Limoni

Limoni

Così decidemmo di fare tappa a Procida: l’insalata di limoni, uno dei piatti tipici dell’isola, fu sufficiente per prolungare la vacanza.
Appena sbarcati sull’isola, Cleo iniziò a saltellare lungo la banchina del porto. Sembrava una bambina al suo primo giorno senza scuola. Si girò verso di me. Con un sorriso aperto come il cielo mi disse: − E metti via quel cellulare – chiamandomi con un gesto delle braccia.
Io stavo controllando l’applicazione della banca per verificare se Ciro il grande fosse comparso nei movimenti in entrata. Ciro il grande era come chiamavamo i bonifici mensili della Naspi. Una mattina, mi era arrivato un accredito e, con il sonno ancora ad appannarmi gli occhi, avevo letto “Bonifico in entrata – INPS Ciro il grande…”.
Su consiglio di Cleo, sostenitrice dell’ignorare realtà che potrebbe valere la pena non conoscere se migliorabili con la fantasia, avevo trascurato la descrizione completa, divertendomi poi a speculare con lei sulle potenzialità di vita di Ciro il grande e a elaborare sempre nuovi aneddoti sul perché fosse aggettivato in quel modo.
Comunque corsi a riempire lo spazio vuoto creato dalle braccia di Cleo. Se potevo supporre una data precisa per gli accrediti della disoccupazione, non ero in grado di far lo stesso per l’intervallo di tempo in cui si potevano aprire le sue braccia.
Prendemmo la strada che dal porto saliva al centro. I vicoli ci mostravano, attraverso giardini di limoni, un cielo che, al confronto con il frastuono delle ruote dei trolley, appariva silenzioso e ancora più lontano. I limoni appesi ai rami sembravano piccoli pianeti in esposizione e già ci interrogavamo su quale sapore potessero assumere una volta conditi.
A pochi passi dal b&b, un furgoncino carico di frutta occupava parte della strada. Un tizio, con una canottiera di seconda mano, un paio di pantaloncini corti di seconda mano e un viso di seconda mano, innaffiava da un terrazzino dirimpetto al furgone la frutta con la sistola della doccia.
Ci chiese in un dialetto dove era difficile ritrovarsi se volessimo della frutta, precipitandosi da noi in strada.
− Sono Sonnino – si presentò. Ci mostrò il vasto assortimento e disse: − Tutto fresco. Volete uva, pesche, susine, albicocche?
Promettemmo di tornare. Lui ci guardò con degli occhi in fuori come se non avesse le palpebre. Ci ricordò lo sguardo di un personaggio di un cartone animato di cui, però, non ricordavamo il nome e che potevamo benissimo esserci solo immaginato.
I nostri sguardi e quello di Sonnino si incrociarono più volte. Sonnino ci faceva segno di raggiungerlo alzando, come un trofeo, un folto grappolo d’uva.
− Wow – esclamò Cleo. – Dopo torniamo.
− Da Genna’ dormite – rispose lui, indicando il cancello del b&b.
− Come? – dicemmo quasi all’unisono.
− Gennaro, mo’ arriva. Isso è bravo. È buono.
Lo ringraziammo senza capire.
Arrivò il proprietario della casa. – Piacere Gennaro – disse e le parole di Sonnino acquisirono un senso.
Diedi a Cleo un buffetto su un fianco a celebrare il nostro ingresso ufficiale nelle dinamiche isolane. Lei mi concesse un sorriso senza smettere di rispondere alla curiosità di Gennaro che, per premura e simpatia, si meritava tutte le recensioni positive che avevamo letto.
Quando ci riportò i documenti, mi ricordai di non avergli posto la domanda più importante: dove si potesse gustare una buona insalata di limoni.
Gennaro si scurì in volto.
– Non è stagione – disse mortificato. – È la parte bianca, tra la buccia e la polpa: è troppo sottile, non è matura − ci spiegò, bersagliato dai nostri sguardi delusi.
Tranquillizzammo Gennaro, preoccupato di beccarsi una recensione negativa per colpa della stagione sbagliata. Cercò di tirarci su promettendoci due belle lingue di bue alla crema per colazione, la mattina dopo.
Disfacemmo le valigie. Cleo si lavò il viso e si mise il costume. Io scorsi, nella videocamera, i video registrati nei giorni precedenti. Quando Cleo uscì dal bagno, mi guardò e disse: − Secondo me quel Sonnino li ha!
− Cosa?
− I limoni, no? – rispose come se fosse ovvio. – Lui li ha sicuramente. Poi ce la facciamo cucinare da lui, l’insalata – sorrise.
Adoravo quel suo modo di pensare come se il mondo fosse lì per lei, pronto a rispondere ai suoi desideri con gentilezza.

