Quel lunedì di Pasqua, era il 1944, stavano tutti riuniti da Giggetto all’Osteria. Famiglie vecchie e nuove, soldati tedeschi e fagotti pieni di chi si portava il pranzo da casa. Era una tradizione popolare, quella, e a Roma certe cose non le ammazzava nemmeno la guerra.
C’era Peppino detto “il Gobbo” insieme a due amici del Quarticciolo. E c’erano tre soldati tedeschi, ubriachi di vino e follia. L’aria era appesa, più dura del marmo. Renato di quella fuga ricordava solo gli spari. Una settimana dopo, scattò la cosiddetta “Operazione Balena”.
Quelli andarono nelle case di tutti strappando alle mogli i loro uomini, e nel giro di una mezza giornata erano già via, troppo lontano. Renato aveva quindici anni quando udì per l’ultima volta i passi del padre.
“Papà è andato via per lavoro”, diceva la mamma.
“Papà ha fatto la storia Renatì, non lo scorda’!”
Aveva l’abitudine di chiamarlo così, quel figlio gracilino ma pieno di entusiasmo. “Abbiamo fatto La canzone dell’amore. La storia, Renatì!”
Solo per te, Lucia,
va la canzone mia.
Come in un sogno di passion
tu sei l’eterna mia vision.
Faceva angolo su Via del Viminale, Il Supercinema.
Quant’era bello!
Quasi tremila persone tra platea e galleria. Sullo schermo, per la prima volta oltre alle immagini i suoni, e la canzone dedicata a Lucia riempiva i cuori di chi c’era.
Fu davvero un successo!
Insieme alle parole, restava intatto il ricordo di un uomo che amava il proprio lavoro. Suo padre le storie belle le aveva vissute davvero, e le sapeva raccontare.
Una sera tornò a casa con un valigione vecchio, pieno di cianfrusaglie. Renato aveva sì e no undici anni. Racchette, scarpe da uomo e da donna. Un cocomero, una scatola blu con dentro della sabbia. Bottoni grandi e piccoli e per finire una noce di cocco.
“Renatì, questa è tua. Me l’ha regalata n’amico caro. Tienila co’ te. Sempre”.
In quel momento il ragazzino non sapeva se essere felice o stordito da così tante bizzarrie. Osservava quelle scarpe da donna e non capiva. “Dovrò indossarle?” – pensava in segreto.
Una volta passato lo stupore, Renato iniziò a familiarizzare con tutti quegli oggetti. Passava le sue giornate a imitare tutto ciò che avesse un suono. Con particolare ossessione per i cavalli al galoppo. Scoprì il cinema, il grande amore di suo padre, e capì che i suoni e i rumori dei film lui poteva ricrearli con la voce.
E se la voce non bastava, c’erano le scarpe.
Le stesse che poi hanno fatto grande il piccolo Renato. Divenuto il “Signor Foley”, uno dei più grandi rumoristi del cinema italiano.
Era un tardo pomeriggio d’aprile, il sole stava lì lì per cadere dal cielo e l’aria era leggera. In compagnia del vecchio Armando e della signorina Norma, il Signor Foley camminava nel parco, l’uno e l’altra necessari, compagni di vita e sventura, da ormai sei anni. Il male lo aveva privato per sempre della vista. Ma il Signor Foley, ottantasei anni e una vita piena, aveva imparato a dare ancora un volto alle cose, immaginando le forme del nuovo e alimentando l’amore per ciò che da sempre gli apparteneva.
Come le sue amate scarpe.
Non poteva vederle più con gli occhi, ma le mani avevano sviluppato una capacità incredibile di carpire ogni stato d’animo, ogni curva, difetto.
Il Signor Foley annusava l’aria come quando si attende qualcosa.
Dal rumore delle foglie arricciate a terra, poco distanti dalla panchina su cui era seduto, arrivò un sibilo sottile. A seguire, pochi ma decisi, passi impalpabili.
