L'invenzione dello zucchero, pic by Sara Gambolati

L’invenzione dello zucchero

L’umanità si può dividere in due gruppi: chi zucchera il caffè e chi no; l’ho scritto a mia figlia. Vive all’estero da qualche anno e mi manca un po’ di più di quanto io non manchi a lei. Sono una che soffre la nostalgia, mi piacciono film e poesie che stimolino la malinconia di ciò che non tornerà più. Quando stavo per partorire — il cesareo era stato programmato per la tarda mattinata di un giorno di maggio — mi chiudevo in bagno e piangevo con le lacrime che colavano sul pancione. Il mio ombelico dilatato mi sembrava una serratura che dava su una dimensione meravigliosa, e trovavo crudele conoscere il momento preciso in cui quella dimensione sarebbe finita per sempre. La fine, ogni fine, mi ricorda in un certo senso la morte. “Ma ciò non significa che fossi infelice quando sei nata” ho spiegato a mia figlia. “Invece sì” mi risponde sempre. Questo perché lei è un tipo da caffè amaro. Posso riflettere su questa distinzione tutti i giorni dal momento che lavoro in una caffetteria; nella nuova lingua di mia figlia, in una patisserie. Quest’anno abbiamo allestito un banco di macarons favoloso: ce ne sono alla vaniglia screziati di azzurro, all’amarena e pistacchio per metà viola e per metà verde smeraldo, al lime colore basilico, rossi puntinati di scorza di pompelmo quelli impastati col campari, e poi pervinca con le fragoline di Ribera, giallo curcuma e cioccolato, beige al caramello salato, perfino indaco con la ganache alle fave del Tonka. Niente è più raffinato, desiderabile e consolatorio di un macaron in un piattino ovale accompagnato da una tazzina di caffè. “Zucchero?” chiedo per sondare chi sia potenzialmente seducibile. Se si rinuncia al gusto nitido, robusto, senza compromessi del caffè, ci si schiude alle varie soluzioni che la creatività umana ha contrapposto all’amarezza della vita, prima fra tutte il miele. Un cucchiaino di miele di acacia arrotonda il sapore, rende la bevanda un po’ più corposa e leggermente iridata. Il miele di castagno è per persone un po’ curiosette che, camminando in un bosco, sentono il bisogno di sollevare foglia per foglia per vedere cosa ci sia sotto. Se invece si è tipi da foreste gialle e rosse e ci si soffia sulle dita d’inverno ma non si ha paura del ghiaccio, sciroppo d’acero; sciroppo di agave, raffinato e un poco esotico, per chi sogna di pagaiare fra rive di oleandri; crema al cioccolato, caramello e menta per gli eterni fanciulli. Lo sciroppo di carrube richiama spiriti intrepidi, quelli che, non appena gli si propone una cosa, la provano per il solo fatto che non l’hanno mai sentita. La bottiglia di questo sciroppo è eternamente aperta ma sempre piena perché chi lo assaggia generalmente non fa il bis. È un sapore troppo robusto, un gusto invadente. L’invadenza non va d’accordo con l’ansia da esplorazione; l’ansia, qualunque sia, mangia lo spazio intorno a sé come l’acqua erode una duna di sabbia: un momento sei in alto, un attimo dopo cominci a sentirti i piedi bagnati. Ne so qualcosa io che la notte non dormo, divorata dalla paura per quello che può succedere a mia figlia.
Non fa un lavoro particolarmente pericoloso, mia figlia, lavora a Bruxelles, settore diplomatico. Vive in un appartamentino con le veneziane di bambù e la mattina spesso va in ufficio in taxi, ma è lontana da me; questo è sufficiente per inserirla nel sottogruppo di coloro che vivono pericolosamente. Ritengo che questa separazione fisica, da te espressamente scelta a baluardo della tua libertà personale, altro non sia che l’interruzione di uno stato naturale, di un legame non solo fisico ma psichico che ti avrebbe resa più completa. Rinunciare a me significa rinunciare a una dimensione del tuo essere. Tutto questo gliel’ho scritto in una delle prime email, quando era partita da una settimana. Le avevo giurato di essere contenta, insistendo per accompagnarla all’aeroporto con la mia pandina, e in macchina avevo cantato a squarciagola le hit dell’estate ma lei, che per tutto il tragitto si era premuta le mani sulle orecchie e che ha sempre avuto una capacità chirurgica di distinguere il bianco dal nero — niente orizzonte sfumato, niente fascia di protezione, non ho mai potuto fare trattative né ottenere sconti con lei —, me l’ha detto chiaro e tondo non appena fatto il check-in: “Ce l’hai con me, lo so” e mi ha voltato le spalle. Io sono tornata alla caffetteria e ho preso a offrire pasticcini a tutti.