Sonnino, sicuramente avvezzo ad essere illuso da chissà quanti turisti passati di lì, si meravigliò alla nostra ricomparsa. Cleo, dapprincipio, non gli chiese dei limoni. Comprò due bei grappoli d’uva, cinque albicocche e sei susine. Sonnino, per compensare l’appropriamento tacito del resto, ritenne equo aggiungere quattro pesche. Fu in quel momento che Cleo gli domandò: − Ma per caso ha dei limoni per fare l’insalata?
Sonnino si sbatté i palmi delle mani sulla fronte. Si sporse verso Cleo, come se la volesse baciare, e con un gesto improvviso della mano all’altezza del mento le disse: − E no! −
− Ma neanche uno? – supplicò Cleo.
− E no! – ripeté Sonnino, quasi divertito dal vedere Cleo con il cuore negli occhi. − Ma tengo il limoncello! – se ne uscì all’improvviso, come se volesse accontentarci in un qualche modo pur di trattenerci.
− Ma con i limoni di Procida? – chiesi ingenuamente.
− E cu ca’! – sorrise Sonnino, dando un colpetto con le dita sulle spalle di Cleo, che quell’anno, ancora, non erano poi così tanto abbronzate.
− Io l’ho fatto – aggiunse. – Con queste mani!
− Magari dopo ne beviamo un bicchierino tutti insieme – proposi.
− Guarda, è facile – tutto contento, Sonnino. – Io sto qua – e ci mostrò lo stretto terrazzo dal quale si entrava a casa sua. – Lì c’è il furgone e io sto qua – aggiunse ammiccando alla facilità della vita.
− Ora andiamo a fare un bagno – salutò Cleo, che non resisteva più al richiamo dell’acqua così vicina.
− Io sto qua – ribadì lui.
Trenta metri dopo, un cimitero costeggiava una discesa che portava alla spiaggia.
− Vorrei saltare sui tetti delle cappelle e arrivare direttamente in mare – disse Cleo.
− Come lo vedi quel limoncello? – chiesi.
− Grottesco, ma divertente.

Di ritorno dalla spiaggia, Gennaro ci aspettava all’ingresso della camera. Per scusarsi dell’insalata di limoni ci aveva prenotato un tavolo al ristorante di un suo amico dove si mangiava bene e, grazie alla sua intercessione, avremmo speso ancora meno. Propose anche di accompagnarci, non prima di regalarci un giro panoramico dell’isola. L’appuntamento era dopo un’ora e mezzo.
Cleo volle fare l’amore con il sale ancora addosso. Quando entrai dentro di lei mi sembrò di star entrando di nuovo nell’acqua. Lei mi guardò come se stessi cercando di pugnalare il mare e di quello sguardo ebbi paura, così come ne avevo avuta altre volte per altri sguardi.
Avevamo ancora un po’ di tempo a disposizione. Senza dirci niente, come se fosse già deciso, decidemmo di impiegarlo per gustare il sapore dei famosi limoni di Procida pur se sotto forma di limoncello. Sarebbe dovuta essere una questione da venti minuti, massimo mezz’ora.

