Sara Gambolati

Lazzaro

La piazza, l’edicola coi tabacchi dello Zoja, il campanile che rintocca.

La strada è quasi vuota, Cobalto zigzaga come una palla fra le sponde del biliardo; vede il prete; anche lui lo vede e fa per sfuggirgli, la sottana che sobbalza frettolosa a ogni gradino.

Cobalto lo chiama.

Il prete è incerto se far finta di non sentire – è vecchio – o fermarsi sperando che lo Zoja esca dal negozio. Ha paura perché ha sentito le sirene che non era ancora l’alba.

«Mi devi spiegare» sta gridando Cobalto con la voce alcolizzata «perché Gesù ha pianto.»

Il prete si ferma vicino alle locandine dei giornali.

«Perché» risponde voltandosi, ma appena vede la faccia gonfia dell’uomo con lo sbaffo sulla fronte di quella volta che è caduto dall’albero della cuccagna, la tonaca gli si abbassa sulle caviglie come un sipario e comincia a singhiozzare.

«Anche tu» urla Cobalto. Sta per afferrare le braccia del vecchio, secche come due rami, quando lo Zoja lo ferma. Ha la faccia inespressiva di quando sta dietro il bancone: mai una piega, una ruga, una smorfia che rivelino quello che pensa.

«Lascialo stare» dice, e Cobalto risponde: «A casa c’è la polizia.»

Lo sanno tutti, ormai, e per questo il patronato è vuoto; solo i ragazzi Canton stanno giocando al biliardino che sarebbe da andarli a prendere per la collottola e cacciarli via.

Il prete sta ancora piangendo, il petto gli va su e giù. Ultimamente tutti hanno notato che è affaticato: si commuove ai funerali, domenica scorsa ha recitato tre volte – tre! – il kyrie eleison, i fedeli l’hanno presa come un presagio.

E infatti.

Sono anni che chiunque in paese se lo sentiva quando vedeva la moglie di Cobalto che comprava le michette agli alimentari e le infilava veloce nella sporta; la faccia rubizza del marito, appollaiato sullo sgabello del bar; tutti e tre al banco in chiesa – né prima né ultima fila ma mescolati in mezzo agli altri – il figlio sempre un po’ discosto con gli occhi persi fra i panneggi delle statue. Sembrava pacifico, durante la Messa, irrequieto né più né meno che avesse da guadagnarsi l’eternità.

Ma fuori era altro.

Per un certo periodo Lazzaro era stato con una tipa più grande, che andava a prenderlo sotto casa con una 126 smarmittata e i capelli rosa. Facevano gli stupidi con quella macchina, finché erano stati fermati dai Carabinieri e poco dopo lei lo aveva lasciato; ma fintanto che c’era stata la ragazza, la madre ci aveva sperato, e qualche volta si fermava a scambiare due parole per strada stringendo i manici della sporta, giusto per dire che doveva fare il brodo per i ragazzi, o i cardi, o preparare la faraona, come in ogni famiglia decente.

Era una bugia bella e buona: non c’è la faraona in paese – il macellaio non la tiene –, e Cobalto stesso parlava della tipa come di una figlia quando il fatto della 126 era diventato già leggenda e lei si era altrimenti fidanzata. Per dire, fidanzata: era una così, che non disdegnava la compagnia, per quello era stata con uno come Lazzaro. Ma la sua presenza, è vero, l’aveva acquietato un po’, e Lazzaro aveva smesso di girare per i campi di notte e la mattina prendeva la corriera per scendere a scuola, chè a venti e passa anni non era ancora diplomato.

Adesso Lazzaro è coricato sul pavimento della cucina; da questa notte, da quando si sono sentiti i colpi di fucile. L’ha detto Nardelli – l’aveva capito subito che era un fucile da caccia – prima di rintanarsi nel bar e scolarsi due cicchetti che erano ancora le undici e il vecchio prete aveva appena concluso la prima messa. Nardelli ha detto che non lo spostano perché tanto è già morto e che Cobalto se l’è svignata perché non sopportava di vedere quel disastro. Forse è il caso di riaccompagnarlo e gli altri guardano lo Zoja ma lui dice: ve lo scordate.

Il Lazzaro che da piccolo si affacciava al bancone in punta di piedi per comprare le figurine, lo Zoja non lo vuole vedere lungo disteso. È inguardabile un figlio sul pavimento – i suoi studiano fuori, chissà ora che stanno facendo, se si sono alzati o ciondolano ancora in pigiama –, ci vuole una donna: sua moglie sta facendo un cappuccino.

«Vai» le dice con la parvenza di ordinare quando in realtà è una supplica.

