Lo strano caso del signor Valdo Casucci

Lo strano caso del signor Valdo Casucci

L’ufficio era sempre pieno nonostante l’ufficio fosse un garage con la saracinesca sempre abbassata. Prima di diventare la sala d’attesa della clinica del dottor Enzo Tricase, l’ufficio era stato solo un garage dove riposava una Lancia Flavia, poi per più di quarant’anni un panificio in cui venivano sfornate le migliori Nacatole del Paese e infine uno spazio abbandonato come tanti.
Adesso l’attività andava bene. Sembrava non conoscere crisi. Nell’ufficio, illuminati dalle uniche due finestrelle sulle pareti laterali, si potevano incontrare uomini e donne, di aspetto più o meno raffinato, tutti in attesa, tutti impazienti di beneficiare dei servizi del dottor Tricase.
La segretaria del dottore, da una scrivania recuperata dallo smantellamento di una scuola secondaria, via via chiamava un nome e cognome per compilare le pratiche di accettazione.
«Omero, ulna e radio sono 800 euro» ripeteva al nome e cognome di turno. «Tibia, perone, metatarsali, 1200».
Almeno due volte al giorno, alle facce spente degli astanti, la segretaria ricordava anche che all’anticipo versato doveva essere poi aggiunto il 40% del rimborso assicurativo, come onorario del dottore.
Il dottor Enzo Tricase ogni tanto faceva una visita nella sala d’attesa per stringere una mano, ascoltare gli sfoghi di alcuni dei pazienti più piagnucolosi, salutare un vecchio compagno di scuola, ma soprattutto per flirtare con la segretaria, anche se tra i due non sembrava più esserci alcun mistero.
Certi pazienti, in virtù di una pregressa conoscenza o di un trattamento di favore, erano accompagnati nella sala operatoria dallo stesso dottor Tricase, altrimenti il compito spettava ai due assistenti, due omoni di centocinquanta chili ciascuno, gemelli, nati a distanza di sei minuti l’uno dall’altro, che comunicavano, non solo tra loro, ma con chiunque, a cenni della testa e obbedivano a ogni parola del dottore.
La sala operatoria era la camera da letto di Maurizio Gentile, disoccupato e divorziato, che riusciva a ovviare agli alimenti dei figli e della ex moglie grazie alla camera data in concessione al dottor Tricase e alzando il volume del televisore ogni volta che uno dei due assistenti glielo comunicava con un cenno della testa, quando il dottor Tricase operava.
Il dottor Tricase, uomo ben educato e istruito, si scusava sempre con il paziente di turno per avergli fatto percorrere l’umidità, il buio e la scomodità del vano scala che collegava la sala d’attesa con la sala operatoria.
«Forse il prossimo mese riusciremo a dotarci di un ascensore o montacarichi» ripeteva fin dal primo giorno in cui aveva iniziato a esercitare. Poi, da vero anfitrione, preparava il paziente all’intervento. Lo faceva distendere sul letto e lo metteva al corrente di come si sarebbe svolta non solo l’operazione ma anche il decorso e la procedura postoperatoria. «Questo lo tenga sulla parte interessata finché non se la sente più» e porgeva un pacchetto di ghiaccio al paziente. «Mi dispiace, non posso darle altri tipi di antidolorifici, né alcol né droghe: inquinerebbero l’esame tossicologico» ribadiva ai pazienti più ansiosi. «Mi chiami quando non sente più la parte interessata» e se ne andava a scambiare due chiacchiere con Maurizio Gentile in soggiorno o con la segretaria nella sala d’attesa, per poi ricomparire in sala operatoria, prima che il paziente lo mandasse a chiamare, come se ormai conoscesse a memoria i tempi d’azione del ghiaccio.
«Allora» sorrideva bonariamente il dottore. «Come la fratturiamo questa caviglia? Unimalleolarmente, bimalleolarmente, trimalleolarmente, o fratturiamo direttamente l’astragalo?» diceva se l’arto interessato era la caviglia.
«Preferisce una frattura non comminuta o comminuta per questo olecrano?» se l’arto interessato era il gomito, e così via.
Certe volte dispensava anche consigli non troppo disinteressati. «Vista la natura dell’incidente che avrà luogo e la presenza di un perito, sconsiglierei la frattura a spirale: è rarissima se non impossibile nelle dinamiche dei sinistri stradali».
Il paziente veniva poi fatto adagiare per terra. L’arto interessato sopra un mattone o più, a seconda dei casi, e al resto ci pensava uno dei due assistenti, con un pestone, un pugno o un martello, sempre a seconda dei casi. Intanto il volume del televisore di Maurizio Gentile raggiungeva vette altissime come la disperazione di chi non riusciva a far fronte alle rate dell’affitto o del mutuo sulla casa o dell’università dei figli, al rincaro dei prezzi delle bollette, a pagare per continuare a vivere.
«Adesso uno dei miei assistenti la porterà nel luogo dove avverrà il sinistro stradale» rendeva noto il dottor Tricase alla faccia piegata dal dolore del paziente di turno. «Nei giorni seguenti verrà poi contattato da un avvocato di fiducia che seguirà la sua pratica con l’assicurazione. Lei non dovrà preoccuparsi di niente, penserà a tutto l’avvocato. Si riposi e si goda il suo periodo di convalescenza» salutava il dottore e il paziente veniva portato a qualche isolato di distanza, adagiato sopra l’asfalto dov’era già presente una macchina ammaccata con un guidatore che non faceva niente per scagionarsi dall’aver investito un uomo, e un testimone che faceva di tutto per mettere a conoscenza i presenti di aver assistito interamente alla dinamica dell’incidente.
La clinica del dottor Tricase era capillare e funzionava perfettamente. Se avesse avuto un vero e proprio fatturato, si sarebbe aggirato intorno a due milioni di euro l’anno. Se avesse avuto un vero e proprio slogan, sarebbe stato: “Per continuare a vivere dobbiamo farci male”. Era questa l’organizzazione del dottor Tricase, finché non si presentò lo strano caso del signor Valdo Casucci.