Sonnino ci aspettava già sul terrazzino, tutto al buio, illuminato solo dalla luce proveniente dal suo salotto, con due bicchieri da amaro in mano.
Ci venne incontro a torso nudo. Non capii se si stesse riferendo ai miei capelli nel momento in cui fece notare a Cleo di essersi rasato da solo, sorridendo all’idea che, da ora in poi, avrebbe risparmiato sul barbiere e si sarebbe divertito a usare in autonomia il rasoio elettrico. Simulò pure il rumore del rasoio. Fu una scena divertente. Subito dopo ci mostrò la camera da letto, senza nessun apparente motivo.
La camera era da vecchi, anche se lui non sembrava esserlo così tanto. Sicuramente era una di quelle case che, di generazione in generazione, rimanevano uguali, solo con più roba stipata nei cassetti e sulle mensole. Quadri, quadretti, chincaglierie di varie epoche, sparsi e appesi per tutta la casa, e tanto legno. A guardare bene c’era anche qualche oggetto di un certo interesse, ma era tutto disposto con un ordine sbagliato e per le ragioni sbagliate.
Le lenzuola erano giù, come se il letto fosse già pronto all’uso. Forse per pigrizia lo lasciava così dalla mattina, pensai, ma era strano che, come prima cosa, ci avesse portato proprio in camera da letto. Mi chiesi se anche Cleo se lo stesse domandando, ma lei era troppo presa dal ritrovarsi nella loquacità di Sonnino.
Sonnino, muovendo i due bicchierini in aria, proprio davanti al letto sfatto, ci disse che era single: la moglie era tornata a Napoli. Precisò di sforzarsi a tenere tutto in ordine da solo e di essere contento della nostra compagnia.
− Te piace la camera? – chiese a Cleo.
− Non vedo l’ora di assaggiare questo limoncello – me ne uscii fuori per cambiare discorso.
− Accomodatevi – disse Sonnino, invitandoci in salotto e scostando due sedie dal tavolo.
Cleo si sedette. Sonnino le sfiorò un gomito per prendere il telecomando. Accese la televisione e mise su Paperissima Sprint. Cleo mi guardò, cercando di non ridere.
Con quello che aveva tutto il suono di un rigurgito, Sonnino allargò le braccia per mostrarci la magnificenza della sua dimora.
− Complimenti – fece Cleo.
− Molto bella – dissi io.
Felice del nostro manifesto apprezzamento, prese da una dispensa una bottiglia di plastica piena di un liquido giallo che poteva essere benissimo limoncello, cedrata o piscio. Riempì i due bicchieri e ce li porse.
− E lei? – disse Cleo. – Non ci fa compagnia?
− A me piace il vino – e tirò fuori una bottiglia di vino già avviata, riempiendo altri tre bicchieri.
− Ci vuole fare ubriacare? – scherzò Cleo. – Gennaro del b&b ci ha prenotato un tavolo al ristorante.
− Gennaro bravo uaglione − disse versandosi da bere. Poi fissò Cleo, con degli occhi troppo vispi. − Voi state in quella di mezzo, vero?
− Come scusi? – fece Cleo.
− Nella stanza, da Genna’.
− Perché? – chiesi.
− Così – alzò le mani in alto. – Bella, vero? Genna’ tiene sempre tanti ospiti.
− Molto carina – sorrise Cleo. – Gennaro è molto gentile.
− Pure io, no? – si preoccupò di chiederle.
− Certo, la prossima volta prenoteremo da lei – scherzò Cleo.
− Io tengo tutto − con un’affabilità goffa, Sonnino. – Per me potete rimaner qua. Tengo pure il rasoio – disse guardando di sfuggita i miei capelli: c’era qualcosa, evidentemente, nella mia pettinatura che non gli tornava.
− A Sonnino! – andai oltre, alzando il bicchiere con il vino, in attesa, però, che lui bevesse il primo sorso. Quei due bicchieri di limoncello sul tavolo, e non tre, erano sospetti. Controllai se Cleo indugiasse come me, ma lei, come se la precauzione fosse solo una parola sul dizionario, aveva già buttato tutto giù.
Brindando tra me e me a mia madre, da cui avevo ereditato la diffidenza, scolai di colpo il bicchiere di vino. Non era male.
Ce ne versò altri due bicchieri e ci offrì un avanzo del pranzo: un tonno gigante comprato la mattina al porto.
Afferrò Cleo al polso e fece segno di leccarsi i baffi. – È buono così – disse.
Noi ringraziammo ma tirammo in ballo la scusa della prenotazione al ristorante. Lui allora fece spallucce, un po’ contrariato. Alzò di nuovo i bicchieri per aria e disse: − A Sonni Boy.
− Non si chiama Sonnino? – chiesi.
− Meglio Sonni Boy. Come quelli lì – fece l’occhiolino. − Come quelli dei film, no? – si spiegò meglio, forse, sotto al ricatto delle nostre facce perplesse.
− La vuoi vedere una cosa? – domandò a Cleo, dopo averle messo la mano sopra la sua, con estrema disinvoltura.
− Cosa? – sorrise titubante Cleo.
Sonnino si alzò e con un ghigno vittorioso se ne sparì in camera.
Ci guardammo.
− È una roba alla Lynch – bisbigliai.
− Con i colori di Almodovar – precisò Cleo.
− Ma perché non beve il limoncello?
Cleo rise al pensiero delle mie elucubrazioni.
− Il vino è buono – dissi. – Qualche altro bicchierino e poi andiamo, che ne dici?