Armando, che gli stava accanto, arricciò il muso curioso e si annodò al guinzaglio.
Un ragazzino imitava il fischio di un trenino a vapore, calpestando e accartocciando ancora di più quel tappeto rinsecchito e malinconico. Quelle foglie a terra non avrebbero mai incontrato una nuova primavera, e il Signor Foley lo sapeva.
La maglia a righe nascondeva i contorni di un ragazzino smilzo, agile e in piena armonia con i suoi dieci anni. I capelli spettinati e un paio di occhiali con le lenti grandi, un calzino rosso, l’altro blu. Quel ragazzino era un disastro amabile. Scombinato e inconsueto, distratto. Il Signor Foley non poteva vederlo, ma lo capiva già meglio di chiunque altro.
“Mi scusi signore. Chiedo scusa!”
Armando spiccò in un salto. Il Signor Foley poco irritato e molto incuriosito, afferrò il giocattolo del ragazzino piombatogli addosso.
“Ma questo trenino lo facevi suonare tu con la bocca?”
Cercava la risposta del ragazzino distratto, attendeva nell’aria qualcosa, un ritorno di voce.
“Beh, sì. Mi diverto a rifare i suoni. Questo è il mio preferito, il trenino a vapore. Ma so fare anche tanti altri rumori…”
Il ragazzino ne andava così fiero.
“Accidenti! Sei bravo allora”.
Norma prese Armando per una passeggiata, posò la rivista proprio dove stava seduta, e informò il Signor Foley.
“Vuole sentirli, tutti i miei rumori?”
Il ragazzino ormai smaniava per mettersi alla prova, il Signor Foley non poteva che assecondare quel desiderio tanto familiare.
“Avanti. Fammi sentire che sai fare!”
Il piccolo rumorista si esibì in contorsioni delle labbra e smorfie di ogni tipo.
Il cavallo al galoppo.
“Ptcò – ptcò – ptcò”.
La Ferrari.
“Uuuuuuaaaaaah – Meeeeeeeeeeeh – Frrrrrrrrum”.
E per finire il vento.
“Fffffuiuuuuuschhhhhh”.
Il Signor Foley se ne stava lì seduto, immobile, rapito dall’imperfezione dei suoni, mai stata così piacevole.
“Bravissimo!”
E lui batteva le mani saltellando, con un sorriso che a fatica rientrava in quel viso mingherlino.
“Ma perché non mi guarda mai in faccia, signore?”
“Perché non cambierebbe le cose. Sono cieco. Ma ci sento benissimo.
Il ragazzino dimenticò in fretta gli occhi del Signor Foley.
“Crede davvero che io sia bravo?”
“Assolutamente! Certo, devi lavorarci su…”
“La mamma però dice sempre di smetterla, con questi rumori. Li trova fastidiosi, soprattutto quando guarda i suoi programmi preferiti alla tv”.
“E quando lei ti sgrida, tu che fai?”
“Mi chiudo in camera e continuo a fare i miei rumori”.
Il Signor Foley sorrise, la luce scostò la notte.
E poi un ricordo.
“Renatì, Renatì… mo’ basta co ‘sti cavalli!”
Immagine di Pixabay
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Valentina Orsini nasce a Roma, il 10 agosto del 1985.
Autrice e blogger, speaker radiofonica e incredibilmente mamma appassionata di dolci e cucina.
È laureata in Letteratura, musica e spettacolo.
Dal 2012 scrive sul suo blog CriticissimaMente, pubblica alcuni racconti (Aghi di pino e carta straccia, La storia delle cose) sul sito Letture da metropolitana.
Esordisce nel 2015 con Caramelle al gusto arancia, edito da Leucotea Edizioni, un romanzo che affronta il tema delicato e sempre attuale dell’aborto volontario.
Nel 2017 pubblica Madrepàtria – Racconti dell’umana sorte (Edizioni Efesto), un’antologia non di genere nata dall’idea di raccontare l’Italia di oggi.
Un pensiero su “Le scarpe del signor Foley”