dalla testa, ma almeno questo le dà la sensazione che sta accadendo qualcosa.
    Mi guardo intorno: dietro di me vedo lontano un paio di donne che ci guardano, anche loro sono vestite con colori accesi, come questa poveraccia che mi stringe le mani… NO!?!? Sta arrivando un’ambulanza! Incredibile ma vero!?
    Nel giro di 2-3 minuti avviene tutto come nell’automatismo di un sogno: scendono in due, la visitano rapidamente, sono preoccupati ma sembra che sanno cosa fare. La staccano dalla mia mano: un po’ mi dispiace.
    L’autista si avvicina a me: “Buongiorno, può darmi qualche informazione?”.
    Gli rispondo molto velocemente il poco che so, anzi lo zero che non so.
    Mi guarda, chissà quante volte gli capita di dover estirpare brandelli di notizie da gente che ha cercato di dare un aiuto ma poi non vuole rogne, ma io davvero non so nulla. Alla fine mi dice: “Dovrò inserire un Codice Anonimo per la persona che abbiamo soccorso, ma nel database devo indicare nome e numero di telefono di chi mi ha chiamato “e mi guarda con aria interrogativa.
    Ma in un lampo velocissimo (…però! sembra intelligente ….) capisce in quale continente sto per mandarlo… “Sì, è vero, il suo numero lo conosciamo quindi sappiamo IN TEORIA lei chi è. Ma in pratica sappiamo che qualcuno ha preso il suo cellulare con la tastiera sbloccata ed ha chiamato il 118. E questo non significa che chi ha chiamato è il possessore del cellulare, potrebbe essere un passante, chiunque. Quindi in realtà…”.
    “No, tranquillo, il cellulare è il mio” lo interrompo, ma lui arriva al concetto a cui voleva arrivare:”… in realtà per quella ragazza sarebbe utile saperlo, perché nel database al momento è solo un numero: senza il suo consenso non posso nemmeno scrivere: amica/conoscente/vicina di… Perciò, posso inserire il nome di chi ha prestato il primo aiuto?”.
    Lo guardo e penso: “Ah, hai detto AIUTO! Finalmente! allora posso sganciarmi!”.
    Mi giro verso la barella: la stanno caricando ma si sono fermati perchè la ragazza ha allungato il braccio (già incannulato con una flebo) verso di me.
    La guardo e le sorrido (che ipocrita che sono: le sorrido mentre sto pensando a come sganciarmi da ‘sta rogna): devo distogliere lo sguardo.
    “La prego, dobbiamo scappare… lei poco fa mi raccontava che nella ragazza aveva visto qualcosa di familiare… perché?” incalza lui: già, LUI. Con quella penna in mano, quanto si sente figo!!! Sul camice c’è scritto DR… Eh già: è un medico.
    !!!
    Mi sale la rabbia e la voglia di fare qualcosa: non so chi mi ha dato l’intuito, il genio o la scaltrezza di infilare la mano nel taschino della camicetta (la stessa che indosso al lavoro) dove porto sempre qualche bigliettino da visita.
    Lui legge e scrive: “Dr.ssa Rizzi… ginecologa. Ah, capisco collega, scusa… ma sei stata veramente in gamba!!! Hai fatto muovere l’apparato del 118 con una velocità incredibile… si vede che sei del campo e sai come funziona! Ok. Uhm… vediamo… allora posso scrivere che questa ragazza in qualche modo è in contatto con la dr.ssa Rizzi, qui ho tutti i recapiti. Così se al PS hanno necessità di contattare qualcuno, chiamano questo numero. Ok?”.
    “OK” rispondo.
    Poi si infila velocemente nell’ambulanza che scappa via portandosi lontano questo incubo.

    Ritorno a casa, avevo lasciato la porta aperta e si è infilato il gatto del vicino, che mi ha vomitato sul tappeto. “Un giorno entro io in casa sua e gli spacco tutto, imbratto, stravomito! Ma cosa c‘è di peggio del vomito?”. Ci devo pensare con calma, la vendetta va servita fredda.
    “Devo valutare bene cosa mangerò prima di farlo!!!” decido furibonda dentro di me.
    Pulisco rapidamente e fuggo sotto la doccia: tra 3 minuti devo essere in strada, sono in ritardo, devo scappare al lavoro, oggi i Medici ci sono tutti, RIUNITI: mi viene in mente Pinocchio circondato da “Dotti, medici e sapienti…” come cantava Bennato.
    Mentre mi insapono, mi ritorna in mente quel braccio allungato verso di me. E quella mano che mi stringeva. E i suoi piedi scalzi.

    Arrivo appena in tempo, come al solito, traballante più del solito sul solito tacco 12, solita trafila, solita indifferenza. Le prime 18-20 telefonate della giornata sono il solito tuffo nella routine quotidiana. Mentre sorseggio il caffè della macchinetta, c’è Sandra che, come al solito, momentaneamente prende il mio posto nella segreteria con i telefoni.
    La sento e vedo rispondere alle domande di qualcuno, con la faccia a forma di punto interrogativo. Poi si gira verso di me, la mano a coprire il microfono, e mi dice: “Chiamano dal Pronto Soccorso per la dr.ssa Rizzi… che diciamo?”.
    Decido con la velocità della luce: “Sarà per qualcuna delle sue pazienti che sta partorendo: tu avvisa subito la Rizzi, dille che probabilmente dovrà precipitarsi al Pronto Soccorso. Intanto passami la chiamata…”.
    Prendo il telefono: la mia voce è calma anche se vorrei urlare e uccidere lo stronzo (UOMO sicuramente) che ha inventato ‘sti maledetti tacchi 12…

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