Valdo Casucci bussò alla saracinesca della clinica del dottor Tricase un pomeriggio d’agosto. Fu la segretaria ad aprirgli e fu la segretaria ad avvertire il dottor Tricase che un uomo si stava agitando per conversare personalmente con lui.

Il dottore, impegnato a dare istruzioni a uno dei gemelli su come spezzare il braccio sinistro di una giovane donna che non riusciva più a provvedere alle spese mediche della madre, pregò l’altro gemello di andare ad accogliere come meglio gli riusciva l’uomo in questione e portarlo da lui.
«Sto operando» disse il dottor Tricase quando l’assistente spinse dentro la casa di Maurizio Gentile, sempre davanti al televisore, il signor Valdo Casucci. «Spero che abbia qualcosa di urgente da dirmi» e ammiccò all’assistente dietro le spalle del signor Casucci. Il signor Casucci si diede una rapida risistemata all’abito, che forse aveva indossato al matrimonio, al battesimo e alla comunione del figlio e chissà in quante altre circostanze speciali. L’altro gemello intanto stava accompagnando fuori la giovane donna con un braccio più ciondolante dell’altro e con le lacrime agli occhi.
«Ho saputo che è lei la persona cui rivolgersi per certe questioni» premise Valdo Casucci. «Mi è stato detto che è molto professionale».
«Le è stato detto bene» fece compiaciuto, il dottore. «Ma forse non le hanno detto che il tariffario è consultabile giù, dalla mia segretaria» disse poi scocciato.
«Ho già controllato il tariffario» disse risoluto il signor Casucci, come se la presenza ingombrante di uno dei gemelli dietro di lui non lo turbasse minimamente. «Ma il servizio che cerco io non c’è».
«E cosa cerca lei?» chiese il dottore senza neanche guardarlo negli occhi, mettendosi intanto a sfogliare l’agenda degli appuntamenti.
«La morte» disse senza batter ciglio il signor Valdo Casucci. «Lei mi deve far morire».
Il dottor Tricase guardò perplesso l’assistente dietro le spalle di quello strano visitatore. Il gemello non fece evincere nessuna particolare emozione.
«Ha una polizza sulla vita?» chiese curioso il dottore dopo un po’.
«La migliore!».
Il dottore Tricase guardò intensamente negli occhi il signor Casucci per cogliere anche il più piccolo segno di cedimento, che non si mostrò.
«Sono in ritardo per la prossima operazione» disse poi controllando l’agenda, come se non avesse ascoltato una sola parola del signor Casucci. «Il mio assistente la accompagnerà fuori» e lanciò una breve occhiata all’uomo. «Quello che richiede non è un servizio che la clinica eroga» e poi aggiunse ma pentendosene subito: «Troppo rischioso».
L’assistente, senza badare troppo alle buone maniere, lo stava già accompagnando fuori quando il signor Casucci disse: «È un affare da quasi cinquecentomila euro».
Maurizio Gentile distolse gli occhi dal televisore. Gli occhi, il dottor Tricase, li aveva ben piantati sul signor Casucci, che si era appena divincolato dalla presa dell’assistente.
«Il premio puro è quasi mezzo milione di euro» ribadì in modo più dettagliato. «Ma devo morire entro la fine del mese».
«Perché?».
«Perché se muoio entro la fine del mese il valore del premio è al suo massimo, considerati i fattori di rischio relativi alla mia ipotetica morte. Ho quarantasette anni. Ho uno stato di salute eccellente. Non pratico sport estremi. Ho un’attività considerata non pericolosa e priva di contatti con materie esplodenti, chimiche, venefiche o elettriche. Non penso che da qui alla fine del mese mi esporrò alla trasmutazione del nucleo dell’atomo né a radiazioni provocate artificialmente dall’accelerazione di particelle atomiche né alle radiazioni ionizzanti. Non ho mai partecipato né ho intenzione di partecipare attivamente ad atti di terrorismo o di disordine civile. Non ho mai saltato una singola rata da diciotto anni a questa parte». Verificò di avere l’assoluta attenzione del dottore.