Cleo fece segno di essere d’accordo. Tra le labbra, però, le si muoveva un certo divertimento. – Ma cosa fa di là? – si interrogò a bassa voce.
Sonnino se ne tornò con un archibugio del 1700 rispolverato chissà da dove e ce lo mise sotto gli occhi.
− Te piace? – domandò a Cleo. − Te piace? – domandò di nuovo, sempre a Cleo, con gli occhi bagnati, non dalle lacrime ma dal sudore.
− Molto bella – disse Cleo. – Dove l’ha presa?
− Viene da laggiù – e laggiù era l’America e la cercò con il dito in aria, come se volesse indicare la posizione precisa.
Appoggiò l’archibugio sulla tavola, accanto ai bicchieri con il vino e con il limoncello. Se non fosse stato per il Gabibbo, in sottofondo, che presentava il prossimo video di gente che si faceva male, sarebbe sembrato di stare in una taverna a Nantucket nel 1800.
− Vive qui da solo? – chiesi.
− Come?
− Abita qui da solo? Ha figli?
Sonnino biascicò qualcosa a proposito di figli. Forse ne aveva due. Si alzò di nuovo e questa volta tirò fuori da una credenza, zeppa di mille altri oggetti, due piccole cornici con delle foto di un bambino e di una bambina. La bambina era appena nata. Il bambino poteva avere tre, quattro, anni.
Cleo mi guardò. Doveva essersi incuriosita del fatto che la foto del bambino sembrava essere una foto di trent’anni fa. Quella della bambina, invece, giudicata la qualità dell’immagine, era recente. Provammo a scucirgli qualche informazione, ma non si capì neanche se quelle foto fossero dei suoi figli o del figlio e della nipote, o di chi fossero i due bambini nelle foto. Ero sicuro che anche Cleo stava rabbrividendo al pensiero che quelle foto potessero ritrarre dei perfetti sconosciuti. Per sbrigare la faccenda, d’istinto, mi decisi a scolare anche il bicchiere di limoncello.
− Molto buono – dissi poi, quasi stupito, e lui se ne dovette accorgere perché si fece serio e aspettò il parere di Cleo.
− Buonissimo – disse Cleo, un po’ brilla. – L’ha fatto lei, vero?
− Io.
− Che lavoro fa? – chiesi. – Vende la frutta?
− D’estate – rispose. – Gli altri mesi faccio il muratore – appoggiò rumorosamente i dorsi delle mani sulla tavola. – Con queste mani! – mi guardò e sorrise di un sorriso bieco.
Nei minuti successivi calò uno strano silenzio imbarazzante. Con la coda dell’occhio, controllavo Sonnino che faceva lo stesso ma nei confronti di Cleo.
Lei si versò un altro po’ di limoncello. – Non ha lo stesso sapore di quello del supermercato – disse poi.
Sonnino scansò con un gesto della mano la parola supermercato. Fiero, si portò la mano all’altezza del petto, ovunque fosse in quell’ammasso di carne. – Io – ripeté.
Si posizionò tra di noi e ci mise una mano sulla spalla. Le sue mani parevano in grado di stringere l’aria.
– Ma perché non rimanete qua? – disse all’improvviso. – Me facete compagnia.
− Mi dispiace – più afflitta possibile, Cleo, bravissima nell’esserlo. – Ma Gennaro ci aspetta. Ha organizzato tutto, è stato così carino.
− Ci parlo io con isso – come se non fosse un problema, Sonnino.
Colsi al volo la scusa dell’appuntamento e feci notare che, tra l’altro, si era fatto pure tardi.
Sonnino, scuro in volto, come avesse vissuto il momento dei saluti troppe volte e troppo male, propose un ultimo giro di limoncello. Ci sembrò il minimo e acconsentimmo.
Il terrazzino da attraversare per arrivare al cancello d’ingresso era ancora più buio di prima e, solo quando mi affrettai a percorrerlo, dopo aver ringraziato Sonnino, mi resi conto che era pieno di oggetti dimenticati in qua e in là a ingombrare il già stretto passaggio.
Sonnino bloccò Cleo sulla soglia della porta. Io stavo cercando di aprire il cancello ma non trovavo né un pulsante né una maniglia.
− Guarda – e indicò a Cleo qualcosa in basso nel buio.
Il cancello non si apriva. Provai ad aprirlo dall’esterno, ma anche lì non c’era traccia di nessun congegno d’apertura.
Mi voltai.
Vidi Sonnino stringere Cleo per un braccio.
Feci per tornare indietro, ma Sonnino aveva già strappato un ciuffetto di menta da un vasetto nascosto di piante aromatiche e lo sventolava sotto le narici di Cleo.
− Lo senti, vero? – la interrogò anche con lo sguardo, sempre più goloso.
Cleo respirò a pieni polmoni. – Lo sento, sì.
Sonnino sorrise soddisfatto.
− Come si apre, Sonnino? – mi arresi infine, sperando che non ci fosse un motivo al restare chiuso di quel cancello.
− Sonni Boy – precisò Sonnino, quasi con astio, poi premette un pulsante vicino alla porta finestra del salotto, dov’era logico che fosse l’interruttore.
Quando avemmo tutti e quattro i piedi fuori, mi sentii più tranquillo. Sonnino ci invitò a ripassare, dopo cena, per bere altro limoncello.
– È tutto aperto – disse. − Non chiudo: il caldo.
Non mi girai per controllare ma ero sicuro che i suoi occhi ci stavano ancora fissando.