“Oggi festeggio” dicevo “mia figlia ha ottenuto un buon lavoro, sono molto fiera di lei”. In realtà a metà mattinata avevo dovuto mettere il doppio di miele mille fiori nella mia tazza. Questo è un miele, come dire, un po’ indefinito, una potenziale confusione come quella che trovi in un mazzo di fiori di campo. Così mi sentivo: piena di tutto, confusa, e sì, anche offesa e delusa. Penso che l’invenzione dello zucchero serva in sostanza a mandare giù qualcuna delle menzogne che ci raccontiamo. Forse chi non ne sente il bisogno, è, sotto sotto, più onesto. Rigido magari, ma onesto.
Come il tipino delle 9.15. È un giovanotto un po’ emaciato, con una giacca che gli cade male sulle spalle. Viene, butta giù il caffè in fretta, si pulisce la bocca col dorso della mano rifiutando cortesemente di mangiare qualcosa, e se ne va. L’unico degli avventori a resistere alle mie insistenze di provare i macarons, una caparbietà degna di mia figlia. Questo me l’ha reso un po’ odioso all’inizio ma stranamente poi mi ci ha fatto affezionare e se ritarda, o non viene: “Tutto a posto?” gli chiedo non appena lo vedo. È un affetto facile: può capitargli qualsiasi cosa, come cadere dal gradino dell’autobus o prendersi una sbornia da rasentare il coma etilico, senza che la faccenda mi riguardi minimamente; quindi nei cinque minuti che passa al bancone con la tazzina in mano posso godere della sua compagnia. Appoggio lo straccio, lo osservo, gli faccio qualche domanda a volte oziosa, a volte mirata. Un giorno l’ha accompagnato una donna che ha usato lo sciroppo di carrube, ma non è stato per questo che l’ho notata né per il fatto che si complimentava per i macarons al campari — modestamente, una mia invenzione. Trattava la tazzina ampia che usiamo per l’espresso e il cucchiaio a forma di chiave di violino con estrema delicatezza, e teneva il macaron fra pollice e indice come un uccellino caduto dal nido. Insomma, usava le mani come se in fondo ne diffidasse, e io ho visto solo un’altra persona fare così: il padre di mia figlia, la prima e unica volta che l’ha presa in braccio. Ricordarlo, con tenerezza e rimpianto assieme, mi ha fatto capire il segreto di quelle mani; il tipino e la donna erano frattanto usciti, li potevo vedere ancora attraverso la vetrata: lui che camminava un po’ discosto e lei stretta nella pelliccia come se passeggiasse per conto suo. Mi è tornata in mente, quella sera, prima di addormentarmi: mi fa sempre un certo effetto vedere una donna che cammina da sola.
Il giorno dopo, due uomini coi giubbotti neri, la pancia e un carrello pieno di esplosivo hanno fatto saltare in aria un’intera ala dell’aeroporto di Bruxelles. Un terzo è andato a farsi esplodere alla stazione della metropolitana, poco dopo. Io camminavo avanti e indietro dal retro della caffetteria dove la nostra radiolina nera dava il numero dei morti, e non riuscivo a manovrare bene la leva della macchina dell’espresso. Ho spinto la tazzina verso il tipo delle 9.15 senza accorgermi che fosse ancora vuota e devo avergli messo qualcosa in un piatto, forse un toast crudo, perché mi ero trovata le pinze a portata di mano. Continuavo a tremare lì in piedi, con i clienti che entravano e uscivano, la campanella della porta che suonava, la gente che si faceva cenni di saluto dalla vetrata, una signora ha detto a voce alta: “Da Benetton fanno il settanta” e uno yorkshire ha abbaiato sul marciapiede. Forse non sapevano ancora niente. Il tipo invece stava seguendo la diretta da Bruxelles sul cellulare con aria patibolare e il suo sguardo aveva come la febbre.
“Mia figlia è là” ho detto.
Lui ha alzato il mento di scatto con qualcosa di simile al terrore in fondo agli occhi.
“È viva” ho detto “in teoria”.
“Come in teoria?” ha esclamato concitato “non l’ha sentita?” Era sceso dallo sgabello e aveva appoggiato entrambe le mani sul bancone lasciando l’impronta dei polpastrelli sudati.
“L’ho sentita poco fa, ma ho paura di essermelo inventato, uno scherzo della mia immaginazione per non farmi impazzire”.
Il giovane mi ha guardava, sembrava sinceramente preoccupato. “Sta dicendo che l’ha chiamata sul cellulare? Controlli tra le chiamate effettuate”.
Ho preso il telefono dalla tasca del grembiule e gliel’ho passato. Non pensavo di essere in grado di farlo da sola. Se una mente può concepire di ammazzarsi pur di ammazzare persone che nemmeno conosce — un bambino con la maglietta macchiata di gelato, due quarantenni che si tengono per mano, una donna con la divisa di Starbuks, un uomo col Le Soir sotto il braccio, un pakistano con la barba non fatta, un rabbino, una ragazza che anche se è marzo si è già tolta le calze…