«Ho studiato ogni singola clausola del mio contratto» proseguì. «Ho calcolato con esattezza ogni singola variabile dell’equazione con la quale l’assicurazione stabilisce il premio finale e ce n’è solo una che non sono in grado di controllare in autonomia…».
«Quale?» lo interrupe il dottor Tricase, sempre più incerto se continuare a seguire i ragionamenti del signor Casucci o fargli dare una bella lezione dal gemello.
«La data della mia morte» disse il signor Casucci. «Devo morire entro la fine del mese altrimenti entrerò nella fascia d’età considerata dall’assicurazione più soggetta a rischi, e non potrò godere del premio massimo».
Il dottor Tricase stava per dire qualcosa ma il signor Casucci riprese subito ad argomentare: «Ho già pensato anche a come dovrà essere la dinamica dell’incidente per non avere problemi con l’assicurazione. Immaginavo che non si fosse mai spinto fino a questo punto e, diciamo, mi sono avvantaggiato per non darle il disturbo di perdere tempo sopra troppi cavilli burocratici. Lei si dovrà solo limitare a uccidermi come potrebbe uccidermi un brutto incidente stradale. È solo questo quello che le chiedo».
Il dottor Tricase andò al frigo di Maurizio Gentile e ne tirò fuori una birra. La stappò su uno spigolo del ripiano della cucina e diede due belle sorsate.
«E sentiamo un po’» disse dopo qualche secondo «ha pensato anche ai rischi in cui potrebbe incorrere la mia organizzazione? Voglio dire…» ma il signor Casucci lo interruppe e l’unica altra persona che aveva interrotto il dottor Enzo Tricase in tutta la vita era stato suo padre.
«Ho pensato anche ai vostri di rischi, certamente» disse bonario il signor Casucci. «Un guidatore colpevole di omicidio stradale è ben differente da uno colpevole di lesioni gravi». Si girò per guardare l’assistente dietro di sé e dedicargli un’occhiata amichevole e fece lo stesso anche con Maurizio Gentile anche se era di spalle a guardare il televisore.
«Ma con una parcella di quasi quattrocentomila euro, dottor Tricase, credo che non avrà problemi a destinarne una piccola percentuale per risarcire regolarmente i sette anni di carcere di chi si assumerà la responsabilità della mia morte».
«Quattrocentomila euro» ripeté il dottor Tricase con voce maliziosa. «Se il premio massimo puro è quasi mezzo milione, vuol dire che lei si accontenterà di meno del venti percento?».
Il signor Casucci sorrise alla preparazione della persona che aveva di fronte. Era difficile trovare una velocità di calcolo così al giorno d’oggi ed era anche difficile che qualcuno cercasse di fregare il dottor Tricase omettendogli ogni dettaglio sulla polizza contratta.
«Questo è solo il premio massimo derivante dalla mia morte» disse il signor Casucci. «Ma le ho già detto che la mia polizza assicurativa è la migliore: risarcisce anche la mancata capacità reddituale derivante dalla morte dell’assicurato. Dottor Tricase, la mia capacità reddituale in questo preciso momento è elevatissima. Il mio capitale umano è quello che una qualsiasi compagnia assicurativa definirebbe un rischio più che sicuro».
«Quanto?» disse soltanto il dottor Tricase.
«Fino alla fine del mese, la mia aspettativa di vita e di produrre redditi valgono altri trecentomila euro».
Il dottor Tricase prese da parte il suo assistente e, come se parlasse anche all’altro gemello, gli bisbigliò all’orecchio: «Questo figlio di puttana sembra sapere di cosa sta parlando. Che ne dici? È possibile?».
Il gemello fece un segno impercettibile.
«Affare fatto» e il dottor Tricase allungò la mano all’uomo.
«Entro la fine del mese?» ribadì ancora una volta il signor Casucci stringendogli la mano.
«Entro la fine del mese» gli assicurò sorridendo.