Lei si slaccia il grembiule con la parvenza di ubbidire ma è lì che freme, da quando stanotte ha sentito le sirene. Se lo deve togliere dalla testa, deve vederlo coi suoi occhi. Voleva che finisse la storia di Lazzaro; tutte quelle voci urlate –in piena notte, nell’aia, sullo stradone–; cose ammassate nel cortile; nocche spelate; parole sconce; portiere sbattute; risate sguaiate; odori di donne strane; gente brutta in casa che mangiava al loro tavolo, toccava le cose della madre, il gruzzoletto in contanti del padre racimolato moneta su moneta. Dicono che bevessero anche dalla bottiglia del whisky e che qualche volta cantassero e sparassero i petardi per spaventare le galline.

Tutti, in paese, volevano che Lazzaro sparisse.

Era rimasto stranamente piccolo, non basso, anzi, proteso verso l’alto come un tuffatore che sta per spiccare il salto, ma liscio e imberbe e, con quei capelli da indiano, quasi femmineo. E sarebbe stato anche bello se non avesse avuto la bocca troppo larga e la parte bassa del viso come un po’ volgare, e le dita sempre troppo mobili. C’era qualcosa di strano in quel grattare, schiacciare, premere, bussare; mani mai sporche di biro o di olio di motore, mani che sapevano di soldi facili.

C’era chi lo diceva apertamente che lo vedeva, il Lazzaro, col giubbotto di pelle slacciato, e una mano nella tasca dei jeans, l’altra col pollice in fuori. Sosteneva anche che qualche macchina si fermasse, e che per lo più si appartassero in una curva della strada sterrata che sale al cimitero. Fatto sta che Lazzaro spariva per più giorni e il prete in chiesa lo diceva: se qualcuno ha visto o sa, lo dica, per quella povera madre, per quel povero padre.

Fino a quella notte Lazzaro era sempre tornato. Col giubbotto aperto e l’aria malsana, insano come i parassiti sui meli.

Adesso le donne del paese lo vogliono vedere steso sul pavimento della cucina, inerme come un neonato, bello come era stato da bambino, al sicuro ormai dal male che gli è già stato fatto.

Camminano in diverse accanto alla moglie dello Zoja, verso la casa dei Cobalto che è un po’ in alto nel paese, in una piccola radura di gelsi.

Nell’aia è una gran calma, come dopo il parto delle vacche. Un gran silenzio. Le donne scansano la tenda per le mosche.

Lazzaro è sul pavimento a braccia larghe, la bocca chiusa, i capelli da indiano aperti come un fiore, solo una macchia di sangue si è allargata sotto la testa.

Sangue salutare, direbbe il vecchio prete, piangendo come Gesù nel Vangelo di Giovanni; lo racconta a ogni funerale perché è importante non terrorizzarsi del proprio terrore, se no non la si vedrà la Resurrezione. Non si riuscirà mai a vedere Lazzaro alzarsi dal pavimento, fregarsi i gomiti e sorridere a sua madre. Metterle un braccio attorno alle spalle, voltarsi insieme a guardare la luce gialla sui meli, con gli occhi luminosi che aveva da bambino.

«Di nuovo» dirà Lazzaro alla luce che via via scema, o «dall’inizio» o «un’altra storia.»

Quella che si è conclusa stanotte non è piaciuta a nessuno.

 

Foto di Sara Gambolati

5 pensieri su “Lazzaro

  1. Leggo sempre volentieri i racconti di Sara Gambolati ho come l’impressione che stia facendo il censimento di un piccolo paese di provincia, una Vigata del centro nord, o una Dogville, con tutto il nascosto che non si vuole mostrare, ma che alla fine esplode. Brava.

  2. che bel racconto. Stupenda ricerca delle parole da usare, così chiare e importanti senza essere pesanti: Appollaiato, rubizza… e bellissime frasi da rileggere più volte, come “Adesso le donne del paese lo vogliono vedere steso sul pavimento della cucina, inerme come un neonato, bello come era stato da bambino, al sicuro ormai dal male che gli è già stato fatto.”
    Si avverte il paese fermo, congelato in un alba immobile. Il tempo sta per ripartire ma fatica a farlo. Le donne, che sanno da dove viene la vita, non hanno paura della morte. Vogliono vedere la fine, le donne, nel bene e nel male. Trovo questo aspetto commovente.
    Apprezzo molto anche la lunghezza. Come pochi legni danno vita ad una fiamma che cresce, queste poche righe fanno nascere molti pensieri e portano il racconto a continuare nella testa del lettore, molto oltre i limiti del testo.
    Complimenti sentiti.

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