… la mia immaginazione, dicevo, potrebbe materializzare mia figlia dal nulla, qui davanti al bancone, con la sua tazzina di caffè amaro.
“Vede, alle 9.12, chiamata in ingresso, avete parlato 7 minuti e 45 secondi” mi ha detto il tipo “sua figlia è viva”.
“Questo non prova che la chiamata l’abbia effettuata lei, magari è stato uno dei soccorritori che ha ritrovato il telefono e ha pensato di avvertire il numero salvato sotto Mamy” ho replicato con assurda ostinazione.
“Rimanga coi piedi per terra, per favore” mi ha supplicata il giovane “cerchi di pensare con lucidità”.
Ma io avevo la sensazione di vedere in trasparenza come attraverso un vetro. Il fatto è che non riuscivo a ricordare se io e mia figlia avessimo parlato anche della seconda esplosione, mi ricordavo solo aeroporto, scalo internazionale. Mi sembrava dicessimo che le vittime erano poche. “Quindi non so se la telefonata è stata dopo il secondo attentato” ho detto al giovane “oppure solo dopo il fatto dell’aeroporto”.
Magari mia figlia si era svegliata, aveva sentito le notizia al Tg, si era vestita agitatissima ed era andata a prendere la metro con pensieri incendiari. E stavolta era stata lei ad esplodere, insieme a quante? altre quaranta persone. Per il momento. “Sono stime sempre per difetto, all’inizio” ha detto.
Il ragazzo stava perdendo la pazienza: “Adesso la richiamo io, così la finiamo”. Non sono riuscita a impedirgli di far partire la telefonata. Ha appoggiato il cellulare sul bancone e tutti e due lo abbiamo ascoltato suonare a Bruxelles, città a ferro e fuoco. Continuava a squillare, mia figlia non rispondeva, la faccia del giovane era bianca come un lenzuolo.
“Mi dispiace” ha mormorato “non volevo insistere. Quando vuole, può confrontare l’orario delle telefonate con quello della seconda esplosione. Per tranquillizzarsi”.
Ma io avevo smesso di tremare; stavamo facendo un discorso senza senso: se mia figlia era sopravvissuta al secondo attentato ciò non significava che, dopo avermi telefonato, non avesse attraversato la strada senza guardare e con tutto il caos e l’agitazione che ci doveva essere, fosse stata presa sotto da un mezzo dei vigili del fuoco. O che avendo visto passare un arabo ci si fosse scagliata contro; lui si è sentito attaccato, l’ha scostata violentemente, decisamente troppo.
“Posso fare tutte le congetture del mondo, ma non posso avere alcuna certezza” ho concluso “l’unica cosa sicura è che, se ci siamo sentite, lei mi pareva arrabbiata, molto arrabbiata”.
“E come darle torto?” ha detto il ragazzo “ma si rende conto di cosa stiamo parlando?”
“Mi rendo conto che mi fa effetto sentire mia figlia parlare in un certo modo”.
“E come? Senza dare facili giustificazioni?” il tipo stava quasi gridando. “Senza falsi pietismi?”
Non ho idea di cosa intenda, mia figlia e la parola pietà o pietismo non centrano proprio nulla, e non perché mia figlia sia una persona cattiva, solo che la pietà avvilisce una come lei. Non le rimprovero il vituperio contro il male nel mondo al quale si è abbandonata durante i sette minuti di telefonata. Non è a questo a cui mi stavo riferendo, parlavo di quando la sento struggersi per qualcosa che non dipende da lei.
“L’amore e l’odio, in fondo si assomigliano. Non pensa?” ho detto e mentre parlavo così, schiacciavo, annientavo un qualcosa che non era ancora un pensiero, ma un’associazione embrionale, un accostamento terrificante tra quello che stavo dicendo e un aeroporto che salta in aria, un uomo che si fa esplodere alla fermata della metro.
“Mia figlia se ne è andata perché non mi ha perdonata” ho aggiunto “perché le ho impedito di conoscere suo padre. Non era una brava persona e non mi sembrava il caso di dirglielo. L’ha scoperto da sola e se l’è presa”.
Il giovane mi guardava e sembrava inebetito: era ancora sulla frequenza dell’attentato e non riusciva a scrollarsi il terrore di dosso.
“Lo sapevo” ho continuato “sapevo che le avrebbe fatto male, ma mi ero illusa di risparmiarle qualcosa. Invece lei mi ha accusata di averla tradita. Cosa ne pensa? Ma perché fa quell’espressione? Stiamo solo parlando, come quando si è nella stessa camera all’ospedale e non ci si vergogna di niente.”
In quel momento il giovane avrebbe dovuto parlarmi delle mani della sua donna, avrei avuto un po’ di sollievo se lo avesse fatto, mi sarei sentita meno sola. Speravo che lo facesse. Avevo bisogno che lo facesse.
“Penso che siano affari vostri” ha detto alzandosi “mi spiace che sua figlia stia passando dei momenti terribili. Mi spiace di tutto”.
E ce l’ha, la faccia di uno che si dispiace di tutto: quando la donna— dentro di me continuo a chiamarla così — lo chiamava gioiia con due i, lui aveva un’espressione dolce ma, non saprei definire meglio, inappagata. Non rassegnata all’infelicità, ma quasi.
Subito dopo se ne è andato, non si è voltato sulla porta, è scivolato veloce sul marciapiede alzandosi il colletto del giaccone anche se non c’era vento. Il telefono ha continuato a tacere sul bancone.