Il dottor Tricase in anni di indefessa carriera non si era mai incuriosito alle motivazioni che spingevano i suoi pazienti da lui, anche quando i pazienti volevano dirgliele a tutti i costi sperando di poter usufruire della compassione dell’uomo e di uno sconto. Ma adesso, mentre vedeva quell’uomo discutere tranquillamente su come avrebbe dovuto presentarsi il suo corpo dilaniato; su quale automobile, tra quelle disponibili dal carrozziere di fiducia del dottor Tricase, fosse quella che riportava le ammaccature e i danni adeguati all’incidente mortale; su come i gemelli avrebbero dovuto conservare un po’ del suo sangue e spargerlo sia sulla strada che sull’auto, moriva dalla voglia di fargli un’unica sola domanda.

Gliela fece il giorno prima della sua morte.
«Per chi lo fa?» gli disse.
«Per mio figlio» distolse lo sguardo da come si sarebbe svolta la sua morte sottoforma di schema disegnato su un foglio. «Mio figlio deve ancora capire cosa vuole fare nella vita» disse. «Ma sono sicuro che quando lo capirà sarà qualcosa di grandioso. Qualcosa che cambierà per sempre il mondo per come lo conosciamo. Ma per capirlo ha bisogno di tempo e di tranquillità, non di preoccupazioni su come fare ad arrivare alla fine del mese. Da vivo, non glieli posso dare. Ma da morto, con una cifra del genere, potrà avere tutto il tempo e la tranquillità per pensare a quello che vuole fare nella vita, senza preoccuparsi di nient’altro» e tornò a ripassare ogni possibile dettaglio della dinamica dell’imminente sinistro.
Il dottor Tricase aveva smesso di ascoltare il signor Casucci già dalla seconda frase. Pensò soltanto che davanti aveva un disgraziato come tutti gli altri, solo più preparato, e che quel preciso disgraziato gli avrebbe reso, dopo essere riuscito a strappargli una percentuale più alta, quasi mezzo milione.