Gennaro ci fece fare il giro panoramico. Fu molto cortese, ma noi non parlammo molto. Entrambi speravamo che Gennaro non attribuisse a un suo errore quel nostro silenzio.
Fu Cleo a mettere in chiaro le cose. – Abbiamo conosciuto Sonnino – rivelò.
− Ah, Sonnino – rise Gennaro.
− Personaggio strano – buttai là.
− Ci ha offerto il limoncello. È stato gentile – aggiunse Cleo.
− È autentico – chiuse il discorso Gennaro, impegnato a trovare uno spazio vicino al ristorante dove accostare e farci scendere.

− Hai fatto caso che non ha chiesto niente di noi? – dissi una volta a tavola.
− Chi?
− Sonnino.
− Chi ha incastrato Roger Rabbit! – esclamò Cleo all’improvviso. – Ecco dove ho già visto quegli occhi che mangiano le orbite.
− Il giudice? – chiesi per capire a chi si riferisse. – Christopher Lloyd?
− Boh, non ricordo il personaggio preciso, ma è in quel cartone, sono sicura.
− Non è un cartone. È un film a tecnica mista: ci sono attori in carne e ossa e personaggi di animazione.
− A me faceva paura la rossa – ammise Cleo.
− Jessica Rabbit? – risi.
− Dava l’impressione di non saper stare da sola.
Presi a gustare le varie portate per un po’ non tornammo sopra l’argomento. Cleo aveva un’espressione rapita come se stesso masticando alcune pagine di Beckett.
− Qual è stata la prima cosa che hai pensato quando siamo usciti da casa di Sonnino?
− Che capivo Sonnino come capisco l’inglese – e si rabbuiò. – Per questo mi sono incupita e dopo con Gennaro non ho aperto bocca.
Io scoppiai a ridere e, dal secondo al dessert, non mi trattenni dal lanciarle delle battute, che Cleo respingeva decisa. La presa di coscienza di quella mancanza le suscitava più inquietudine del pensiero di essere sequestrati da Sonnino, di essere costretti a mangiare il tonno gigante avanzato, di essere violentata e di vedermi morto sul pavimento, disse.
La fissai perplesso, poi ci abbandonammo a un’unica grande risata.
− A me ha inquietato quando ha chiesto in quale camera fossimo – dissi dopo un po’. − Me lo immagino già, stanotte, a spiarci dalla finestra della camera, a torso nudo – scherzai.
− Ci vuoi tornare?
− Non lo so.
Facemmo i complimenti al cuoco, pagammo, e già non parlavamo più di Sonnino da prima del caffè.
Cleo mi chiese quale animale o insetto avrei fatto scomparire dalla faccia della terra se ne avessi avuto il potere.
− Le cimici – dissi subito.
− Perché?
− Mi fanno semplicemente schifo. E te?
− Non lo so – sospirò. – Secondo me hai risposto troppo in fretta. Non era una domanda facile. Non si può rispondere così su due piedi.
− Perché non hai mai vissuto in campagna in autunno – dissi.
Tirammo fino a tardi, continuando a bere per locali. Una leggerezza scanzonata accompagnava i nostri passi. Ci intrufolammo in una libreria e le regalai un libro come facevo sempre quando visitavamo un posto nuovo. Le comprai Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte, ma in inglese. Lei per un po’ mi tenne il muso, poi volle andare sugli scogli fin dove le onde lo permettevano.
A un certo punto, si girò verso di me e mi baciò. Conoscevo bene il sapore di quel bacio e feci segno di sì con la testa.