“Capisci? lui non ha il coraggio di rivelare a nessuno che la sua compagna è un uomo” ho detto a mia figlia. È un’ora che non facciamo che parlare di polizia, controlli sui mezzi, dispacci stampa, lei ha la voce che a tratti si incrina, fra le vittime non conosce nessuno, è spaventata e straniera, in un paese spaventato e ferito. Vorrebbe riattaccare, ma io cerco di trattenerla con inutili chiacchiere. “Vengo” le ho detto all’inizio della telefonata ma lei mi ha risposto: “Oh mamma, per favore” come quando da piccola, in spiaggia, voleva fare un ultimo bagno. Le piaceva l’acqua tiepida e arancione del tramonto. Allora le ho raccontato del tipo. È tutto il giorno che ce l’ho dentro, lui e il suo stupido colletto, non riesco a separarlo bene dalle immagini dello scalo internazionale.
“Quello che non capisco di te” mi ha risposto mia figlia “è come fai a identificarti tanto negli altri da perdere la ragione. È un cliente, mamma, lo vedi tutti i giorni, per cinque minuti e quattro parole di circostanza. Che ne vuoi sapere?” Qui aspetto la solita bordata che ha che fare col rapporto fra me e lei, ma stasera è troppo stanca. Non riesce nemmeno più a fantasticare sui vari modi in cui ucciderebbe i terroristi se non fossero già morti — una morte in un momento qualunque, magari quando sono felici, senza senso, con atroce dolore.
“Una madre” dico “può anche accettare che un figlio stia con un uomo che si veste da donna. Basta che non stia sempre lì a guardare i pori della faccia, o i polpacci” sento che sospira ma tiro dritto “ma una madre, secondo te, può accettare un figlio terrorista? Voglio dire, quella donna, quando stamattina avrà sentito la notizia come noi, cosa avrà fatto? Veramente: si sarà colpita la pancia? Sarà caduta in ginocchio gridando maledetto il giorno che ti ho partorito?” Così me la immagino, che piange abbracciandosi la pancia come me prima del cesareo e rimpiange di non essersi infilata un coltello nell’ombelico. Povera donna.
“Mamma, chiudo” dice mia figlia.
“Va bene tesoro”.
“Non mi dici di stare attenta ai pericoli?”
“Che senso avrebbe?” le chiedo “non ha più senso, almeno per oggi”.
“Ma a me farebbe piacere” risponde con voce nasale che mi fa stringere la gola.
“Sto pensando che se mai il tipo dovesse portare la donna a cena dai suoi, potrei preparargli un vassoio di macarons di tutti i colori” dico.
“Come la bandiera del Gay pride?”
Ridiamo e piangiamo. Poi lei chiude. Io vado a farmi il caffè.

Racconto e immagine di copertina di Sara Gambolati

*****

C’era una volta un libro di favole della buonanotte. Poi Piccole donne edizione integrale, Anna Frank per la tesina di terza media, d’amore per non impazzire dietro l’aoristo, di qualsiasi cosa pure di mettere giù i codici. E giù a leggere scrivendo la tesi, vagliando i bandi di concorso e scorrendo le graduatorie. Coi piedi sul cruscotto in viaggio di nozze e con l’ecografo sulla pancia di quarantadue settimane; anche con la bimba sul petto, testina a destra libro a sinistra, poi cambio.Quando strilla al lavoro:il prossimo! e pensa a cosa leggerà in pausa pranzo. C’è sempre  un libro a tenerle compagnia. E allora perché non provare a scrivere?
Alcuni suoi racconti sono comparsi su Treracconti, Spaghetti Writers, Altri Animali, Senzaudio, Yawp e Carie.

2 pensieri su “L’invenzione dello zucchero

  1. Grazie per la lettura. Nella pasticceria dove vado a prendere il caffè durante le pause di lavoro, c’è il bancone di macarons più colorato della città; ci ho fantasticato un po’ su.

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