La notizia della morte di Valdo Casucci, quarantasette anni, impiegato in una compagnia di assicurazioni, vedovo con figlio a carico, finì su tutti i giornali e notiziari locali e nazionali. Ma finì anche sotto gli occhi di certi Pubblici Ministeri guidati dai periti della compagnia di assicurazione che prima di versare il risarcimento voleva assicurarsi che non si trattasse di un caso di omicidio doloso e frode assicurativa aggravata.

Fra tutti i dettagli cui il signor Casucci aveva pensato scrupolosamente, uno se lo era dimenticato nel cestino di casa. Uno schema tracciato a penna della dinamica dell’incidente stradale in cui era rimasto vittima. Fu proprio questo a permettere agli inquirenti, con un grosso sospiro di sollievo da parte dell’assicurazione, di attribuire la responsabilità e la predeterminazione dell’atroce piano criminale al figlio del signor Casucci, che si ritrovò senza lavoro, senza premio puro massimo da riscuotere, senza ancora aver capito cosa fare nella vita, ma con due capi di imputazione penali a suo carico.
Il dottor Tricase seguì tutta la vicenda dal televisore di Maurizio Gentile.
Il suo mezzo milione se lo poteva scordare e l’anticipo ricevuto dal signor Casucci sarebbe bastato giusto a risarcire la famiglia del suo collaboratore, accusato di collusione e parte attiva nell’omicidio e destinato a spendere il resto della sua vita in carcere, ma tutto questo era niente se paragonato allo scenario in cui avrebbero potuto risalire a lui e alla sua organizzazione. Certo, il merito era solo suo e della sua equipe, ormai veri artigiani dei sinistri stradali. Gli assistenti gemelli avevano ricreato la scena dell’incidente in maniera impeccabile e preparato il corpo del signor Casucci come se fosse stato investito realmente da una Yaris a settanta chilometri orari.
«Non avrà trecentomila euro, ma tutto il tempo di questo mondo per capire quello che vuole fare» rise il dottor Tricase davanti alla faccia intontita del figlio del signor Casucci, in primo piano nel televisore, condannato a quasi trent’anni di reclusione.
Gli affari della clinica del dottor Tricase proseguirono come sempre, con l’unica differenza che, dopo lo strano caso del signor Valdo Casucci, ad affollare la sala d’attesa, oltre ai soliti pazienti che si accontentavano di farsi spaccare una gamba o un braccio o entrambi, c’era gente che non aveva l’aspettativa di vita né la capacità di produrre reddito di Casucci ma desiderava lo stesso morire per lasciare uno scorcio di serenità economica alla propria famiglia. Ne era lieto il dottore che, adesso, offriva anche servizi diversificati dai classici sinistri stradali. Grazie a strette di mano e fascette di banconote viola, poteva avvalersi anche di cantieri stradali non in sicurezza, aziende pubbliche e imprese edili private che ogni tanto montavano un ponteggio non proprio a regola d’arte proprio per quando uno dei pazienti del dottor Tricase sarebbe passato sotto.
Il mondo non sembrava per nulla cambiato. Continuava allo stesso modo di sempre, così come per continuare a vivere si doveva morire.

«Mandami su il primo paziente» disse poi un giorno di due anni dopo alla segretaria il dottor Tricase, arrivato di prima mattina, dopo essersi fatto fare due caffè da Maurizio Gentile.