Passammo prima dal b&b a recuperare la videocamera. Cleo mi chiese, non per la prima volta, se avessi impostato il file nella cartella giusta.
− Ormai lo dovresti sapere – la rimproverai.
− Non si sa mai – sorrise lei per prendermi in giro.
Erano passate le tre e ci ritrovammo sotto al terrazzino di Sonnino. Senza troppa fatica lo scavalcammo. Sonnino diceva la verità: era tutto aperto.
Lo si sentiva russare da fuori.
Entrammo.
A piccoli passi si raggiunse la camera da letto. Sonnino dormiva supino.
− Cosa starà sognando? – bisbigliò Cleo.
− Rasoi elettrici.
Cleo tirò fuori la siringa dalla borsa. Con mano leggera sfiorò il braccio di Sonnino e gli iniettò aria in vena. Poi uscì dall’inquadratura e, solo allora, premetti rec.
Cleo si posizionò accanto a me come se fosse la figura mancante di un quadro e insieme guardammo Sonnino morire.
Quando il piede smise di tremargli, Cleo interruppe il silenzio. – Ripreso tutto?
− Sì, tutto ok – risposi dopo aver controllato e, per sradicare ogni dubbio, anche se mi infastidiva doverle dimostrare sempre l’esito del mio lavoro, mandai un po’ indietro e le feci vedere la parte dove passavo dal mezzo piano sul faccione all’insù di Sonnino al piano americano per riprendere anche le convulsioni alle gambe.
− Andiamo a letto – disse Cleo. – Sono stanca.

Quella notte non facemmo l’amore. Non lo facevamo mai dopo.
Cleo era già girata di lato, forse dormiva, forse no. Mi trattenni dal cercarla sotto le lenzuola. Provai a immaginarmi due cose: cosa avrebbe lasciato il tempo del corpo di Cleo, se mai se ne fosse interessato. E la sua faccia, la mattina dopo, di fronte a quelle lingue di bue alla crema appena sfornate. Forse solo un’insalata di limoni l’avrebbe messa ancor più di buonumore, pensai. Poi mi addormentai.

Illustrazione di Stella Passerini

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Luca Giommoni (Cortona,1985) lavora, quando capita, come insegnante d’italiano agli stranieri. Vive a Firenze. Suoi racconti hanno trovato spazio nelle riviste: Effe – Periodico di Altre Narratività, Pastrengo, L’Irrequieto, Narrandom, Spazinclusi, Clean, Malgrado le mosche, Grado Zero, In fuga dalla bocciofila, la nuova carne, L’Indiscreto, Corriere Fiorentino, StreetBook Magazine, A Few Words, Locomotiv.
Finalista alla prima edizione del concorso Petrarca.fiv

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