«Non c’è nessuno» mormorò però titubante la donna.
«In che senso?».
«Nel senso che non c’è nessuno».
Il dottor Tricase corse giù nella sala d’attesa. Al di fuori della segretaria, era vuota.
«Com’è possibile?» esclamò. «Che fine hanno fatto tutti?» si rivolse con stizza alla segretaria che rispose con un’ignara alzata di spalle.
«Chiama i pazienti in attesa» disse dopo averci riflettuto un po’ su. «Dì loro che si sono liberati dei posti».
La segretaria, terminata l’ultima telefonata, con ancora più titubanza, riferì quello che le era stato detto dall’altra parte della cornetta.
«Hanno detto che non hanno più bisogno dei suoi servizi» disse davanti al pallore del dottore.
All’inizio il dottore pensò a uno scherzo, poi pensò a qualche indagine in corso contro di lui di cui non sapeva nulla ma dovette abbandonare presto questa ipotesi: i gemelli, che avevano le loro fonti, smentirono categoricamente. Poi, alla seconda settimana in cui la clinica era rimasta vuota, decise di far visita ai pazienti personalmente, casa per casa.
«Cara Cinzia» disse a una giovane donna che faceva tre lavori ma che non riusciva lo stesso ad accendere un mutuo per smettere di pagare l’affitto. «Non credi sia il caso di passare da me per un controllo?» ma Cinzia rispose che aveva finalmente ottenuto il tanto agognato mutuo per la prima casa, a un tasso infinitesimale nonostante la precarietà delle buste paga addotte. “Siamo ben felici di aiutare e sostenere una persona con la sua determinazione” le aveva detto l’Istituto di Credito.
«Grazie, dottore, della premura» disse Cinzia. «Ma le cose sembrano migliorare».
Il dottore Tricase si recò allora dal signor De Filippo, licenziato in tronco dalla fabbrica dove aveva lavorato per più di ventidue anni.
«Signor De Filippo, ma è sicuro che cinquemila euro non le farebbero comodo per le rate universitarie di sua figlia?» ma il signor De Filippo rispose che l’azienda aveva ristabilito la cassa integrazione garantendo anche tutte le passate mensilità non corrisposte. Non solo, l’azienda, grazie a incentivi fiscali, aveva istituito un fondo per garantire ai figli delle famiglie meno abbienti un’istruzione di prim’ordine.
«Grazie delle visita, dottore» disse il signor De Filippo. «Ma sa cosa mi ha detto l’azienda? “È nell’interesse di tutti che sua figlia continui a studiare” ha detto così».
Fu il turno dei coniugi Melato, senza figli e senza la possibilità di operare prima di un anno e mezzo la signora Melato alla spina dorsale che, nel giro di qualche mese, avrebbe allettato la donna.
«Signor Melato» disse il dottor Tricase «cosa vuole che siano un paio di costole fratturate in confronto alla possibilità di operare sua moglie?» ma il signor Melato rispose che, proprio qualche settimana prima, la Sanità aveva ricevuto un notevole finanziamento europeo e aveva deciso di destinarlo per coprire, per più della metà del costo, le operazioni chirurgiche fatte in sede privata ai pazienti che avrebbero dovuto aspettare troppo tempo per vedersi assicurate le cure di cui avevano diritto e bisogno.
«Non le sembra assurdo, dottore?» disse la signora Melato. «Hanno iniziato a prendersi cura di noi».

Nel mese e mezzo successivo il dottor Tricase fu troppo impegnato a trovare il modo di tenere in busta paga tutti i suoi collaboratori e tutti quelli che dovevano continuare a stare zitti per trovare il tempo di pensare a cosa stesse succedendo al mondo. Nel giro di poco dovette ricorrere a certi suoi vecchi soci in affari per farsi prestare denaro e rinunciare all’eccellente manualità dei gemelli e alle capacità contabili della segretaria.

Realizzò quello che era successo dopo aver spulciato minuziosamente ogni postilla della sua polizza assicurativa. Dopo aver speso ogni centesimo rimanente per pagare il compenso dell’avvocato, di un futuro guidatore e di un futuro testimone. Dopo aver spiegato a Maurizio Gentile, ben felice di spegnere il televisore e di rendersi utile, la differenza tra una frattura trasversale e una a spirale. Dopo essersi accomodato a terra e aver appoggiato la gamba su una pila di mattoni.
«Quel figlio di puttana ha capito cosa vuole fare nella vita!» disse e Maurizio Gentile fece partire il pestone.

Immagine di copertina: Anatomia, Roth, C. – The student Atlas of Artistic anatomy, London, Gravel

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Luca Giommoni ha pubblicato racconti su antologie e riviste, tra cui Effe – Periodico di Altre Narratività, Pastrengo, Narrandom, Spazinclusi, Clean, Malgrado le mosche, Il Corriere Fiorentino, ecc.

Il rosso e il blu – Una comune favola di migrazione (effequ) il suo primo romanzo.è

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